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sabato 1 dicembre 2012

non è un libro qualsiasi


La Bibbia è davanti a te: 
non è un libro qualsiasi
ma il libro che contiene la Parola di Dio:
attraverso di essa, 

Dio vuole parlare a te oggi, 
personalmente.
LEGGI 

attentamente, 
cerca di 
ASCOLTARE 
con tutto il cuore e l’intelligenza.
RIFLETTI 
con la tua intelligenza, 
INTERPRETA 
la Scrittura con la Scrittura.
RILEGGI, RUMINA 
le parole nel tuo cuore.
Lasciati STUPIRE, attrarre dalla Parola.

Ora, ripieno di Parola di Dio, 
PARLA al tuo Signore 
o meglio RISPONDI a Lui.
E’ il momento 
della LODE, del RINGRAZIAMENTO, dell’INTERCESSIONE.
Ora CONTEMPLA 

cioè guarda a tutto e a tutti con gli occhi di Dio.
CONSERVA NEL CUORE 

la Parola ricevuta come Maria, la donna dell’ascolto.
CUSTODISCI, RICORDA, RICHIAMA 

la Parola nelle diverse ore del giorno.
Ascoltare è OBBEDIRE: 

impegnati dunque 
a REALIZZARE la Parola di Dio.
(Enzo Bianchi)

martedì 3 luglio 2012

l'interrogativo circa la possibilità stessa della preghiera

            "L'opera più difficile è la preghiera''. Quanti giovani si sono sentiti dare questa risposta dall'anziano. E la difficoltà, come la preghiera, resta nel tempo pur assumendo sfumature differenti. Ogni generazione, e ogni uomo in ogni generazione, ha il compito di raccogliere l'eredità di preghiera che gli viene consegnata e la responsabilità di ridefinirla. E di ridefinirla vivendola! E oggi è difficilmente comprensibile quella definizione della preghiera come "elevazione dell'anima a Dio'' che ha traversato tanto l'Oriente come l'Occidente. Dopo Auschwitz è stato posto l'interrogativo circa la possibilità stessa della preghiera. Ma io penso che la risposta non debba limitarsi a rimpiazzare il titolo di "Onnipotente'' dato da sempre a Dio con quello di "Impotente'' (vi è chi parla dell’ “onnidebolezza” di Dio). Mi sembra che così si resti sempre all'interno di una logica di teodicea. Invece, prendendo sul serio il fatto che molti anche ad Auschwitz, come in tanti altri inferni terreni, sono morti pregando, penso che si possa comprendere la preghiera come cammino del credente verso il suo Dio. O meglio, come coscienza di tale cammino. La preghiera cristiana appare così come lo spazio di purificazione delle immagini di Dio. Dunque come la faticosa e quotidiana lotta per uscire dalle immagini manufatte del divino per andare verso il Dio rivelato nel Cristo crocifisso e risorto, vera immagine di Dio consegnata all'umanità. 
Bianchi Enzo

lunedì 2 luglio 2012

si può solo misurare in base alla carità


 “frutti” della preghiera da cosa si misurano? Uno degli indicatori può essere la “pace del cuore”? 
          So che nella tradizione spirituale cristiana, in particolare quella monastica, uno dei grandi frutti della preghiera è la pace del cuore. Credo a questa verità, e non voglio contraddire una risposta data dall’epoca dei padri della chiesa fino a oggi. Tuttavia mi sento di dire che il vero frutto della preghiera si può solo misurare in base alla carità, all’amore verso i nostri fratelli e verso Dio che la preghiera suscita in noi. Quando penso alla preghiera mia e di tanti monaci che per numerose ore del giorno pregano, nella lectio divina, nel nascondimento della propria cella, nella liturgia delle Ore celebrata comunitariamente, mi viene spontaneo chiedermi: “Tutta questa preghiera che frutto darà?”. 
          Poi talvolta trovo nel mio cuore qualche pepita di amore, e allora mi rispondo: “Per giungere a questo è stato necessario quell’immenso mucchio di sabbia costituito dalla preghiera”. Ripeto, il frutto della preghiera è l’agápe, è l’amore, che poi è Dio stesso. E quando Dio dimora in noi, siamo più saldi di fronte agli assalti del diavolo, siamo più forti nelle prove. E proprio perché osiamo gridare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35), siamo anche capaci di trovare pace. 
Bianchi Enzo

