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venerdì 26 luglio 2013

l’ascesi tende a liberare l’uomo dalla philautia, cioè dall’amore di sé, dall’egocentrismo, e a trasformare un individuo in persona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore


Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità

Ascesi
Di più, essendo a servizio della rivelazione cristiana che attesta che
la libertà autentica dell’uomo si manifesta nel suo divenire capace di donazione di sé,
per amore di Dio e del prossimo,
aprendosi al dono preveniente di Dio,
l’ascesi tende a liberare l’uomo dalla philautia,
cioè dall’amore di sé, dall’egocentrismo,
e a trasformare un individuo in persona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore.
Ancora una volta, la tradizione cristiana antica mostra capacità di auto critica nelle parole di un padre del deserto che constata:
«Molti hanno prostrato il loro corpo senza alcun discernimento,
e se ne sono andati senza trovare alcunché.
La nostra bocca esala cattivo odore a forza di digiunare,
noi sappiamo le Scritture a memoria,
recitiamo tutti i Salmi,
ma non abbiamo ciò che Dio cerca: l’amore e l’umiltà».
Solo un’ascesi intelligente e condotta con discernimento risulta gradita a Dio.
E risulta umanizzante e non disumanizzante.
Risulta capace di aiutare l’uomo nel compito di fare della propria vita un capolavoro,
un’opera d’arte.
Forse non è casuale che askein sia utilizzato, nella letteratura greca antica,
anche per indicare il lavoro artistico.
Questo dunque il fine dell’ascesi:
porre la vita del credente sotto il segno della bellezza,
che nel cristianesimo è un altro nome della santità.

giovedì 25 luglio 2013

Essa non mira al perfezionamento del proprio «io», ma all’educazione dell’«io» alla libertà e alla relazione con l’altro: il suo fine è l’amore, la carità.


Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità

Ascesi
Certo, deve essere chiaro che l’ascesi cristiana resta sempre
un mezzo ordinato all’unico fine da conseguire:
la carità, l’amore per il Signore e per il prossimo.
Non è possibile senza la continua esperienza di cadute, di fallimenti, di «peccati»,
che fan sì che l’ascesi cristiana rettamente intesa
sia sempre assolutamente indissociabile dalla grazia:
«Che uno possa vincere la sua natura non è tra le cose possibili» (Giovanni Climaco).
La storia cristiana ha conosciuto molte deviazioni ed eccessi dell’ascesi,
ma ha anche sempre saputo condannare tali eccessi
che riducevano la vita cristiana a un insieme di imprese eroiche.
E ha saputo farlo anche con senso dello humour:
«Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi.
Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne,
perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro Presbitero).
Essa non mira al perfezionamento del proprio «io»,
ma all’educazione dell’«io» alla libertà e alla relazione con l’altro: il suo fine è l’amore, la carità. L’ascesi prende sul serio il fatto che non si possono servire due padroni
e che l’alternativa all’obbedienza a Dio è l’asservimento agli idoli.
Anche l’interiorità va educata,
anche l’amore va sempre affinato e purificato,
anche le relazioni vanno rese sempre più intelligenti e rispettose:
questo dice l’ascesi!
In particolare, «il sudore e la fatica» (Cabasilas) dello sforzo ascetico sono l’apertura al dono di Dio, il disporre tutta la propria persona a ricevere il dono di grazia;
possiamo riassumere la dimensione cristiana dell’ascesi in questa affermazione:
la salvezza viene da Dio in Gesù Cristo.
L’ascesi non è altro che l’accettazione a essere se stessi soltanto per grazia di quell’Altro che ha nome Dio,
è il dire di sì a ricevere la propria identità nella relazione con questo Altro.
In particolare, l’ascesi corporale,
che ha rivestito spesso connotati meramente negativi e di disprezzo del corpo,
soprattutto a seguito dell’assunzione di un modello antropologico di tipo dualista,
afferma come essenziale per la conoscenza teologica il coinvolgimento dell’intero corpo!
Senza questa dimensione il cristianesimo si riduce a esercizio intellettuale,
a gnosi, oppure alla sola dimensione morale.

