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giovedì 7 febbraio 2013

non è tanto facile metterci d’accordo quando si tratta di rivendicare diritti molto più profondi e importanti


L’operaio.

Cristo,
sono un operaio,
sono uno che per un pezzo di pane rischia di dovere vendere la sua dignità e la sua libertà.
Sono uno condannato a diventare un oggetto che fa un giorno
dietro l’altro sempre lo stesso movimento.
Sono il prolungamento di una macchina.
Ma anche questo mio gesto non è libero perché vivo al servizio della macchina che mi comanda.
Diventato oggetto più che persona, cado continuamente nella tentazione di trattare gli altri, anche i miei figli, anche mia moglie, come tanti altri oggetti.
Torno a casa troppo stanco della mia schiavitù monotona e quotidiana per poter giocare in pace con i miei bambini e abbracciare serenamente e degnamente mia moglie.
Schiavo sul lavoro divento tiranno nel mio tempo libero.
Tempo libero, Signore?
Questa espressione è la dimostrazione più chiara che noi uomini abbiamo accettato definitivamente che il tempo del lavoro è il tempo della “schiavitù”.
Tu, cristo, sei stato un lavoratore, ma non uno schiavo.
Noi o accettiamo la schiavitù o moriamo di fame.
Certo, nonostante la mia povera cultura e il mio carico di alienazione, capisco che il lavoro dovrebbe essere un’altra cosa. Dovrebbe essere qualcosa che io realizzo con le mie mani, che io creo e metto al servizio degli altri.
Sento, Signore, che esisto non per lavorare, ma per creare, per elaborare un progetto utile agli uomini, per programmarlo con gli altri se non mi è possibile farlo da solo, per realizzarlo con le mie mani e con lo sforzo della mia volontà e in collaborazione con gli altri uomini quando va oltre le mie possibilità.
E invece ora l’operaio, non è certo creatore, programmatore, libero realizzatore, perché tutto ci viene imposto e non interveniamo efficacemente in nessuna gestione creativa.
Quelli che concepiscono le idee, lo fanno per guadagnare denaro: per questo nasce la concorrenza.
Il lavoro, quello che ci fa schiavi, lo programmano i tecnici: non artisti o creatori.
Noi operai siamo i ciechi esecutori della macchina e siamo castigati quando non le obbediamo.
E quello che è ancora più triste e che nonostante questo sistema alienato e degradante, il medesimo prodotto che noi facciamo è contro l’uomo, contro noi stessi: sono proprio io che produco il veleno per me e per i miei figli.
C’è una tristezza, una schiavitù maggiore?
A noi operai ci chiamano la classe d’avanguardia, quelli destinati a fare la rivoluzione per portare la giustizia al mondo, perché siamo quelli più sfruttati.
Ma mi chiedo come potremmo fare una tale rivoluzione se al fondo di tutte le nostre lotte sono impostate per aumentare la quantità di veleno che produciamo.
Quali battaglie autentiche combattiamo perché non continuino a trattarci come cose ma come persone?
Quante battaglie combattiamo per rivendicare seriamente il nostro potere decisionale?
Ci troviamo sempre d’accordo per lavorare di meno e guadagnare di più. Ed è una battaglia giusta contro quanti desidererebbero il contrario, cioè che lavorassimo di più per guadagnare di meno.
Ma è triste costatare che non è tanto facile metterci d’accordo quando si tratta di rivendicare diritti molto più profondi e importanti, che ci permetterebbero di cominciare a vivere come persone libere e creative.
Come è difficile per esempio metterci d’accordo perché nascano progetti di un nuovo tipo di lavoro che ci realizzi, ci soddisfi e dia un senso alla nostra vita.
Cristo,
quale salto qualitativo dobbiamo fare per uscire dal compromesso con i nostri stessi padroni che ci lusingano con il benessere che essi hanno ottenuto e che noi coscientemente o incoscientemente desideriamo?
Montiamo in collera quando sono i “sistemati” che ce lo dicono perché ci pare una scusa per frenarci nella nostra rivendicazione sociale ed economica, ma quando ci troviamo a tu per tu con la nostra coscienza sappiamo che la vera rivoluzione la portiamo avanti quando, senza abbandonare la nostra lotta per la giustizia economica, ci batteremo per scoprirci veri uomini e per scrutare dentro di noi le nostre esigenze più profonde che ci chiamano a realizzare una vita umana, giusta, libera, fraterna, senza lasciarci sedurre dalle false necessità e dal miraggio di potere di certe ideologie.
Noi non siamo stati fatti per il potere.
Siamo stati fatti per creare la possibilità che permettano all’uomo una vita più umana.
La nostra forza ha le radici in questa scoperta. Per questo, Signore, mi rendo conto che non potremmo abbandonare le nostre catene senza una vera rivoluzione.
Ma quale?
La lotta per il potere che significa soltanto cambiare padrone?
O non sarà piuttosto la nostra rivoluzione, quella che faremo quando saremo tutti consapevoli di dover diventare i protagonisti di quel potere che ci ha schiacciato e impedito di esser uomini e creatori di un nuovo modo di vivere che non ripeta i vecchi schemi del passato?
Sarà troppo ingenuo voler cominciare di nuovo quando ci rendiamo conto che in fondo anche noi dispiace la vita dei nostri sfruttatori perché anch’essa alienante e disumana?
Abbiamo il diritto, noi lavoratori, e anche il dovere di unirci per dare una risposta comunelle comuni esigenze di tutti gli uomini?
Possiamo dire che almeno una volta si è pensato seriamente a una simile rivoluzione?
Cristo,
noi operai non ignoriamo la predilezione che tu hai per noi.
Per questo vorremmo sentire profondamente la nostra forte responsabilità insieme con i nostri diritti più sacri.
Insieme col pane per i miei che non posso non continuare a chiederti e per cui non posso continuare a lottare, ti chiedo, Signore, che mi liberi ogni mattino dalla tentazione di convertirmi in un nostalgico borghese, io che sento la vocazione di creatore e di rivoluzionario.
Se fosse il contrario, verremmo scavalcati dalle nuove generazioni a cui sembreremmo perfino complici degli sfruttatori.
Nel mondo che grida una rivoluzione globale, ogni compromesso che significa soltanto revisionismo e ogni patto col mondo dello sfruttamento sarà giudicato come diserzione e ingiuria.
Un no comunitario di tutti i lavoratori del mondo a un lavoro che è schiavitù e non creatività, non cambierebbe radicalmente e all’improvviso questa terribile macchina che noi continuiamo ad alimentare ogni giorno a prezzo della nostra dignità?
Cristo,
sveglia gli operai di tutto il mondo perché se noi continuiamo a dormire, la grande rivoluzione non ci sarà nessuno a farla e il mondo continuerà a mordere le sue catene di schiavitù.
E già sento la chiamata urgente alla libertà.
Un sogno?
Ma quello che sto vivendo può continuare a chiamarsi realtà?
(JUAN ARIAS,Preghiera nuda, Cittadella Editrice)

