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venerdì 16 marzo 2012

Il senso della vita: la mancanza

Christian Bobin
 Vuoi sapere chi tu sei per me.
 E allora ecco: tu sei colei che mi impedisce di bastarmi. 
 Tu mi hai dato la cosa più preziosa di tutte: la mancanza!

 di Umberto Galimberti (filosofo)
Che cosa lega queste quattro parole: amore, lavoro, pace, salute, intorno a cui si svolge la mostra fotografica di National Geographic Italia ideata da Guglielmo Pepe? Le lega un filo, neppure troppo sotterraneo, che caratterizza la malinconia del nostro tempo che si chiama “mancanza”.
Amore è mancanza. Ce lo spiega a chiare lettere Platone nel Simposio, dove si narra di Amore figlio di Penía che significa “povertà”. Intimamente connesso al desiderio, infatti, Amore non desidera ciò che si ha, ma ciò che non si ha, per cui la mancanza le è costitutiva. È da questa mancanza che nasce la tensione amorosa, che promuove entusiasmo e disperazione, anelito e spasmo, che tutti gli amanti conoscono quando l’oggetto d’amore non sembra sia mai sufficientemente conquistato. Perché quando l’oggetto è posseduto, lo si gode, ma non lo si desidera più. Ma anche il lavoro è mancanza, non solo perché la crisi ha reso rare le opportunità, ma perché l’avanzare della tecnica riduce l’impiego degli uomini sostituiti dai robot, e ridotti essi stessi a robot, dovendo eseguire null’altro che le azioni descritte e prescritte dagli apparati tecnici, senza più nessuna ideazione, che invece caratterizzava la produzione artigianale, dove l’artefice vedeva nell’opera il riflesso di sé. Ora le categorie dell’efficienza e della produttività hanno cancellato ogni espressione creativa del lavoratore che, oggi, nell’opera, vede realizzato solo l’obiettivo dell’apparato di appartenenza, e non l’autorealizzazione di sé. Si tratta di un’alienazione ben più grave di quella prevista da Marx. Ma anche la pace è mancanza perché durante la pace non cessa quell’impossessarsi dei beni della terra con mezzi meno truculenti di quelli tipici della guerra tradizionale. Il mercato è guerra, le multinazionali che si impadroniscono dei beni della terra a scapito delle popolazioni locali è guerra, le monoculture che si impongono alle nazioni povere è guerra, il respingimento degli immigrati in cerca di vita è guerra, l’impoverimento della vita delle nazioni per effetto di operazioni finanziarie di cui le nazioni sono relativamente responsabili è guerra. Per cui non possiamo che concordare con Heidegger là dove scrive: “Ogni differenza tra guerra e pace oggi è soppressa, […] perché la guerra non va verso una pace di tipo tradizionale, ma verso una situazione in cui i caratteri costitutivi della guerra non sono più esperiti come tali, e ciò che costituisce la pace ha perso ogni senso e ogni contenuto”. Ma anche la salute è mancanza. Non nel senso che siamo tutti malati, ma che ci percepiamo come potenzialmente malati. Non si spiegherebbero tutte quelle cure del corpo che hanno sostituito la cura dell’anima, una volta persa la fiducia nella sua immortalità. Ai digiuni abbiamo sostituito le diete, agli esercizi spirituali gli esercizi fisici in palestra, i ritiri nei centri benessere. E all’inquietudine che sempre accompagna la condizione umana, i farmaci,e alle sofferenze che di tanto in tanto costellano la nostra vita, le psicoterapie. Siamo tutti afflitti da un vissuto di vulnerabilità per aver allontanato da noi ed esorcizzato la morte, e ci preoccupiamo della salute che è poi l’ultimo cascame della perduta fede nella salvezza. I medici sono i nuovi sacerdoti, perché non accettiamo più i limiti della nostra esistenza mortale. Per questo la mostra curata da Guglielmo Pepe chiede meditazione e seria riflessione.

