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mercoledì 11 aprile 2012

il pianoforte su cui suona Dio


“La leggenda del pianista sull’oceano” di Giuseppe Tornatore (1998). Alla fine, quando il protagonista  (l’attore è Tim Roth) spiega perché non vuole scendere dalla nave in demolizione descrive proprio il suo disagio di fronte ad un mondo che non ha limiti, e paragonandolo ad un pianoforte dice:
Tu pensa un pianoforte: i tasti iniziano, i tasti finiscono. Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può
fregarti. Non sono infiniti loro;  tu sei infinito e dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace ed in questo posso vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti (New York, ndr), milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai – perché questa è la verità, che non finiscono mai – quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Sei seduto sul seggiolino sbagliato, quello è il pianoforte su cui suona Dio

martedì 24 gennaio 2012

pensavamo l' amicizia come il prolungamento di una fede


L' amicizia prima di Facebook

QUEL che ricordo dell' amicizia ai tempi in cui non esisteva Facebook e nemmeno la Rete, le mail, gli sms l' ho scritto in Emmaus, nell' amicizia di quei quattro ragazzini diciassettenni che muovono il romanzo. I libri non sono mai, stupidamente, la verità, maè vero che noi eravamo più o meno così, come quei quattro. Una cosa che ricordo bene, ad esempio, è che pensavamo l' amicizia come il prolungamento di una fede: fosse religiosa, come nel nostro caso, o anche laica, o politica, non importava. Anche il Toro andava bene. Ma era importante quel credere comune, non sarebbe bastata la simpatia né qualsiasi altra prossimità sentimentale. A tenerci uniti era la certezza che stavamo combattendo insieme una qualche sotterranea guerra, di cui poi non capivamo neanche molto. In definitiva negli amici cercavamo meno un sollievo alle nostre solitudini che non l' iscrizione a un qualche eroismo collettivo. Ciò dava ai legami un tratto di necessità, o forse di sacralità, che ci faceva impazzire. Vi trovavamo una fermezza, un' inevitabilità, che non trovavamo altrove. Va da sé che non c' erano amici che non lo fossero per la pelle. Come i quattro di Emmaus, da ragazzi costruivamo le amicizie su una bolla di dolore. Quando non c' era, ce la inventavamo, credo. Ma sempre ci si riconoscevaa partire da una ferita, e ci si voleva bene - e quanto - scambiandoci il segreto della nostra tristezza. Ne sapevano poco le nostre famiglie, e niente il mondo: ma lo spazio di quel penare, che tenevamo segreto, dettava il perimetro di una luogo riservatissimo a cui proprio le amicizie, e solo loro, accedevano. Così essere amici significava condividere un segreto. E scambiare malinconia. Non voglio dire che fossimo depressi o pateticamente romantici (magari lo eravamo anche un po' , ma non è quello il punto), voglio dire che quando cercavamo il massimo della vicinanza ci riusciva più facile farlo entrando nell' ombra dei nostri pensieri cupi, perché lì trovavamo la perfezione. L' allegria era meno interessante. Della felicità non ci accorgevamo. E poiché non esisteva Facebook, essere amici significava fare delle cose. Non parlarne, o raccontarle: farle. Se cerco di ricordare momenti precisi che significassero amicizia, vedo scene in cui sempre stavamo facendo qualcosa. E mai in casa. Esisteva un nesso preciso tra l' alzare il culo per andare a fare cose e il vivere le amicizie. Anche quando ci scrivevamo, era una cosa particolare, accadeva di rado, e allora una lettera era molto più un fatto che un modo di comunicare. Era un gesto. Le telefonate interminabili (ciò che di più vicino riesco a immaginare al chattare odierno) ce le tenevamo per le fidanzate: tra noi sarebbe stato ridicolo. Parlavamo molto, naturalmente, ma era sempre roba cucita in un gesto, e tempo legittimato da altro tempo, speso in un qualche lavorìo. Ci sarebbe parso tremendamente vacuo frequentarci via computer. Non avremmo saputo cosa dirci. Quando invece anche solo il "tornare da giocare a pallone" diventava uno spazio perfetto, di camminate memorabili, e parole a lungo covate. C' entravano il sudore addosso, le scarpe slacciate, e il pallone, sporco da far schifo, tra le mani, e farlo rimbalzare. Una finestrella su uno schermo, quello ci sarebbe apparso come un ripiego inspiegabile. Tutto ciò ci costringe a concludere spesso, usando un termine che è tramontato, che quelle erano amicizie profonde. Tacitamente, intendiamo dire che quelle di Facebook non lo sono. Ma la realtà non è così semplice. Se un termine tramonta un perché ci sarà, e l' estinguersi di un profilo certo, per la parola profondità, qualcosa deve insegnarci. Era il nome che davamo a una certa intensità, ma era un nome probabilmente inesatto. Alludeva a coordinate (superficie profondità) che il mondo quasi certamente non ha: oggi appaiono come una semplificazione un po' infantile, e stanno all' esperienza reale come un cartone sta al 3D. Strumenti poveri, verrebbe da dire. Così ci resta la memoria di una certa intensità, ma pochi nomi certi per nominarla con esattezza. Per questo trarre delle conclusioni che non siano da bar sembra difficile. Io posso giusto annotare un' osservazione che oltre tutto ha il limite di riferirsi alla mia esperienza personale: in genere la "profondità" che tendo ad attribuire retrospettivamente a quelle amicizie non sembra aver influito sulla loro resistenza al tempo. Alcune se ne sono sparite, altre sono rimaste, come se una regola non ci fosse: ha tutta l' aria di essere una faccenda dannatamente casuale. E se mi trovo ancora appiccicato addosso persone con cui tornavo da giocare a pallone, è vero che tante altre amicizie che erano analogamente "profonde" se ne sono andate con un fare liquido strabiliante, come se non avessero agganci da nessuna parte, e la benché minima forma di necessità. È bastato alle volte uno spostamento minimo, un' inezia, e già non c' erano più. Così quelle che sembravano pietre incastonate si sono svelate pietre appoggiate su qualcosa di sdrucciolevole: e la petrosità una categoria che solo nella fantasia ha un nesso necessario con la permanenza. Da giovani non potevamo immaginarlo, ma la verità è che si può essere petrosi e provvisori, noi lo eravamo. Rolling stones, come ci insegnò poi qualcuno che, senza saperlo, aveva già capito tutto. - ALESSANDRO BARICCO

