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domenica 3 novembre 2013
I momenti di preghiera sono palestra, allenamento per imparare a vivere tutte le situazioni come occasione di incontro con Dio, come ambito di vita teologale.
I criteri della maturità desunti dalla morte
Se morte è il traguardo della nostra avventura terrena, essa ci offre anche i criteri per l’orientamento del cammino. Ne possiamo esaminare cinque.
- il criterio dell’identità. Di fronte alla morte non sarà importante che cosa abbiamo realizzato nel mondo, quali opere abbiamo compiuto, bensì chi siamo diventati attraverso tutto quello che abbiamo vissuto. La morte ci chiederà: chi sei? chi sei diventato? Che nome stai abitando? Questo è il criterio fondamentale. Oggi perciò non serve chiedersi: cosa sto realizzando? Che risonanza ha quello che faccio? Dobbiamo piuttosto chiederci: chi sto diventando vivendo questa esperienza? questo fallimento, questa calunnia, o questo successo?
- il criterio del distacco. La morte ci chiederà di abbandonare tutto, di aver imparato a distaccarci dalle cose, dalle persone, dalle situazioni, perché dovremo abbandonare tutto. Più ci alleniamo al distacco e più acquistiamo l’identità filiale, cioè accogliamo il dono di Dio che ci rende figli.
- l’interiorizzazione nei rapporti. La morte ci chiederà di partire in solitudine, ma pieni di presenze. Ci chiede perciò di vivere i rapporti in modo tale da portarci gli altri dentro, senza condurli con noi per mano. Il bambino piccolo nei primi tempi non è capace di interiorizzare i suoi genitori, quando diventa capace è in grado di allontanarsi da loro, di andare a scuola perché porta dentro l’immagine dei suoi. Nelle difficoltà può pensare: “poi lo dico a mia mamma, poi viene mio papà” e trova la forza di andare avanti. A mano a mano che cresce la persona ha bisogno sempre più di interiorizzare presenze. Esse costituiscono la nostra risorsa, perché noi diventiamo attraverso i rapporti. La morte ci chiederà di partire senza condurci nessuno per mano, ma portando in noi tutti coloro che abbiamo amato o ci hanno amato.
- l’oblatività, cioè la capacità di donare vita. Tutti cominciamo l’esistenza con atteggiamenti possessivi, succhiando vita dagli altri. Da adulti non possiamo più essere persone che succhiano la vita, ma persone che la consegnano. La morte ci chiederà di consegnare tutto, persino il nostro corpo che ci è servito per diventare noi stessi. Tutto dobbiamo restituire, tutto dobbiamo diffondere intorno a noi. Lo potremo fare solo se siamo diventati totalmente oblativi.
- l’abbandono fiducioso. La morte ci chiederà di essere così capaci di fidarci della vita da saperla perdere per ritrovarla. E’ l’atto supremo di fiducia. Tutte le situazioni che viviamo ci allenano a fidarci così dell’azione di Dio, da saper crescere anche nelle situazioni negative, perché come dice Paolo in Rom. 8,37 segg. “nessuno può separarci dall’amore di Dio”. Noi possiamo vivere tutte le situazioni in modo da crescere come figli. Nessuno ci può separare dall’amore. In tutto questo noi siamo più che vincitori… Nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù. In tale modo possiamo vivere tutte le situazioni dell’esistenza, favorevoli e sfavorevoli, accogliendo il dono di Dio e testimoniando l’amore del Padre.
In questo senso non ci sono spazi sacri cioè riservati a Dio: tutta l’esistenza diventa una “offerta del proprio corpo” “un sacrificio gradito a Dio” “un culto spirituale” (Rom 12, 1). I momenti di preghiera sono palestra, allenamento per imparare a vivere tutte le situazioni come occasione di incontro con Dio, come ambito di vita teologale. Dobbiamo ricordare che il dono di Dio ci previene sempre attraverso creature. È molto facile, soprattutto all’inizio del cammino identificare la creatura come il dono da accogliere, mentre il dono è un altro. Ci perviene attraverso la creatura ma la trascende.
Analogamente spesso ci illudiamo di essere noi ad offrire vita ai fratelli. Noi invece siamo un vuoto sempre riempito, siamo un nulla che viene attraverso dall’energia creatrice.
Non siamo noi ad offrire, a donare, ad amare, ma è il bene che in noi diventa amore.
E’ la verità che in noi diventa parola, nei limiti dei nostri modelli.
Così comprendiamo perché Gesù rimprovera il notabile che lo chiama buono.
Nessuno è buono.
Dio solo è buono.
E’ l’espressione chiara della profondità spirituale di Gesù: la consapevolezza del nulla, continuamente riempita dal tutto che è Dio. Io non faccio nulla da me stesso. Se noi vivessimo in questo modo, noi potremmo vivere la spiritualità cristiana ed essere testimoni efficaci dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù.
Carlo Molari
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