 Certo che ti farò del male. 
 Certo che me ne farai. 
 Certo che ce ne faremo.  
 Ma questa è la condizione stessa dell'esistenza. 
 Farsi primavera, significa accettare il rischio dell'inverno. 
 Farsi presenza, significa accettare il rischio dell'assenza.
Antoine de Saint-Exupéry

domenica 21 agosto 2011

è questo niente che vi spaventa


Due parole vi fanno venire la febbre. Due parole vi inchiodano al letto. Cambiare vita. Ecco la meta. E’ chiara, semplice. Ma la strada che conduce alla meta non la si vede. La malattia è l’assenza di una strada, è l’incertezza della via. Non si è di fronte a un dilemma, vi si è dentro. Siamo noi stessi il dilemma. Una nuova vita è ciò che si vorrebbe, ma la volontà, appartenendo alla vecchia vita, non ha forza alcuna. Si è come quei fanciulli che tendono una biglia nella mano sinistra e non lasciano la presa finché non son certi di avere in cambio una moneta nella mano destra: si vorrebbe una vita nuova, ma senza perdere la vecchia. Si vorrebbe non conoscere l’istante del passaggio, l’ora della mano vuota.
Ciò che vi rende malati è l’approssimarsi di una salute più grande della salute ordinaria, con essa incompatibile. Ma si continua a resistere. Tutto vi trattiene, la madre, gli amici, le giovani dame. Non la si ama più questa vita, ma almeno si sa di che è fatta. Se la si lascia, vi sarà un momento di cui non si saprà più niente. Ed è questo niente che vi spaventa. E’ questo niente che vi fa esitare, brancolare, balbettare, ed infine tornare alle vecchie strade.
Christian Bobin (Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, p. 44)

sabato 6 agosto 2011

“cultura come malattia dell’accumulo

“Una persona può essere riconosciuta dalla natura delle parole che mangia. Ho sempre visto le persone provenienti da ambienti culturali, con qualche felice eccezione, come persone che non si nutrivano che di nomi propri, quando questi nomi avevano raggiunto una certa celebrità. La cultura e l’intelligenza appartengono a due ordini differenti. Si può avere l’una e essere sprovvisti dell’altra. Si può essere acculturati e di una stupidità spaventosa. L’intelligenza viene dall’anima ed è concessa a tutti per il solo fatto di nascere, anche se tutti non ne fanno uso, non osano far uso della loro capacità personale alla solitudine, della intensità di solitudine della propria anima. L’intelligenza non è nient’altro: la maniera personale di stare di fronte a sé e di fronte al mondo, la maniera di ciascuno di lasciarsi trasformare da ciò che gli viene incontro e di cercare il proprio bene, il suo proprio bene, in ciò che l’attraversa e talvolta l’ uccide. Leggere, ad esempio, è una delle manifestazioni più semplici dell’intelligenza , ciò non ha niente a che vedere , assolutamente nulla con la cultura. Leggere è fare prova di sé nella parola di un altro, fare arrivare dell’inchiostro via sangue sino al fondo dell’anima così che essa ne sia impregnata, mangiare ciò che si legge, trasformarlo in sé e trasformarsi in esso. La lettura che non sconvolge la vita non è niente, non ha avuto luogo, non è nemmeno tempo perduto,è meno di niente. Ogni vita che non sia sconvolta dalla vita e che non vada, sola, senza il conforto di alcuna lezione , a trovare il proprio bene in questo sconvolgimento, è morta. Sta alla persona sola decidere ciò che è il bene d’una persona, facendo leva unicamente sulla sufficiente luce della propria solitudine, il più lontano possibile dalle convenzioni intellettuali e morali. L’intelligenza non la si impara – si esercita. La cultura invece sì, si impara – viene fuori a poco a poco dall’accumularsi di lunghi studi, si aggiunge a noi con il tempo e ad opera di altri. Se uno vive soltanto nella cultura, molto presto diventa analfabeta: c’è un tempo, negli ambienti culturali, in cui le opere non vengono più meditate, amate, mangiate, un tempo in cui non si mangiano che i nomi degli autori, il loro nome soltanto, per farsene vanto o per imbrattarlo. La cultura quando viene a tal punto privata d’intelligenza, diviene una malattia dell’accumulo, una cosa inconsumabile che si sa solo consumare.”
Christian Bobin

giovedì 4 agosto 2011

E’ un’altra letteratura quella di cui ho fame.