lunedì 12 marzo 2012

L'amore ha reso fragile il mio Dio

Il mio Dio non è un dio duro, impenetrabile, / insensibile, stoico, impassibile. / Il mio Dio è fragile. / E' della mia razza. / E io della sua. / Lui è uomo e io quasi Dio. / Perché io potessi assaporare la divinità / Lui amò il mio fango. // L'amore ha reso fragile il mio Dio. / Il mio Dio ebbe fame e sonno e si riposò. / Il mio Dio fu sensibile. / Il mio Dio si irritò, fu passionale, / e fu dolce come un bambino. // Il mio Dio fu nutrito da una madre, / ne sentì e bevve tutta la tenerezza femminile. / Il mio Dio tremò dinnanzi alla morte. / Non amò mai il dolore, non fu mai amico / della malattia. Per questo curò gli infermi. / Il mio Dio patì l'esilio, / fu perseguitato e acclamato. // Amò tutto quanto è umano, il mio Dio: / le cose e gli uomini, il pane e la donna; / i buoni e i peccatori. / Il mio Dio fu un uomo del suo tempo. / Vestiva come tutti, / parlava il dialetto della sua terra, / lavorava con le sue mani, / gridava come i profeti. // Il mio Dio fu debole con i deboli / e superbo con i superbi. / Morì giovane perché era sincero. / Lo uccisero perché lo tradiva la verità che era / nei suoi occhi. / Ma il mio Dio morì senza odiare. / Morì scusando più che perdonando. // Il mio Dio è fragile. / Il mio Dio ruppe con la vecchia morale / del dente per dente, / della vendetta meschina, / per inaugurare la frontiera di un amore / e di una violenza totalmente nuova. // Il mio Dio gettato nel solco, / schiacciato contro terra, / tradito, abbandonato, incompreso, / continuò ad amare. / Per questo il mio Dio vinse la morte. / E comparve con un frutto nuovo tra le mani: / la Resurrezione. / Per questo noi siamo tutti sulla via / della Resurrezione: / gli uomini e le cose. // E' difficile per tanti il mio Dio fragile. / Il mio Dio che piange, / il mio Dio che non si difende. // E' difficile il mio Dio abbandonato da Dio. / Il mio Dio che deve morire per trionfare. / Il mio Dio che fa di un ladro e criminale / il primo santo della sua Chiesa. / Il mio Dio giovane che muore / con l'accusa di agitatore politico. / Il mio Dio sacerdote e profeta / che subisce la morte come la prima vergogna / di tutte le inquisizioni della storia. // E' difficile il mio fragile amico della vita. / Il mio Dio che soffrì il morso / di tutte le tentazioni. / Il mio Dio che sudò sangue / prima di accettare la volontà del Padre. // E' difficile questo mio Dio, / questo mio Dio fragile, / per chi pensa di trionfare soltanto vincendo, / per chi si difende soltanto uccidendo, / per chi salvezza vuol dire sforzo e non regalo, / per chi considera peccato quello che è umano, / per chi il santo è uguale allo stoico / e Cristo a un angelo. // E' difficile il mio Dio Fragile / per quelli che continuano a sognare un Dio / che non somigli agli uomini. // (Juan Arias, Il mio Dio)

