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venerdì 5 luglio 2013

possa esperimentare la più grande delle gioie che è quella del donare e del donarsi


Credo in Dio, e credo nell’uomo come immagine di Dio.

Credo negli uomini, nel loro pensiero,
nella loro sterminata fatica
che li fa essere quello che sono.

Credo nella vita come gioia e come durata:
non prestito effimero dominato dalla morte
ma dono definitivo.

Credo nella vita come possibilità illimitata
di elevazione e di sublimazione.

Credo nella gioia: la gioia di ogni stagione, di ogni tappa,
di ogni aurora, di ogni tramonto,
di ogni volto, di ogni raggio di luce
che parta dal cervello, dai sensi, dal cuore.

Credo nella possibilità di una grande famiglia umana
quale Cristo la volle:
scambio di tutti i beni
dello spirito e delle mani, nella pace.
Credo in me stesso, nella capacità che Dio mi ha conferito
perché possa esperimentare
la più grande delle gioie
che è quella del donare e del donarsi.
(P.Giulio Bevilacqua, Credo).

Giulio Bevilacqua era nato a Isola della Scala (Verona), il 14 settembre 1881, ultimo dei dieci figli di Carlotta Oliari e di Matteo, commercianti provenienti dalla trentina Val di Ledro. Trasferitosi con la famiglia a Verona, prese parte attiva alla vita della locale comunità cristiana e alle lotte sociali del tempo. Dopo essersi laureato a Lovanio in Belgio con una tesi sulla legislazione operaia in Italia, entrò tra i Filippini, a Brescia, e fu ordinato sacerdote nel 1908. Prese a svolgere la sua attività di apostolato soprattutto tra i lavoratori e gli studenti, insegnando col Vangelo la consapevolezza dei propri diritti di uomini e di cittadini. Inviato al fronte durante la Grande Guerra, al servizio di soccorso ai feriti, ne fu profondamente segnato. Definì la guerra: “crisi di dignità, notte di miseria umana, follia e abisso di dolori, è un inferno inutile”. La denuncia più dura l’avrebbe riservata, solo pochi anni più tardi, al fascismo, denunciato come dottrina che stravolge ogni valore, pratica violenta, dittatura civile, e forza anticristiana, con cui è impossibile venire a patti. Per sfuggire al fascismo, si rifugiò in Vaticano, ove rimase dal 1928 al 1932, stringendo una profonda amicizia con mons. Montini, il futuro Paolo VI. All’entrata dell’Italia in guerra, nel 1940, pur denunciando la scelta sciagurata del Paese come “apostasia da Cristo” decise di partire per il fronte, come cappellano, per condividere le condizioni dei suoi giovani. Tornato a Brescia, alla fine della guerra, si dedicò alla predicazione e all’approfondimento della pastorale liturgica, ma soprattutto alla cura pastorale dei più poveri nel suo quartiere di periferia. Chiamato a Roma per far parte della Commissione preparatoria del Concilio Vaticano II, fu creato, nel 1965, cardinale. Accettò a condizione di poter restare come parroco tra la sua gente. Il Venerdì santo di quello stesso anno si sentì male in chiesa. Celebrò l’ultima messa con i suoi fedeli nel giorno di Pasqua. Morì il 6 maggio 1965, mentre pregava la Salve Regina.

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