giovedì 14 aprile 2011

in realtà è il nostro modo di andare diritti


Quello che hanno scoperto con scientifica sicurezza a forza di studiare i fiumi, tutti i fiumi, hanno scoperto che non sono matti, è la loro natura di fiumi che li obbliga a quel girovagare continuo, e perfino esatto, tanto che tutti, dico tutti, alla fine, navigano per una strada tre volte più lunga del necessario, anzi, per essere esatti, tre volte virgola quattordici, giuro, il famoso pi greco, non ci volevo credere, in effetti, ma pare che sia proprio così, devi prendere la loro distanza dal mare, moltiplicarla per pi greco e hai la lunghezza della strada che effettivamente fanno, il che, ho pensato, è una gran figata, perché, ho pensato, c’è una regola per loro vuoi che non ci sia per noi, voglio dire, il meno che ti puoi aspettare è che anche per noi sia più o meno lo stesso, e che tutto questo sbandare da una parte e dall’altra, come se fossimo matti, o peggio smarriti, in realtà è il nostro modo di andare diritti, modo scientificamente esatto, e per così dire già preordinato, benché indubbiamente simile a una sequenza disordinata di errori, o ripensamenti, ma solo in apparenza perché in realtà è semplicemente il nostro modo di andare dove dobbiamo andare, il modo che è specificatamente nostro, la nostra natura, per così dire, cosa volevo dire?, quella storia dei fiumi, sì, è una storia che se ci pensi è rassicurante, io la trovo molto rassicurante, che ci sia una regola oggettiva dietro a tutte le nostre stupidate, è una cosa rassicurante, tanto che ho deciso di crederci, e allora, ecco, quel che volevo dire è che mi fa male vederti navigare curve da schifo come quella di Couverney, ma dovessi anche andare ogni volta a guardare un fiume, ogni volta, per ricordarmelo, io sempre penserò che è giusto così, e che fai bene ad andare, per quanto solo a dirlo mi venga da spaccarti la testa, ma voglio che tu vada, e sono felice che tu vada, sei un fiume forte, non ti perderai…

