di qua gli oppressori, di là gli oppressi;
di qua coloro che s’innalzano, di là gli umilati.
I primi dicono in cuor loro: “Non c’è Dio!”.
Non lo dicono a voce alta,
l’affermazione non sale dal cuore alle labbra,
con le labbra professano di credere in lui.
A dire il vero, neanche in cuor loro intendono negarne l’esistenza:
è anche possibile che esista, un Dio, perché no?
Ma di certo non si cura di quel che fanno gli uomini sulla terra!
La realtà, però, è che Dio scruta ciò che fanno le sue creature.
Vede come gli uomini “divorano” gli uomini;
e (secondo l’interpretazione più immediata della lectio difficilior del versetto 4),
a differenza dell’animale sacrificale definito “pane di Dio” (cf Lv 21,6),
questo non è un cibo su cui si possa invocare il Nome di Dio.
Il salmista contempla allora in visione profetica ciò che accadrà:
ecco, di nuovo i corrotti si gettano sulla loro preda,
ma là sono atterriti insieme da spavento, uno spavento
– così è scritto nella lezione più prolissa del Salmo 53 –
come non vi è mai stato:
là, in mezzo a coloro che essi credevano in balia del loro arbitrio,
appare la Presenza di Dio,
di quel Dio che essi credevano non si curasse delle faccende umane
e invece è il rifugio degli oppressi.
E la sentenza di Dio tuona contro di loro. [...]
Un interprete più tardo dei Salmi quale io sono, non può, come il salmista,
appagarsi di una mera bipartizione di Israele o del mondo degli uomini.
La lacerazione fra chi fa violenza e chi la subisce,
fra l’elemento fedele e quello ribelle,
egli la vede correre non solo attraverso ciascun popolo,
ma attraverso ciascun gruppo di un popolo, anzi:
ciascuna anima.
Solo nei tempi di grande crisi si fa palese la segreta lacerazione di un popolo.
(Martin Buber, Il cammino del giusto).
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