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mercoledì 26 marzo 2014

Nel cuore dell'Eucaristia, perciò, ogni parola, gesto, progetto pastorale delle nostre comunità dovrebbe essere verificato alla luce della domanda essenziale: come e in quale misura questa parola, gesto, progetto, rinviano al Signore atteso?


due sono i tratti caratteristici di una Chiesa che vive l'Eucaristia vigilando nell'attesa.
a. Il primo è di essere una Chiesa sempre più relativa a Gesù, rivolta unicamente a lui.
Suggestiva, in proposito, l'immagine astronomica cui si riferivano antichi autori cristiani: il rapporto tra Cristo e la Chiesa è analogo a quello tra il sole e la luna. La luna riceve tutta la sua luce dal sole, la Chiesa ha da trasmettere solo la luce di Cristo. E' Cristo la salvezza di tutti gli uomini e non a caso, nella celebrazione eucaristica, alla proclamazione "Mistero della fede" noi rispondiamo annunciando Cristo morto, risorto e atteso. La Chiesa è totalmente relativa a Gesù, subalterna a lui. Nel cuore dell'Eucaristia, perciò, ogni parola, gesto, progetto pastorale delle nostre comunità dovrebbe essere verificato alla luce della domanda essenziale: come e in quale misura questa parola, gesto, progetto, rinviano al Signore atteso?

lunedì 3 marzo 2014

senza un impegno coraggioso per la giustizia, anche il culto e la lode a Dio finiscono nell'alienazione


Sul piano istituzionale la differenza peculiare della fede si traduce
in una solidale partecipazione dei cristiani,
e insieme in una eccedenza di ideali di vita rispetto alla giustizia puramente legale,
che è indizio e anticipazione di rapporti umani eticamente più densi e aperti a un orizzonte trascendente.
Negli anni della furia nazista Dietrich Bonhoeffer, pastore evangelico incarcerato e ucciso per la sua opposizione al regime, scriveva:
 "Solo chi grida per gli Ebrei ha il diritto di cantare il gregoriano".
Come a dire che, senza un impegno coraggioso per la giustizia, anche il culto e la lode a Dio finiscono nell'alienazione.
La parola provocatoria di Bonhoeffer vale pure in senso inverso:
proprio perché il credente canta la sua lode a Dio, è libero ed è capace di gridare in difesa dei più deboli.
Questa è la sfida della vigilanza cristiana:
una comunità in attesa del Signore, a lui rivolta notte e giorno come sentinella, è una comunità così libera e povera da farsi voce dei piccoli e dei poveri, voce della loro fame di pane e di giustizia, del loro bisogno di una Parola che non passa.

domenica 2 marzo 2014

Quanto più la comunità cristiana sarà in grado di esibire scelte e stili di vita coerenti con il Vangelo, quindi carichi di forza aggregante e persuasiva sui problemi della vita umana, tanto più sarà efficace la sua offerta di un servizio alla ricostruzione della comunità sui temi etici.


b. La promozione delle evidenze etiche a partire dalla fede
Lo stile di laicità si esprime mediante la promozione delle evidenze etiche, di valori di fondo su cui basare un consenso di popolo per le grandi scelte di vita, di solidarietà, di fraternità.
Quanto più la comunità cristiana sarà in grado di esibire scelte e stili di vita coerenti con il Vangelo, quindi carichi di forza aggregante e persuasiva sui problemi della vita umana, tanto più sarà efficace la sua offerta di un servizio alla ricostruzione della comunità sui temi etici. Senza di essi non disporremo di riferimenti utili a impedire che i processi economici e le nuove forme di potere, messe a disposizione del progresso scientifico, conducano a esiti deleteri. In altri termini la centralità dell'etica comporta che il cuore sia il luogo decisivo della libertà e del senso. Il cuore nuovo chiama in causa valori universali presenti in tutti gli uomini: la coscienza, la libertà, la ricerca, il dialogo, la responsabilità, ecc. La fede cristiana non annulla né snatura tale patrimonio nativo, anzi lo nobilita e lo svela più pienamente; diventa allora possibile uno scambio di riflessioni e di impegni con ogni persona sinceramente desiderosa di verità, di giustizia, di fraternità.
c. La coscienza del "di più" della carità
[41] Il discepolo del Vangelo è pure chiamato a custodire la "differenza", ovvero a saper manifestare l'eccedenza della carità evangelica, la sua forza escatologica e non solo la sua dimensione storico-sociale.
Ricordo di aver detto, per esempio, ai lavoratori di un'industria preoccupati per la grave crisi occupazionale che il mio essere tra loro era in nome del Vangelo; non dunque per offrire una soluzione immediata di problemi tecnici la cui impostazione corretta spetta alle diverse realtà sociali implicate, bensì per essere voce del Vangelo. Ci chiediamo: in quale modo si articola l'essere "voce del Vangelo"?
Ho prima indicato la valenza laica della carità cristiana, ma dobbiamo custodirne la forza e l'originalità. Proprio perché viene dal mistero, la carità della Chiesa è in grado di conferire ai programmi umani la direzione, l'orizzonte, la riserva di energie, la contestazione critica quando sia necessaria. Affinché questo contributo non appaia superficiale o astratto si richiede l'intelligente mediazione di competenze e di abilità, tecniche e politiche, ordinate a plasmare le strutture della società complessa, con la consapevolezza delle sue molteplici interdipendenze. 