sabato 1 ottobre 2011

tutto questo però va fatto con rispetto


La Stampa, 24 settembre 2011
Non si può parlare del pane senza fare riferimento al «da dove» esso è tratto, cioè dalla terra. Dalla terra, dalla adamà è tratto l’adam, l’umano, il terrestre (cf. Gen 2,7): noi siamo fatti di terra e alla terra torniamo (cf.Gen 3,19). La terra, nostra madre, chiede di essere custodita e lavorata, non lasciata vergine, perché in tal caso non potrebbe essere per noi madre; tutto questo però va fatto con rispetto, senza sfruttarla indebitamente né violentarla. Oggi il nostro rapporto con la terra si è fatto critico e tutti siamo consapevoli del rischio della catastrofe ecologica. In nome della crescita, del libero mercato, di un’insaziabile pretesa di arricchimento, di un consumo senza limiti, la terra madre è sempre più desolata e devastata. Come annunciava Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa, «il deserto avanza», continua ad avanzare anche tra di noi, nei nostri campi e tra le nostre colline che, dopo essere state offese dalla cementificazione, ora sono insidiate anche da distese di pannelli solari che, se collocati senza discernimento, scacciano le nostre colture, tolgono sovranità alimentare e spesso feriscono la bellezza del paesaggio, cioè della terra.

