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giovedì 18 luglio 2013

valorizzando ogni istante mediante il compimento della volontà del Padre, sapendo che ogni istante della vita terrena passa e non torna, ma non passa l’impronta d’amore che uno riesce a imprimervi.

Continuando nella lettura del brano proposto (Mt 11,28-30)oggi dalla liturgia eucaristica troviamo numerosi insegnamenti che vengono sotto esplicitati da don Vincenzo Cuffaro nel suo puntuale commento.
Il testo si apre con un invito: “Venite a me” (Mt 11,28). Questa esortazione iniziale sembra contrastare con la logica dell’Incarnazione, nella quale è il Verbo che è venuto fino a noi, fin dentro la nostra natura; questo fatto, però, ci permette di cogliere un altro aspetto della verità dell’Incarnazione: con la sua venuta sulla terra, Cristo non ha colmato totalmente lo spazio che ci separava da Lui. L’esortazione “Venite a me”, implica necessariamente che vi è ancora un tratto di strada per arrivare fino a Lui, e che esso deve essere percorso singolarmente da ciascuno che davvero desideri incontrarlo...
Il fatto che Cristo rivolga il suo invito a coloro che sono affaticati e oppressi
esprime l’idea che
non tutti gli uomini sono capaci di attendersi qualcosa da Lui.
In particolare, quelli che non ritengono di essere bisognosi di guarigione e di liberazione, che pensano di non essere affaticati e oppressi – perché spesso sono proprio loro che affaticano e opprimono -, tutti coloro che pensano di essere così bravi da potersela cavare da soli, non possono entrare in questa categoria dell’invito di Gesù.
A essi la Parola di Dio potrebbe non dire nulla.
Vi sono taluni che vivono in una completa autosufficienza e non capiscono quale necessità l’uomo abbia di un redentore.
Essi negano il Cristo, perché negano che l’uomo ne abbia bisogno.
L’Apostolo Giovanni spiega questo fenomeno come il risultato dell’operazione dello  spirito dell’anticristo, che nega appunto il Cristo venuto nella carne (cfr. 2 Gv 7-6). La convinzione suscitata dallo spirito dell’anticristo
si basa sul dogma che
la natura umana possa farcela da sola
a trovare la risposta alle proprie domande e
a giungere al massimo livello di pace e di benessere.
E tutto ciò senza Cristo, ritenendo che essa abbia in sé tutte le energie di salvezza.
Si tratta, com’è ovvio, di concezioni panteiste, del tutto estranee alla vera natura del vangelo.
Il versetto successivo esprime una condizione ben precisa come fondamento della pace offerta da Gesù, che non è una pace costruita dal basso, come quella proposta dal panteismo, ma è la riconciliazione con Dio verificatasi una volta per tutte sulla croce.
L’invito è accompagnato perciò da una richiesta:
“Prendete il mio giogo sopra di voi” (Mt 11,29).
Occorre notare come Cristo dica: “il mio giogo”, 
e non parli di un giogo qualunque,
e neppure, come taluni pensano,
di un giogo posto arbitrariamente da Dio sulle nostre spalle,
come se la nostra sofferenza fosse dettata da una mancanza di criterio,
o come se addirittura Dio se ne compiacesse.
Il giogo, a cui il Maestro si riferisce,
non è quello che Dio pone su di noi,
ma quello che Egli ha preso su se stesso.
Sono quindi in errore quelli che ritengono che il concetto cristiano di sofferenza
consista nell’accogliere il peso che Dio mette sulle nostre spalle.
Piuttosto:
Noi siamo invitati ad accogliere quello stesso giogo che Cristo ha preso già, divenendo, in un certo senso, compartecipi della sua missione di Redentore. 
L’esortazione prosegue:
“E imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29):
essere miti e umili di cuore non è tanto un problema caratteriale,
non è una questione di atteggiamento remissivo,
in contrasto con chi suole ribellarsi per ogni cosa,
ma significa semplicemente sottomettersi con fiducia al divino progetto,
come i bambini,
senza sottoporlo al tribunale della ragione.
Il giogo di Cristo è la sua sottomissione al Padre,
è il suo vivere la vita quotidiana
valorizzando ogni istante mediante il compimento della volontà del Padre,
sapendo che ogni istante della vita terrena passa e non torna,
ma non passa l’impronta d’amore che uno riesce a imprimervi.
Ogni atto d’amore si ritrova nell’eternità,
anche se passa irreversibilmente il tempo fuggevole in cui è stato compiuto.
Prendere il giogo di Cristo significa quindi entrare nella sua sottomissione al Padre e con la sua stessa fiducia filiale dare un valore eterno a ogni istante del tempo che trascorre, riempiendolo d’amore.
La promessa, infine, è questa: “E troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29),
perché fare la volontà di Dio è dolce, anche se sembra ardua a chi la osserva prima di compierla.
Ma non c’è altra possibilità di trovare ristoro.
Anzi, il vero dolore radicale e inconsolabile 
è proprio 
la disarmonia tra la nostra vita quotidiana e la volontà del Padre, 
perché inchioda l’uomo in una tremenda orfananza.
Il giogo di Cristo, guardato da lontano fa paura,
ma assunto su di noi, e portato con Lui nella fede e nella pietà filiale,
diventa misteriosamente una sorgente inesauribile di consolazione:
“Il mio giogo infatti è dolce, il mio carico leggero” (Mt 11,30).
Ancora una volta, Cristo insiste sugli aggettivi possessivi “il mio giogo, il mio carico”,
il Padre non impone su noi la sofferenza in modo arbitrario,
ci invita piuttosto a
camminare insieme a Cristo sulla stessa strada
che Lui ha scelto di percorrere come uomo.
E’ l’unica dove non si inciampa.

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