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domenica 9 giugno 2013

Come è vero che “si è ricchi solo di ciò che si dona”

Perché si dona?
La risposta è semplice:
per collegarsi alla vita,
per rompere la solitudine,
far parte della catena, trasmettere, sentire che non si è soli,
che si fa parte di qualcosa di più vasto e segnatamente dell’umanità.
È così ogni volta che si fa un dono
a uno sconosciuto, a uno straniero, a Dio stesso.
Non era questo il sentimento vissuto in occasione delle feste di pellegrinaggio,
e particolarmente a Shavuot,
quando gli abitanti d’Israele si ritrovavano tutti insieme a Gerusalemme,
per donare le loro offerte in uno spirito di eccezionale convivialità e di umanità condivisa?
Questo dono delle primizie a Dio,
o questo dono della tzedaka a uno sconosciuto,
che forse non lo si vedrà neppure più,
non avrebbe fondamentalmente per oggetto di fare sentire questa comunicazione,
di rompere l’isolamento,
da cui questo sentimento di trasformazione, di apertura, di vitalità
che invade coloro che donano?
Non affermano forse che nel fatto stesso di donare,
essi ricevono assai più di quanto donano?
Come è vero che “si è ricchi solo di ciò che si dona”!
In questo senso, il desiderio di donare e di ricevere poggia sul bisogno di amare e di essere amati,
che è assai più forte e più fondamentale del bisogno di acquisire e accumulare dei beni.
Perché, non dimentichiamolo, l’essere umano è anzitutto, nel suo intimo più profondo, un essere di relazione.
(Gilles Bernheim, Le souci des autres au fondement de la loi juive)

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