Agiamo nei confronti della terra come se ne fossimo i padroni assoluti, come se fossimo i soli ad aver diritti su di essa e nessun dovere nei suoi confronti; non ci rendiamo conto che la natura e l’ambiente non sono nostra proprietà né sono un luogo di risorse a nostra totale e arbitraria disposizione. La terra deve sì darci il pane, ma noi umani dobbiamo a nostra volta riconoscere che esistono diritti dell’ambiente, della natura, che le altre co-creature, gli altri co-inquilini della terra sono portatori di diritti come noi:natura, animali, piante, umani, siamo tutti co-inquilini e tutti soggetti di diritti che vanno tutelati e sinfonicamente affermati. Insomma, parafrasando il comandamento presente in Lv 19,18 e ripreso da Gesù (cf. Mc 12,31 e par.), mi verrebbe da dire che oggi si è fatto urgente il comandamento: «Ama la terra come ami te stesso», nel senso che amare se stessi e il prossimo richiede di amare questa terra sulla quale veniamo e in cui da inquilini viviamo per «settant’anni, ottanta se ci sono le forze» (Sal 90,10). Dunque per «trarre il pane dalla terra» (Sal 104,14) occorre assolutamente imboccare un’altra strada, vista la consapevolezza che oggi abbiamo della degradazione ecologica, dell’umiliazione della terra madre causata dall’abuso e dall’abbandono delle nostre campagne.
È in questa terra, terra madre più che mai, che le nostre granaglie sono seminate, entrando nel solco. Si tratta di sementi selezionate lungo le generazioni e i millenni, di granaglie che portano il segno di una sapienza acquisita, ricercata, sperimentata da umani diversi e in terre diverse: frumento, segale, farro, ecc. Ma anche a questo proposito si staglia all’orizzonte una pericolosa minaccia: su quest’opera anonima ma grandiosa dei contadini dell’umanità si pretendono oggi i diritti del brevetto, si pretende di privatizzare i semi che stanno alla base della catena alimentare; si vorrebbe delineare una storia futura in cui sementi, acqua e aria siano merci sottomesse alle logiche di mercato, non più patrimonio vitale per ogni persona e comunità della terra, ma proprietà in mano a multinazionali anonime, spietate nei confronti dei poveri della terra…
Una volta seminato, aiutato a crescere, maturato, ecco spuntare dalla terra il grano, che viene macinato e appare come farina, fior di frumento, midollo di frumento, grasso di frumento, tutte definizioni a esso collegate a partire dall’antichità. La farina, impastata con acqua, lasciata lievitare, passata nel fuoco appare infine come pane: una realtà precisa, effettiva, ma anche un simbolo, un linguaggio, cioè un sistema di segni concreti che permette di stabilire una sapienza pratica. La materialità dell’alimento sta in una rete di significati e di valori in cui si producono trasposizioni, metafore. Il pane è un alimento che ci nutre, che ci dà la vita, è un alimento solido che si impone innanzitutto ai nostri sensi. Basti pensare al profumo del pane appena sfornato che un tempo al mattino presto si sentiva nelle vie dei paesi, passando accanto al negozio del panettiere: il profumo precede il pane stesso, raggiunge le nostre narici, che lo riconoscono, e fin dal mattino trasmette loro un sentimento di vita. Ma anche la vista è coinvolta e noi vediamo il pane nelle sue diverse forme, create soprattutto in Italia: dalla grissia monferrina, alla biova emiliana, alla ciabatta, alla rosetta, alla scarpetta… Infinite forme dovute alla fantasia e alla tradizione locali, tutte capaci di far sì che il pane diventi una presenza, si imponga e chieda rispetto.
Nelle generazioni passate, le quali conoscevano la fame di pane e sovente non osavano sperare di mangiare se non pane, vi era addirittura una sorta di venerazione nei confronti di questo straordinario alimento. L’ho scritto e non posso non ricordarlo nuovamente: a casa mia verso le sette del mattino, prima che io andassi a scuola e mio padre a lavorare, mia madre tornava dal panettiere e deponeva sul tavolo della stanza di ingresso una grande forma di pane, la grissia. La collocava accanto a un fiasco di vino, a un orciolo di olio e a una saliera, il tutto ricoperto da una tovaglia da lei ricamata con la scritta «l’olio, il pane, il vino e il sale siano lezione e consolazione». Chi entrava in casa mia vedeva in questo tavolo posto al centro un invito a sedersi, a mangiare un boccone, a condividere il pane, a bere insieme un po’ di vino.
Tornando alla riflessione sui sensi, il pane al tatto appare duro o molle, fresco o vizzo. Il pane si spezza con un frantumarsi di briciole che dice la sua brevità e che, nel contempo, invita anche l’udito a discernerlo. Ma la massima epifania del pane ai nostri sensi si ha quando esso viene gustato, masticato, mangiato e così diventa noi stessi, perché noi assimiliamo ciò che mangiamo: «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei» (1) . Il pane accompagna gli altri cibi – non a caso detti companatico – dall’inizio alla fine del pasto, è solitamente gradito a tutti, è un alimento quasi completo dal punto di vista dietetico.
Enzo Bianchi
(1) Alludo ovviamente alle celebre frase di Ludwig Feuerbach (1804-1872): «Man ist was man ißt», «Siamo ciò che mangiamo».