Christian Bobin nel suo Autoritratto:
“C’è una letteratura sontuosa, sovraccarica d’oro e di autocompiacimento. Essa considera la scrittura superiore alla vita. Non conosce niente di più nobile di una bella frase. Ha senza dubbio generato dei capolavori, e mi lascia tuttavia indifferente. E’ un’altra letteratura quella di cui ho fame. Essa è antica quanto la prima. Non implica meno lavoro, ma non cerca la stessa cosa. O piuttosto: c’è una scrittura che cerca, non trova per caso che per grazia, e continua a cercare. E c’è una scrittura che si rigira davanti allo specchio, una sposa che prova i suo abito. Questa non cerca niente. Non ha niente da cercare, avendo trovato da sempre chi sposare: se stessa. La sua bellezza non m’ impressiona. Non ammiro un’opera perché mi si dice di ammirarla, ma per la forza dell’amore che vibra in essa. Ciò che intendo per amore non ha nulla di sentimentale. Il solo amore reale è di una durezza incredibile. Il poeta Henri Pichette dice che non si dovrebbe mai scrivere una sola frase che non si possa sussurrare all’orecchio di un agonizzante. Ebbene, è esattamente questo. La scrittura che amo è esattamente questa. E noi siamo tutti degli agonizzanti, non è vero? Dove mi conducono tali riflessioni? A niente, a niente. Non è grave: un piccolo accesso febbrile. Quello che ho detto lo poso dire in un altro modo: c’è una parola dei principi e una parola dei mendicanti. Quella dei principi è come una camera in cui non c’è nulla e in cui al tempo stesso tutto è pieno, riempito sino all’orlo. E’ una parola così sorda da bastare a se stessa. Quella dei mendicanti, al contrario, racchiude in sé abbastanza vuoto – spazio, silenzio – perché il primo venuto vi si possa intrufolare e scoprire la felicità. E’ una parola che lascia in sé un posto per l’altro. La conoscete la vecchia tradizione di disporre sulla tavola un piatto in più per un ospite inatteso, straniero. Sono queste le parole che amo. E’ a queste tavole che mangio meglio.”

mercoledì 3 agosto 2011

Vi si parla molto poco nei primi anni.


« Bambini del ventesimo secolo, i vostri genitori sono stanchi. Non credono più in niente. Vi domandano di portarli sulle spalle, di dar loro coraggio e forza. Bambini dei tempi moderni, siete dei re in un deserto. Bambini del tredicesimo secolo vi si accorda poco peso. Siete come una torma talora scossa da brividi di febbre, decimata dalle guerre, dalle carestie o dalla peste. Vi si parla molto poco nei primi anni. Vi si guarda appena, con lo sguardo intenerito che si accorda ai cani di fattoria coi quali giocate nella polvere dei cortili. Piccoli selvaggi del tredicesimo secolo, crescete inosservati sotto lo sguardo di tutti, confusi coi servi nelle scuderie e con le galline nella sala grande. Chi ha visto il piccolo Francesco crescere? A parte Dio, nessuno o quasi. Non il padre, troppo occupato dai suoi viaggi, dal suo denaro e dalle sue stoffe. La madre, un poco. Così poco: il genio materno ha le sue eclissi. C’è quella che veglia su colui che ama, senza impedirgli di prendere la sua strada. E c’è quella che si tormenta per colui che ama, e cerca di modificarne il cammino. C’è Marta e c’è Maria, le due sorelle incontrate da Gesù che passava. Marta, preoccupata dell’ordine e del cibo, che si affanna per la cucina, persa fra rumori di piatti e d’acqua che bolle. E Maria, il grembiule buttato sotto una panca, Maria seduta per terra, le gambe ripiegate di sotto come le ali di un uccello che riposa, viso aperto, mani vuote, Maria tutta presa da quest’amore senza il quale ogni ordine è triste, ogni cibo insipido. Marta e Maria. L’una persa in mille cose, l’altra raccolta. L’una infaticabile, l’altra quieta. Le madri sono l’una e l’altra, spesso contemporaneamente. Il pensiero del bambino le acceca e le illumina al tempo stesso. Guardano la carne della propria carne. Vedono il fanciullo vivere, mai crescere. Vedono il fanciullo nell’eternità della sua età, non vedono mai il passaggio da un’età all’altra, da un’eternità alla successiva. Un giorno si voltano indietro, osservano stupite quel baldo giovane che entra in casa, quell’uomo impacciato dalla sua stessa forza, non rendendosi più conto di come tanta forza e tanta goffaggine siano potute venire da loro, non comprendendo più nulla: il loro fanciullo è cresciuto, ma il loro cuore non è invecchiato e arde, come ai primi dolori del parto…
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, pp. 28-29 )

mercoledì 6 luglio 2011

il suo stato principesco, la meraviglia della sua natura: attendere, attendere, attendere