sabato 1 marzo 2014

Bisogna esprimere concretamente la carica di umanizzazione che si radica nella fede in Cristo.


La testimonianza evangelica della carità deve essere un banco di prova decisivo della nostra scelta preferenziale dei poveri e al tempo stesso della nostra fede. Tre strade mi sembrano necessarie per vivere la carità senza cadere in forme alienanti e senza smarrire l'eccedenza evangelica della carità.
a. Uno stile cristiano di laicità.
E' importante operare partendo da valori cristiani ma sforzandosi di arrivare a gesti che, senza perdere nulla del mordente evangelico, raggiungano l'uomo in quei valori profondi che sono previ a qualunque confessionalità e comuni a tutti gli uomini. Bisogna esprimere concretamente la carica di umanizzazione che si radica nella fede in Cristo. Essa ha un'origine che non potremmo negare senza negare noi stessi e senza farci vanto di ciò che non è nostro (cf 1 Cor 4,7); poiché è puro dono di Dio, siamo chiamati a comunicarla a ogni uomo attraverso diversi modi e diverse forme culturali.

venerdì 28 febbraio 2014

Il primo dono di cui prendersi cura è la parola della fede da conservare e da trasmettere nella sua integrità e nella sua forza.


Nelle parabole della vigilanza, insieme - all'invito a stare desti rivolti al ritorno del Signore, vi è quello 
di custodire la casa, 
di far fruttificare i talenti, 
di provvedere di olio le lampade, 
di praticare le opere della misericordia, 
di prendersi cura dei doni di Dio.
Il primo dono di cui prendersi cura è la parola della fede da conservare e da trasmettere nella sua integrità e nella sua forza. 
E' singolare come Paolo, avvicinandosi alla morte, raccomandi con urgenza al discepolo il compito di custodire le "sane parole" (2 Tm 1,13), "le parole che hai udito da me" e di "trasmetterle a persone fidate" (2 Tm 2,2). 
Queste ultime esortazioni dell'Apostolo, accorate e imperative ("custodisci, attingi forza, ricordati, richiama alla memoria, guardati bene, rimani saldo, ti scongiuro...": (cf 2 Tm 1,14, 2,1.8 14; 3,5.14, 4,1) valgono per tutti i discepoli del Signore ai quali è affidato il buon deposito della fede, da custodire e da trasmettere. 
L'impegno missionario, proposto in Partenza da Emmaus (1983), trova qui la sua sorgente.

giovedì 27 febbraio 2014

la Chiesa è inizio del Regno, non ancora pienezza.

due sono i tratti caratteristici di una Chiesa che vive l'Eucaristia vigilando nell'attesa.

b. Il secondo tratto di una Chiesa che celebra l'Eucaristia nell'attesa è di vivere la tensione tra Chiesa e Regno: la Chiesa è inizio del Regno, non ancora pienezza. Dobbiamo impegnarci dunque per una teologia della gloria e insieme della debolezza della Chiesa.
La prima - quella della gloria - è dominata dalla certezza che non viviamo in un tempo vuoto e irrilevante: la Chiesa - abitata dallo Spirito di Gesù - è infatti segno, primizia del Regno.
La seconda - quella della debolezza - ci avverte che essa non è ancora del tutto compiuta, che è sempre protesa al Regno. Da qui nasce il suo costante bisogno di riforma, di conversione. Secondo le parole del Vaticano II, la Chiesa, pur essendo "santa", è imperfetta, "bisognosa di purificazione", e per questo "mai tralascia la penitenza", mai "cessa di rinnovare se stessa" (Lumen gentium, n. 8).
Il cammino ecumenico verso l'unità piena non può allora essere inteso quale semplice ritorno degli altri alla Chiesa così come ora si presenta. Tale cammino comporta lo sforzo di ciascuno per una conversione che renda più fedeli all'unico Signore e Maestro. Perciò la stessa Chiesa cattolica, senza smarrire la certezza di essere come "un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio", è entrata irreversibilmente nel cammino ecumenico, come ripetutamente ha sottolineato Giovanni Paolo II.
Una Chiesa vigilante, plasmata dall'Eucaristia "viatico" fino al ritorno del Signore, è in permanente stato di riforma, di purificazione e rinnovamento. Essa è ferita dalle divisioni e dai peccati dei suoi membri (14); a eccezione di Maria, la Chiesa porta sul volto "macchie e rughe" e i suoi figli si impegnano a lottare contro il peccato e a rinnovarsi continuamente.