 Niente può renderti imitatore di Cristo, come il prenderti cura del prossimo. Anche se tu digiunassi e dormissi per terra…, ma poi non ti prendi cura del prossimo, tu non hai fatto niente di grande e resti lontano dal Modello. - San Giovanni Crisostomo -

mercoledì 24 luglio 2013

In realtà «ascesi», termine che deriva dal greco askein, «esercitare», «praticare», indica anzitutto l’applicazione metodica, l’esercizio ripetuto, lo sforzo per acquisire un’abilità e una competenza specifica


Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità

Ascesi
«Non si nasce cristiani, lo si diventa» (Tertulliano).
Questo «divenire» è lo spazio in cui si inserisce l’ascesi cristiana.
Ascesi è oggi parola sospetta, se non del tutto assurda e incomprensibile per molti uomini
e, ciò che più è significativo, anche per un gran numero di cristiani.
In realtà «ascesi», termine che deriva dal greco askein, «esercitare», «praticare», indica anzitutto l’applicazione metodica, l’esercizio ripetuto, lo sforzo per acquisire un’abilità e una competenza specifica:
l’atleta, l’artista, il soldato devono «allenarsi», provare e riprovare movimenti e gesti per poter pervenire a prestazioni elevate.
L’ascesi è dunque anzitutto una necessità umana:
la stessa crescita dell’uomo,
la sua umanizzazione,
esige un corrispondere interiore alla crescita anagrafica.
Esige un dire dei «no» per poter dire dei «sì»:
«Quando ero bambino, parlavo e pensavo da bambino ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato»scrive san Paolo (1Corinti 13,11).
La vita cristiana poi, che è rinascita a una vita nuova, a una vita «in Cristo», che è adattamento della propria vita alla vita di Dio,
richiede l’assunzione di capacità «non naturali» come la preghiera e l’amore del nemico:
e questo non è possibile senza un’applicazione costante, un esercizio, uno sforzo incessante. Purtroppo il mito della spontaneità,
che domina ancora in questa fase di adolescenze interminabili
e che porta a contrapporre esercizio e autenticità,
si rivela un ostacolo determinante
alla maturazione umana delle persone e alla comprensione dell’essenzialità
dell’ascesi per una crescita spirituale.

martedì 23 luglio 2013

La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità.


LA VITA SPIRITUALE

Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale.
Anzitutto la crisi dell’immagine che abbiamo di noi stessi:
questo è il doloroso,
ma necessario inizio della conversione,
il momento in cui si frantuma l’«io» non reale
ma ideale che ci siamo forgiati e
che volevamo perseguire come doverosa realizzazione di noi stessi.
Senza questa «crisi» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito.
Se non c’è questa morte a se stessi
non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cir. Romani 6,4).
Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà, 
cioè l’adesione alla realtà,
perché è nella storia e nel quotidiano,
con gli altri e non senza di essi,
che avviene la nostra conoscenza di Dio e
cresce la nostra relazione con Dio.
È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbedienza a Dio e
fedeltà alla terra in una vita di fede, di speranza e di carità.
È a quel punto che noi possiamo dire
il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti
che caratterizzano la nostra creaturalità.
Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede
che è sequela del Cristo per giungere all’esperienza dell’inabitazione del Cristo in noi.
Scrive Paolo ai cristiani di Corinto:
«Esaminate voi stessi se siete nella fede:
riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinti 13,5).
La vita spirituale si svolge nel «cuore», 
nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità.
È lì che va riconosciuta l’autenticità del nostro essere cristiani.
La vita cristiana infatti non è un «andare oltre»,
sempre alla ricerca di novità,
ma un «andare in profondità»,
uno scendere nel cuore per scoprire
che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo!
Si tratta infatti di «adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5).
Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione,
cioè l’accoglienza in noi della vita divina trinitaria:
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23).
Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina,
è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione».
«Dio, infatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio»,
scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore
sintetizza in modo sublime:
«La divinizzazione si realizza per innesto in noi della carità divina,
fino al perdono dei nemici come Cristo in croce.
Quand’è che tu diventi Dio?
Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire:
“Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”».
A questo ci trascina la vita spirituale,
cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore,
mossa e orientata dallo Spirito santificatore,
innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi.
Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.
 Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità

lunedì 22 luglio 2013

lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza


LA VITA SPIRITUALE
L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti:
è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene.
Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione:
Egli è già là!
E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo:
«nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6).
Cioè l’esperienza spirituale è anche esperienza filiale.
Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci previene e
orienta il nostro cammino verso la santificazione,
cammino che è sequela del Figlio:
l’esperienza spirituale diviene così null’altro che
la risposta di fede, speranza e carità al Dio Padre
che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva:
«Tu sei mio figlio!».
Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo:
questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo!
Come diceva Ireneo di Lione,
lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui
Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza,
in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.

 Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità

domenica 21 luglio 2013

Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.

Oggi diamo la parola al Priore di Bose e cade a proposito, quasi un commento alle letture di questa 16a domenica: le querce di Mamre, Marta e Maria.  

LA VITA SPIRITUALE
Non si dà vita cristiana senza vita spirituale!
Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli
è quello di introdurli a un’esperienza di Dio, 
a una vita in relazione con Dio.
È essenziale ribadire oggi queste verità elementari,
perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale,
dominata dall’ansia pastorale,
ha assunto l’idea che
l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo 
piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio
vissuta in un contesto comunitario,
radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture,
plasmata dall’eucaristia e
articolata in una vita di fede, di speranza e di carità.
Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale
è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio,
ci immette cioè nella vita spirituale,
che è la vita guidata dallo Spirito santo.
Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio:
non gli può bastare avere idee giuste su Dio.
E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7:
«noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»),
è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe:
«Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16),
oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi [...]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.).
Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto,
dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe:
«Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento;
a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9).
Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare.
Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita,
attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare,
dunque anche attraverso le «crisi»,
i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.

 Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità

domenica 7 ottobre 2012

la vecchia cara lettera che riappare


Enzo Bianchi, Lettere a un amico sulla vita spirituale, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Torino 2010, pp. 147, Euro 10,00

Il mettersi di fronte a un foglio bianco con la penna in mano, l’immaginare visivamente il destinatario cui stiamo per rivolgerci, la ricerca delle parole più adatte per esprimere a una persona precisa quanto si prova, la consegna della busta ai servizi postali, la paziente attesa dei tempi del recapito, l’incerta attesa dei tempi e delle modalità della risposta … Tutti gesti e sentimenti che il telefono prima e la posta elettronica poi hanno confinato forse in un universo desueto. Eppure, i fogli del tuo scritto erano lì a dimostrarmelo, quando vogliamo affrontare determinati argomenti che sentiamo come attinenti al senso profondo della nostra vita e dei nostri rapporti, è la vecchia cara lettera che riappare, anche presso persone che come te, per età e abitudini, usano solitamente altri mezzi di comunicazione.

domenica 13 maggio 2012

Vale la pena?

Ogni cosa alla sua stagione
Nell’invecchiare, infatti, si sente il peso del passato, dell’esperienza, si sono accumulate vicende e le ferite sofferte si fanno sentire e ricordare più delle sempre brevi e fugaci vicende di bellezza. Allora si è tentati soprattutto dal cinismo: di fronte a ogni responsabilità da assumere, a ogni azione costosa da intraprendere, appare insistente la domanda: «Vale la pena?» Mi soccorrono ancora oggi le parole di Pessoa che tante volte mi sono ripetuto: «Valeva la pena? Sì, valeva la pena, se l’anima non è piccola». Enzo Bianchi

domenica 11 settembre 2011

un silenzio che generi questa parola

liberamente da una intervista
di F. Fazio a fr. Enzo
nella trasmissione "Che tempo che fa"

il silenzio oggi, purtroppo, è il grande assente, misconosciuto.Se noi ci pensiamo anche solo un momento, per poter davvero ascoltare ci vuole davvero il silenzio. Per parlare con una parola che sia ricca di autorità, che sia autentica, che sia davvero tesa alla comunicazione e non alla chiacchiera e non al rumore, ci vuole un silenzio che generi questa parola.
E poi il silenzio permette altri linguaggi: il linguaggio dello sguardo, il linguaggio del tatto, il linguaggio dell'odorato... il silenzio è davvero ciò che può umanizzarci.
Il silenzio è un antidoto all'aggressività, alla violenza.
C'è un bisogno profondo di silenzio negli uomini. Si è talmente poco abituati al silenzio e alla solitudine che se ne ha paura e sovente si vede che quando uno deve affrontare un tempo di silenzio e di solitudine è assalito dall'angoscia. Ma se vogliamo pensare, se vogliamo ricercare, meditare, rispondere alle domande più profonde che ci abitano (che senso ha la vita, chi sono gli altri per me, da dove vengo, dove vado) occorre che ci sia il silenzio.
Pascal diceva: la più grande disgrazia degli uomini è che non sanno più stare in silenzio per mezzora al giorno in solitudine.
Per una vera umanizzazione si dovrebbe partire dal silenzio come linguaggio da custodire, come maniera per trovare la pace, per trovare una certa calma, per non finire nella barbarie di questo momento storico e non cedere all'aggressività che si vede abbondare dove abbonda la chiacchiera e dove la parola diventa rumore.