venerdì 2 dicembre 2011

mistero di Betlemme come la «nuova era del potere nel mondo


Bisognerebbe approfondire il mistero di Betlemme come la «nuova era del potere nel mondo.
Erode è il potere e opera l’ingiustizia. Cristo è debolezza e porta la giustizia e l’amore. Erode per difendere il suo impero, usa il suo potere assassinando degli innocenti.
Cristo per difendersi dalla morte si affida al Padre e rispetta Erode
Cristo andrà poi alla morte per dare la vita al mondo.
Pilato crocifiggerà la Vita per salvare se stesso.

Il potere del mondo usa la forza per difesa personale. Il potere di Dio usa l’amore per la salvezza degli altri.
Ma solo il potere che si umilia, la ricchezza che si fa povera, la libertà che si fa volontariamente schiava sono capaci di esercitare autorità morale sulle coscienze. L’unica autorità che può dire: 
«impara da me». L’unica autorità che può affermare: «io sono la via». L’unica capace di gridare: «non vi è lecito». L’unica che può arrivare a dire: «vieni e seguimi».
E se la Chiesa è il prolungamento vivo di Betlemme, la continuazione del mistero totale di Cristo, allora l’esercizio del suo potere, quel potere che Cristo le ha affidato, non può essere diverso. La Chiesa ha anzi un motivo in più per presentarsi al mondo sotto questa immagine di Cristo che comanda solo «servendo: è fatta della stessa carne del mondo, peccatrice come lui, sebbene sia un popolo prediletto. Una Chiesa che nasca e si presenti al mondo non nella debolezza e nell’abbandono di Betlemme ma in una culla d’oro di fronte alla quale si inginocchino gli erodi della terra, e che eserciti il suo potere non dal patibolo, dall’umiltà, dalla semplicità, dal rispetto per la libertà, dalla autenticità, dalla santità di vita, dall’amore appassionato per l’uomo; ma dal trono, dalla forza, dalla politica, dal potere temporale, dall’inquisizione, è una Chiesa che rinnega il suo carisma e che finirà per essere allontanata e temuta come i grandi del mondo, quando non misconosciuta o ridicolizzata.
Solo se saprà rispondere alla potenza del mondo e alla sua ingiustizia con l’impegno della propria vita e della sua fiducia nel Padre; alla forza con lo spirito di libertà e con l’accettazione umile del suo rischio; al timore per la perdita del potere e del prestigio col rinunciare alle sue corone e col mettersi a lavare i piedi degli uomini, di tutti, dei suoi stessi nemici, di quelli che la tradiscono, la perseguitano e perfino la negano, come fece Cristo con Giuda, soltanto così la Chiesa parlerà al mondo in nome di Dio. Con la parola di Dio potrà ottenere udienza nel santuario delle coscienze e gli uomini «riconosceranno la sua voce», una voce che essi già hanno dentro di sé. Allora si sentirà dire: «parla come chi ha autorità». Allora le si obbedirà come Dio vuole: con amore e per amore.

