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sabato 1 giugno 2013

un piccolo rinfresco prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale

Un’altra area nella quale 
possiamo facilmente incontrare l’insuccesso e lo scoraggiamento 
è quella della creazione della comunità parrocchiale. 
Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia. 
Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti, 
un sacerdote mi espresse la sua frustrazione 
perché troppo spesso 
la parrocchia era vista più come una stazione di servizio 
che non come una genuina comunità. 
La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa 
per una messa fugace anziché riunirsi attorno all’altare come popolo di Dio. 
Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa, 
ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco 
prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale. 
Tutto questo non sorprende. 
Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato 
prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità. 
Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità, 
ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti 
nella lista dei luoghi di appartenenza, 
dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro. 
Tutto questo può insinuare nel sacerdote l’idea del fallimento, 
di non essere riuscito 
a radunare la gente attorno all’altare 
e di costruire una comunità eucaristica. 
Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative; 
mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista, 
ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso 
è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto. 
Ogni comunità cristiana, 
sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della “Legio Mariae”, 
è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo, 
quella del Regno. 
Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere 
l’errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia. 
(Timothy Radcliffe, Chiamati ad irradiare gioia).

domenica 24 marzo 2013

Ogni esperienza autentica del desiderio mi mette all'incirca in questa situazione: non posso soddisfare da solo il mio desiderio senza snaturarlo o degradarlo.


"Il desiderio ritrova le sue radici profonde nella reciprocità. Noi desideriamo essere desiderati e assaporiamo il desiderio degli altri per noi. Proviamo piacere quando l'altro trova piacere in noi. Per questo corriamo il rischio immenso di lasciare che l'altro ci veda in tutta la nostra vulnerabilità, consegnandoci nelle sue mani. Rowan Williams l'ha espresso in modo mirabile:
«In modo cruciale nella relazione sessuale io non sono più affidato a me stesso. Ogni esperienza autentica del desiderio mi mette all'incirca in questa situazione: non posso soddisfare da solo il mio desiderio senza snaturarlo o degradarlo. Questo manifesta in modo eminente che l'io non può cavarsela da solo. Perché il mio corpo sia una sorgente di gioia, mi permetta di stare in pace con me stesso, deve essere riconosciuto, accettato, valorizzato da qualcun altro. Questo significa: dipendere dalla creazione della gioia nell'altro, perché solo quando è orientato al godimento e alla felicità dell'altro il mio corpo può essere amato senza riserve. Desiderare la mia gioia è desiderare la gioia di quell'altro che io desidero. Quando cerco il godimento nel corpo dell'altro io tendo a far sì che il mio corpo sia fonte di godimento. Noi proviamo piacere quando doniamo piacere».
L'Ultima Cena è un invito a condividere l'immensa vulnerabilità di Gesù quando egli si consegna nelle mani dei discepoli. Questa vulnerabilità rimane per sempre. Quando Gesù risorge dai morti mostra le ferite delle sue mani e del costato: egli sarà ormai per sempre il Cristo ferito e risuscitato. Abbiamo il coraggio di imparare a essere così vulnerabili all'altro? Il coraggio di rischiare di essere feriti da quelli che amiamo?".
Timothy Radcliffe, Amare nella libertà, 65-66

mercoledì 10 ottobre 2012

ad ogni istante noi aspiriamo alla stessa cosa: una nuova nascita

 E mio padre promise che se tutta la famiglia fosse sopravvissuta alla guerra, avrebbe pregato il Rosario ogni sera. Così, tra i miei ricordi d’infanzia, rivedo mio padre, ogni sera, prima di cena, camminare su e giù per la stanza pregando il Rosario. Ringraziava, ogni sera, per essere noi sopravvissuti a questa minaccia di morte. E uno dei miei ultimi ricordi di mio padre risale a poco tempo prima della sua morte. Era allora troppo debole per poter pregare lui. Così la sua famiglia, sua moglie e i suoi sei figli, gli si sono riuniti intorno e hanno pregato il Rosario per lui. Era la prima volta che non poteva farlo lui stesso. La sua morte, circondato da tutti noi, era una risposta a questa preghiera che aveva ripetuto tante volte: “Prega per noi, adesso e nell’ora della nostra morte”. T. S. Eliot implora in uno dei suoi poemi: “Prega per noi, adesso e nell’ora della nostra nascita” (“Animula”, in Ariel Poems). Ed egli ha ragione. Perché noi dobbiamo affrontare questi tre momenti della nostra vita: la nascita, il presente e la nostra morte. Ma ad ogni istante noi aspiriamo alla stessa cosa: una nuova nascita. Ciò a cui noi aspiriamo adesso, come peccatori, non è una pietà che si contenti di dimenticare ciò che abbiamo fatto, ma la misericordia che farà anche delle nostre azioni un momento di rinascita, un nuovo inizio. E di fronte alla morte, noi desideriamo ancora che le parole dell’angelo vengano ad annunciarci una nuova fertilità. Perché tutta la nostra vita è aperta all’infinita novità di Dio, alla sua inesauribile freschezza. L’angelo viene e riviene, con sempre nuovi annunci della Buona Novella. (fr. Timothy Radcliffe, o.p.,  Prier le Rosaire).

domenica 30 settembre 2012

una roccia alquanto traballante



Fin dall'inizio e lungo il corso della storia, Pietro ha costituito spesso una roccia alquanto traballante, talvolta anche fonte di scandalo, corruzione, eppure è questo il primo, e poi i suoi successori, cuiviene chiesto di tenerci uniti tutti insieme in modo che possiamo testimoniare nel Giorno di Pasqua la sconfitta
da parte di Cristo della potenza del male che tende a dividere. E in tal modo la Chiesa è salda insieme a me, qualunque cosa accada. Potremmo anche sentirci in imbarazzo ad ammettere di essere Cattolici, ma ricordiamo che Gesù aveva messo insieme fin dall'inizio una compagnia che agli occhi della gente appariva disonorevole.
p. Timothy Radcliffe op