mercoledì 6 aprile 2011

la nostra fame non è solo di pane


E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escano dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo sopratutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte, ma al contrario, salvarci dalla morte.
Enzo Bianchi, Il Pane di Ieri

mercoledì 30 marzo 2011

il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarmi


"Il pane di ieri" di Enzo Bianchi ...per me la tavola è stata sempre, e lo è tuttora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall'inizio della vicenda umana? E' quanto affermano gli antropologi, ma è anche quello che verifichiamo noi stessi se usiamo l'intelligenza per esercitarci alla consapevolezza di quello che facciamo. L'umanizzazione è passata principalmente attraverso la tavola, dalla nutrizione alla gastronomia (intesa nel senso letterale di "legge del mangiare"), dalla scoperta alla coltivazione all'adozione del piatto, all'uso della tavola come luogo di incontro e di festa. L'uomo ha cessato di essere un divoratore, un consumatore, frapponendo fra sè e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino: insomma, l'uomo ha abbandonato l'atteggiamento dell'animale cacciatore che mangia la sua preda per assumere quello di chi crea un rapporto con il cibo.

L'uomo è un essere che ha fame e il mondo intero è il suo cibo, l'uomo deve mangiare per vivere, deve assumere il mondo e trasformarlo nella propria carne e nel proprio sangue. L'uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale, ma in questa operazione c'è lotta contro ciò che è animalesco e c'è tragitto di cultura, di comunicazione, in vista di una comunione non solo tra gli esseri umani, ma tra l'umanità e il mondo.

sabato 26 marzo 2011

è esercizio di accordo, di armonia


L'amicizia ...Avere degli amici -qualcuno cui poter aprire il cuore o stare accanto anche senza parole, qualcuno con cui ascoltare musica insieme, con cui viaggiare per gustare anche se in modo diverso le stesse cose e condividere le stesse visioni - è un vero balsamo. Sono state amicizie molto diverse, ma tutte mi hanno aiutato a vivere le ore scabrose, a rinnovare la fiducia negli altri,ad attendere che al pianto seguisse la gioia. Di ciascuno e ciascuna di questi amici mi appare il volto ogni giorno, anche se nel caso di alcuni di loro sono passati decenni dal nostro scambio affettuoso, anche se alcuni di loro sono ormai morti. Abbiamo girato insieme il Mediterraneo e l'Europa, abbiamo percorso deserti, sostato nelle piazze delle città osservando le nuove generazioni che ci facevano sentire sempre meno giovani, siamo rimasti in silenzio di fronte al mare o a un camino acceso, ci siamo riposati all'ombra di un fico o attorno a un bicchierino di calvados... L'amicizia è una grande avventura in cui si conosce cosa significhi volere il bene dell'altro; è esercizio di accordo, di armonia, a volte una vera e propria scuola in cui si impara a smussare o a valorizzare alcuni aspetti del proprio carattere: in un certo senso si impara a diventare più autentici e più buoni. L'amicizia nasce da un incontro inaspettato, appare come un dono gratuito dovuto a Dio (o agli dei, come mi dicevano sempre alcuni miei amici!), sboccia come un fiore, presenza gratuita capace di inebriare come un profumo, e si nutre di bellezza: non intendo solo e tanto la bellezza fisica, ma quella bellezza interiore che traspare anche nei volti e nel vissuto, quei tratti umani che caratterizzano una vita come "bella", quei rapporti che fanno dire "è bello stare qui insieme", quelle stagioni che sono "belle" perchè segnate da una qualità squisita di relazioni, dal faccia a faccia affettuoso. Quando questa bellezza fa difetto e affiora il brutto, allora l'amicizia si sciupa, decade e a volte diviene inimicizia. E' questa la vera, seria minaccia all'amicizia: lo smarrimento del bello, causato dalla fusionalità nel rapporto, dal cedimento alla schiavitù del desiderio e all'istinto del possesso e della gelosia

Da "Ogni cosa alla sua stagione" di Enzo Bianchi