domenica 26 dicembre 2010

Sono curioso di sapere cosa avresti fatto tu se


Cristo,
sono uno studente.
Sono curioso di sapere cosa avresti fatto tu se fossi stato studente in questo momento.
Chissà da quale parte ti saresti schierato.
Con quelli che non vogliono essere molestati da nessuno, a cui tutto va bene perché vogliono finire presto gli studi per "sistemarsi"?
O con quelli che non hanno fretta di finire perché non accettano una situazione che è assurda anche agli occhi degli stessi responsabili?
Ti ricordi, Signore, di quel professore famoso che di fronte alle camere televisive, pressato dalle domande di noi studenti anticonformisti, andava dicendo: "So molto meglio di voi che questo sistema di insegnamento è già superato e assurdo. Non sono un idiota"?
E ricordi quello che noi gli abbiamo risposto: " La differenza è che lei accetta la situazione assurda e cerca di giustificarla perché è sistemato e teme di perdere il posto, mentre noi in coscienza non possiamo partecipare a uno stato di cose che voi stessi, che ne siete i responsabili, dare per scontato che sia disumano e superato"?
Da quale parte ti saresti schierato?
Dalla parte del professore o dalla nostra?
Dalla parte di quelli che difendevano il professore o di noi che lo attaccavamo?
Perché tu non sei nato per essere diplomatico e non hai avuto paura di comprometterti. Accetta come una nostra preghiera le domande a cui nessuno vuol dare risposta.
Perché ci obbligano a perdere un terzo della nostra vita a studiare non per sapere ma per "essere promossi"?
A studiare non quello che ci piacerebbe sapere ma quello che alla società interessa che sappiamo?
Non quello che ci servirebbe conoscere per conoscere meglio l’uomo e per comunicare meglio con lui, ma quello che ci servirà a illuderlo e a ingannarlo?
Non quello che sarebbe più utile per tutti ma quello che ci conviene di più?
Perché passano gli anni ad insegnarci quello che hanno detto e fatto i nostri antenati (se almeno ci dicessero la verità!) e lasciano così poco tempo alla nostra espressione personale?
Perché ci obbligano a vivere sempre di rendita se sentiamo la vocazione di essere creatori?
Una ragazzina invece di imparare a memoria una poesia di Leopardi che non le piaceva e che non capiva fece una poesia da sé.
Il professore la punisce e la sospende: "Questa poesia non è di Leopardi".
"Certo, è mia e mi piace di più!".
E avrebbe potuto aggiungere: "Se Leopardi si fosse contentato di imparare a memoria le poesia degli altri non avrebbe mai scritto le sue".
La ragazzina aveva dodici anni.
Come quanto tu hai scandalizzato i dottori nel tempio di Gerusalemme.
Ma essi furono meno ipocriti, più umani: "Si meravigliarono della tua sapienza".
A te ti hanno condannato soltanto quando hai messo in pratica la tua sapienza creativa.
A noi ci castrano proprio nell’attimo stesso della creazione. Tu almeno sei stato riconosciuto e ascoltato quando, uscendo dagli schemi degli altri, hai dato la tua interpretazione della scrittura.
Per questo si sono meravigliati perché hai detto qualcosa di nuovo, di tuo, senza ripetere i disco degli altri.
Oggi tutto è peggiorato.
Si parla di più della libertà masi costruiscono più chiavi per tutte le porte.
Pensare con la propria testa risulta sempre più pericoloso.
Creare non è più un attributo che ci accomuna al divino ma passaporto per l’isolamento, la scomunica, l’esilio, l’ostruzionismo, la fame o la clinica psichiatrica.
A te ti ammiravano, a noi ci di disprezzano. A scuola e in famiglia.
Nasce un grande pittore, un grande musicista, un grande medico, un grande poeta che non ha titoli perché ha creato per conto suo e diciamo: "Cero, è un genio".
Però non chiediamo se non è forse un genio perché non è stato allineato dalla scuola.
Non ci chiediamo se è un genio chi crea qualcosa di diverso dagli altri e senza mezzi, o se al contrario non esistono più geni perché non gli si permette più di realizzarsi e di sviluppare tutta la propria forza creativa.
Non sarebbe meglio chiamare normali quanti riescono a essere se stessi e anormali quanti sono solo un prodotto degli altri, che non riusciranno mai a pronunciare la propria parola originale?
Cristo,
non vogliamo distruggere la scuola, l’università.
Vogliamo solo una scuola che non ci distrugga tutti,
che non alieni la nostra originalità;
che ci aiuti a scoprire e a mettere in cammino la carica ideale che ogni uomo ha dentro di sé quando si sveglia alla vita.
Vogliamo la scuola dell’uomo e non la l’uomo della scuola.
Vogliamo che sia riconosciuta la scuola della vita che è la prima e la migliore.
Vogliamo una scuola senza titoli e senza esami.
Senza professori e senza alunni,
una scuola di vita veramente umana in cui ognuno mette a disposizione degli altri il suo pezzo di sapienza,
una scuola dove si crea insieme, come insieme si mangia a tavola, insieme si gioca e insieme si piange e si ride.
Vogliamo che tu torni a ripetere al mondo, anche alla tua chiesa "che nessuno deve chiamarsi maestro, né padre".
Tu, l’unico vero maestro della storia non sei mai stato "dottore della legge".
Sei stato sempre te stesso, il meglio di te stesso.
Per questo hai permesso senza paure e senza invidie che gli altri fossero anche loro se stessi.
Per questo hai affermato con naturalezza e senza nostalgie a quanti vivevano con te: "Farete cose migliori di quelle che io ho fatto".
Juan Arias, Preghiera nuda