sabato 3 settembre 2011

credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere ad ardere


Mito della riforma? O non piuttosto capacità del Vangelo di essere un fuoco che continua a covare sotto la cenere, che resta brace incandescente la quale può sempre dare origine a un roveto ardente? “Il Vangelo è dýnamis, potenza di Dio” (Rm 1,16), dice l’apostolo Paolo! Può essere smentito, fatto tacere, reso inefficace, può essere addirittura contraddetto e pervertito, e allora sembra restare inerte sotto la cenere. Ma poi riprende ad ardere, perché è un fuoco che subito rinasce non appena un cristiano getta sulla cenere qualche sterpo del suo vivere, alla ricerca della luce e della presenza divina. Non si può far tacere per sempre il Vangelo: per qualche tempo sì, e la storia della chiesa lo testimonia; ma poi basta che un uomo o una donna, alla ricerca di luce vera e di fuoco che consumi, abbia il coraggio di scostare un po’ di cenere e di gettarvi sopra una bracciata di legna secca, che subito il fuoco e la luce si fanno nuovamente vedere.
Ormai vecchio, vicino alla morte, un grande spirituale italiano confidò a me e a un mio fratello: “Me ne vado dopo aver combattuto per riformare la chiesa, ma ora sono convinto che la chiesa sia irreformabile”. Quelle parole mi stupirono, mi fecero male, ma non nego che ora a volte sono tentato di condividerle. Siamo capaci di dare alla chiesa un volto nuovo, più fedele e conforme al volto di Cristo, oppure questa è solo una speranza, e la sposa di Cristo sarà tale solo quando verrà lo Sposo? Mi ostino a credere che alla brace del Vangelo basti il soffio dello Spirito per riprendere ad ardere, riscaldando i nostri cuori e illuminando l’umanità intera. Sì, il Vangelo si può ancora vivere in ogni stagione.
Enzo Bianchi

lunedì 25 luglio 2011

L’eucaristia è il magistero del “ma voi non così!”, della differenza cristiana


Ma partecipare all’eucarestia significa anche essere coinvolti nel sacrificio di un uomo, il servo del Signore, che ha speso e dato la sua vita per gli altri fino ad accogliere la morte violenta, la morte del giusto in un mondo ingiusto, la morte dello schiavo in un mondo di padroni e di potenti, la morte di un uomo di pace in un mondo violento... Non a caso, secondo il Vangelo di Luca, proprio nel contesto dell’ultima cena, dopo l’istituzione dell’eucaristia, Gesù ha detto: “Ma voi non così!” (Lc 22,26), non comportatevi come accade ogni giorno nel mondo, non come fanno tutti, non come viene spontaneo fare in base all’istinto della conservazione e della difesa di noi stessi fino a far prevalere l’amore per noi stessi senza gli altri e anche contro gli altri!
L’eucaristia è il magistero del “ma voi non così!”, della differenza cristiana, perché vuole plasmarci in uomini e donne eucaristici, capaci cioè di vivere e spendere la vita a servizio degli altri, amando gli altri fino all’estremo, fino al nemico stesso: corpo spezzato, sangue versato, sacrificio di una vita offerta e consumata nell’amore autentico dei fratelli.
Enzo Bianchi in Jesus n. 7 del luglio 2011

mercoledì 6 aprile 2011

Questa nostra chiesa che abbiamo tanto amato e vogliamo ancora amare


La finale di un bellissimo e sofferto articolo di Enzo Bianchi.
Ho quasi settant’anni, ho lavorato tutta la mia vita per l’unità delle chiese e la comunione nella mia chiesa, ma oggi sento e constato tante contraddizioni. Sì, faccio fatica anch’io, sono stanco di queste guerre tra fazioni ecclesiali combattute sui blog per mezzo di giornalisti compiacenti; sono stanco di accuse che mostrano come non si voglia né ascoltare né conoscere la verità ma soltanto far tacere l’altro. E mi chiedo con molti altri: dove va la chiesa? Questa nostra chiesa che abbiamo tanto amato e vogliamo ancora amare in un’appartenenza leale, non adulatrice e che non cerca né privilegi né promozioni... Questa chiesa che amiamo, più di noi stessi!

JESUS, aprile 2011
Linka sotto per tutto l'articolo, te lo consiglio fraternamente