venerdì 8 aprile 2011

Semplicemente è lontana


Mi ha detto che secondo lui la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesci a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Quando aspetti o ricordi, mi ha detto, non sei né triste né felice. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.
Alessandro Baricco,  Questa Storia

lunedì 4 aprile 2011

Le cose che si sanno


Quel che di bello c’è nella vita è sempre un segreto… Per me è stato così… Le cose che si sanno sono le cose normali, o le cose brutte, ma poi ci sono i segreti, ed è lì che si va a nascondere la felicità.
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia

venerdì 28 gennaio 2011

qualcuno capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume

" Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, 
per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi.
E qualcuno - un padre, un amore, qualcuno -
capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume -
immaginarlo, inventarlo - e sulla sua corrente posarci,
con la leggerezza di una sola parola, addio.
Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita,
qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero
portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle
e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa.
Ma tutto sarebbe, finalmente umano.
Basterebbe la fantasia di qualcuno - un padre, un amore, qualcuno.
Lui saprebbe inventarla una strada,
qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare.

Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare."


da "Oceano mare"  di  Alessandro Baricco

martedì 22 giugno 2010

davanti a qualcosa che era infinitamente compiuto


‘Avrebbe voluto dirle che mentre la guardava, quella sera, rannicchiata là nel buco, così ordinata e pulita – pulita -, lui aveva provato una specie di pace che poi non gli era più successo di ritrovare, o almeno poche volte, e davanti a un paesaggio o fissando lo sguardo di un animale. Gli sarebbe piaciuto spiegarle esattamente quella sensazione, ma sapeva che la parola pace non bastava a descrivere quello che gli era successo, e d’altra parte non gli veniva in mente altro, se non forse l’idea che era stato come trovarsi davanti a qualcosa che era infinitamente compiuto.’
[da "Senza sangue" - A. Baricco]

martedì 8 giugno 2010

E’ la risposta che mi manca


So perfettamente qual’è la domanda.
E’ la risposta che mi manca.
Corre , questa carrozza, e io non so dove.
Penso alla risposta, e nella mia mente diventa buio.

Così
questo buio
io lo prendo
e lo metto
nelle vostre mani.
E vi chiedo
Signore Buon Dio
di tenerlo con voi
un’ora soltanto
tenervelo in mano
quel tanto che basta
per scioglierne il nero
per sciogliere il male
che fa nella testa
quel buio
e nel cuore
quel nero,
vorreste?
Potreste
anche solo
chinarviguardarlo
sorriderne
aprirlo
rubargli una luce
e lasciarlo cadere
che tanto
a trovarlo
ci penso poi io
a vedere dov’è.
Una cosa da nulla per voi,
così grande per me.
Mi ascoltate
Signore Buon Dio?
Non è chiedervi tanto
chiedervi se.
Non è offesa
sperare che voi.
Non è sciocco
illudersi di.
E’ poi solo una preghiera,
che è un modo di scrivere il profumo dell’attesa.
Scrivete voi,
dove volete,
il sentiero
che ho perduto.
Basta un segno,
qualcosa,
un graffio
leggero
sul vetro
di questi occhi
che guardano
senza vedere,
io lo vedrò.
Scrivete
sul mondo
una sola parola
scritta per me,
la leggerò.
Sfiorate
un istante
di questo silenzio,
lo sentirò.
Non abbiate paura,
io non ne ho.

E scivoli via questa preghiera con la forza delle parole
oltre la gabbia del mondo fino a chissà dove.
 
Amen.
[Oceano Mare - A. Baricco]

venerdì 23 aprile 2010

aspettare e ricordare



Mi ha detto che secondo lui la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Quando aspetti o ricordi, mi ha detto, non sei né triste né felice. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.

Alessandro Baricco, da “Questa Storia”
Scrivere è come una forma di preghiera.

Franz Kafka, Diari