Lo stato di crisi è lo stato naturale di tutto il mondo: una guerra dopo l'altra, un'invenzione dopo l'altra, un fatturato contro un tasso di suicidi, una carestia per dei profumi di lusso. Al mondo si mescola tutto. Al mondo va tutto insieme tranne l'amore. Non va assieme a niente. Non è da nessuna parte. Manca. Manca come il pane nei periodi di guerra, come il respiro nella gola dei moribondi. Manca come il tempo nei giochi d'infanzia. E' che serve tempo per amare, talmente tanto tempo che non basta per rispondere ai bisogni dell'amore in noi. alle domande dentro di noi della voce, del sangue, del sangue latteo nella voce firmamento. La cometa dell'amore ci sfiora il cuore solo una  volta  per eternità. Occorre vegliare per vederla . Bisogna aspettare tanto, tanto, tanto. E' questo lo stato naturale dell'amore. E' questo il suo stato principesco, la meraviglia della sua natura: attendere, attendere, attendere. Il più lontano possibile dalla fretta e dal rumore. Lontano da ogni  crisi. Attendere con calma. Attendere con pazienza.
Mille candele danzanti p. 23 Christian Bobin

domenica 20 febbraio 2011

una piccola di quattro anni e mezzo per capire


Passeggio con tua figlia Clémence nel parco della vetreria. C’è una cabina telefonica istallata non lontano dai giochi. A volte da quella cabina, il mercoledì, quando mi accorgevo che avremmo fatto tardi, ti chiamavo per avvertirti che non saremmo arrivati all’ora stabilita ma che saremmo comunque tornati sani e salvi. Clémence una settimana dopo la tua morte, mi mostra quella cabina nel parco:" E se la chiamassimo?", mi dice. La faccio entrare e la guardo mentre stacca il ricevitore, preme tutti i tasti del quadrante, e per parecchi minuti, tace, ascolta intervenendo solo per dire "sì, sì". Alla fine le chiedo: "Cosa ti ha detto?". Mi risponde: "Chiede se va tutto bene e se siamo ancora tutti insieme. Le ho detto di sì e che continuavo a fare sciocchezze con lo scioccone". Poi usciamo dalla cabina e torniamo al dolce lavoro di ridere e giocare.
Ci sono mille modi di parlare ai morti. Ci voleva la follia di una piccola di quattro anni e mezzo per capire che forse abbiamo meno da parlare che da ascoltarli, e che hanno una cosa sola da dirci: continuate a vivere, sempre, vivete sempre più intensamente, soprattutto non fatevi del male e non perdete il riso.
(C. Bobin, Più viva che mai)

venerdì 21 gennaio 2011

la bellezza ci istruisce


Nel corridoio che porta alla cucina hai fissato sul muro, a sessanta centimetri da terra, un calendario con riproduzioni di dipinti di Leonardo da Vinci. Mi spieghi che così è all’altezza degli occhi della bambina, che vi passerà davanti più volte al giorno e che la bellezza ci istruisce quanto il resto, forse più del resto.
Ti riconosco in questa preoccupazione.
Non vedo prova più magnifica di intelligenza:
l’intelligenza è proporre all’altro ciò che abbiamo di più prezioso, facendo di tutto perché possa disporne – se lo desidera, quando lo desidera.
L’intelligenza è l’amore con la libertà.
(C. Bobin, Più viva che mai)

lunedì 5 luglio 2010

cambiamento

Un altro segno della primavera, di ciò che io chiamo così, è che, quando arriva, non ci raccapezziamo più. Diventiamo persone, come si dice, superate: spiazzate. Provi a pensare a un invitato che, senza avvertirla, prima che lei abbia avuto il tempo di provvedere per lui, si metta sulla sedia da lei preferita. Tutti hanno a casa una sedia preferita. Sul momento prova un leggero disappunto. Ma poi, molto presto, arriva la frescura. Non è cambiato quasi nulla e quel quasi nulla muta ogni cosa. Lei prende una sedia diversa dalla solita, ha dinanzi a sé un altro paesaggio, si trova sempre bene in casa sua, sì, ma vi sta nel più bello dei modi: di passaggio. Ci abituiamo troppo in fretta a ciò che abbiamo. Grazie a Dio, la primavera arriva talvolta a riportare un po' di disordine in tutto questo, scopriamo di non aver mai avuto nulla di proprio e questa scoperta è la cosa più gioiosa che io conosca.
Christian Bobin, L'equilibrista, 35