giovedì 31 marzo 2011

Quell'uomo semplice e buono


I grandi maestri...Uno di questi grandi maestri anonimi, però, è stato per me un vicino di casa, Pinot: non sposato, viveva con una nipote ed era sovente preso in giro per una malformazione del cuoio capelluto - lo chiamavano Furmaggetta. Aveva un bellissimo orto in un terreno che in seguito dovette cedere per fare spazio alla costruzione della cantina sociale del paese: Pinot ogni mattina scendeva nell'orto a lavorare per poi tornare a casa verso le undici con ortaggi e verdure che servivano per il pranzo e la cena. Bambino di una famiglia che non possedeva appezzamenti di terra perchè il padre non era contadino, io ero molto incuriosito dal lavoro agricolo e sovente, fin da piccolo, mi accodavo a Pinot e scendevo con lui nell'orto. Quell'uomo semplice e buono mi ripeteva sempre: "ricordati che per fare un orto ci vuole acqua, letame, ma soprattutto una ciuènda!" Sì, per l'orto non basta che ci siano gli elementi che fanno crescere una pianta, ci vuole anche la ciuènda, la recinzione fatta di canne - più tardi sostituita dalla rete metallica - e di pali che protegge l'appezzamento di terra dagli animali che minacciano di devastarlo: cani, conigli, a volte il cinghiale, più raramente anche altre persone attratte dall'idea di poter raccogliere senza aver seminato. Così, alla fine dell'inverno e anche ogni volta che si apriva qualche varco, aiutavo Pinot a riparare la ciuènda e più che i segreti della coltivazione degli ortaggi imparavo una lezione di vita perchè l'orto è una grande metafora della vita spirituale: anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L'orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell'attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti e suo tempo.


Enzo Bianchi, da "Il pane di ieri"

sabato 13 marzo 2010

Occorre far fe­sta!


Qui termina il racconto di Gesù,
ma sulla conclusione della vicenda restano aperti interrogativi fonda­mentali

per noi che leggiamo la parabola.
È entrato il fratello a fare festa?
E il padre, è entrato lascian­do il figlio maggiore fuori,
oppure è ancora là che lo prega affinché la festa sia completa?
Questa parabo­la ci aiuta davvero a chiederci:
tu che chiami Dio Padre, quale im­magine di Dio hai?

L’immagine di un padre padrone?
Di un padre giusto, dotato di giustizia retributi­va?
O di un padre che ama senza porre condizioni?
Un padre che perdona sempre?
Gesù così ci in­terpella!
A ciascuno di noi la rispo­sta nel nostro cuore:
una risposta che possiamo dare solo nel penti­mento, tornando a Dio, nel segreto del cuore.
(Enzo Bianchi)



Siamo talmente distanti dalla visione di Dio che ci abbraccia ogni istante
che questa poca fede
ci costringe a inchiodarLo sulla croce
rendendo manifesto
il dubbio che abbia le mani aperte.
Eppure,
quando poniamo i primi passi sulla strada del ritorno,
il Padre lascia la torre sulla quale l'abbiamo lasciato correndoci incontro.

sabato 6 marzo 2010

Preghiera

E la preghiera? Essa è privazione del tempo mio, del tempo in cui faccio ciò che voglio, di cui sono padrone. Quando mi metto a pregare, do, offro del tempo a Dio: meditare, stare davanti a Dio semplicemente, anche senza parlare, è sempre donare preziosi minuti della propria vita, minuti che non riusciremo più a riprenderci. Nella preghiera si tratta di far posto a Dio nella nostra vita, è lasciare che Dio venga in noi per operare e mutare ciò che noi non riusciamo a mutare in noi stessi. Dio lo si incontra come si incontra l’altro: lo si fa entrare, si chiude la porta, lo si ascolta, lo si guarda e in quel lasso di tempo non si permette a nessuno di disturbare. L’incontro resta intessuto di silenzio e di parole, di domande e di attese, di gioie e di trafitture. E se a volte durante la preghiera cadiamo nella distrazione o anche nella noia, la fede ci ricorda con forza che comunque Dio non si distrae e non si annoia di noi.

Ormai anziano, vorrei ricordare agli anziani come me che ora il tempo è diventato più prezioso, perché corre velocissimo ed è sempre più breve, ma proprio per questo pregare diventa più urgente. Ha scritto fr. Luc, il più anziano dei sette monaci assassinati nel 1996 a Tibhirine: “Un vecchio è una realtà di miseria, se il suo cuore non canta!”. L’anzianità è tempo di cantare, dunque di pregare con arte!
Enzo Bianchi