martedì 25 febbraio 2014

Penso che nessun cristiano, con un minimo di cultura e voglioso di compiere un serio cammino interiore, giunga a dire di non avere tempo per leggere la Scrittura.


Vigilare, per il credente, non è semplice attesa di eventi magari catastrofici: è attesa di Qualcuno. Vigilano le dieci vergini in attesa dello Sposo (cf Mt 25,1-13); vigilano i servi in attesa del padrone e per sventare l'arrivo del ladro (cf Lc 12,27-39); vigila l'amico con l'orecchio teso a cogliere il segno di colui che sta alla porta e bussa (cf Lc 11,5-8, Ap 3,20). Vigiliamo perché la nostra vita attende il Signore, perché Dio ha riempito con la sua parola il vuoto che ci spaventa e che tentiamo di colmare mediante il rumore. "In Gesù Dio non solo ha comunicato con l'uomo, ma si è comunicato. Dio non solo è presente in lui, ma è una cosa sola con lui. Egli dunque è la parola piena e definitiva" (In principio la Parola, p. 64).
Negli anni scorsi ci siamo lasciati continuamente ispirare, partendo dalla seconda Lettera pastorale (del 1981) dalla forte affermazione del Concilio Vaticano II: "L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo. I fedeli devono accostarsi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra Liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura... ricordandosi però che la lettura della Sacra Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo, poiché quando preghiamo parliamo con lui, lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini" (Dei Verbum, n. 25). Sono sempre più persuaso che un'educazione all'ascolto del Maestro interiore passa per l'esercizio della lectio divina, della meditazione orante sulla parola di Dio, e non mi stancherò di ripetere che essa è uno degli strumenti principali con cui Dio vuole salvare il nostro mondo occidentale dalla rovina morale che incombe su di esso a causa dell'indifferenza e della paura a credere. La lectio divina è l'antidoto che Dio propone ai nostri tempi per farci superare il consumismo e il secolarismo, favorendo la crescita di quella interiorità senza la quale il cristianesimo non supererà la sfida del terzo millennio.
Penso che nessun cristiano, con un minimo di cultura e voglioso di compiere un serio cammino interiore, giunga a dire di non avere tempo per leggere la Scrittura. Non lo avrà per leggere il giornale, per vedere la televisione, per sorseggiare un aperitivo, per seguire le competizioni sportive; tuttavia dovrà trovare il tempo per dedicare alcuni minuti (inizialmente ne bastano dieci) alla lectio divina, la sera prima di addormentarsi, la mattina prima di iniziare il lavoro, durante una breve pausa a metà giornata. Assicurando questi tre momenti e collegandoli l'uno all'altro con il filo rosso della memoria orante del Vangelo del giorno o della domenica successiva, scopriremo quanto sono importanti per nutrire lo spirito.
Lo scopo delle Scuole della Parola - promosse in questi anni - è proprio quello di insegnare l'esercizio della lectio divina, di insegnare a mettersi personalmente di fronte al testo per pregare. Imparare a vivere della Parola, a stare nella Parola, significa imparare a vivere con gioia, con gusto, con sorpresa l'incontro con la parola di Dio scritta, che poi diventa incontro con Gesù che mi sta chiamando e al quale cerco di rispondere.
Perciò le Scuole della Parola, e ogni altra forma di lettura orante della Bibbia, sono un esercizio di vigilanza, ascolto di Colui che bussa, apertura del cuore affinché possa prendervi dimora.

lunedì 24 febbraio 2014

ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde


Stile contemplativo e vigilanza sono accomunati dal silenzio,
poiché solo nel silenzio ci si può accorgere di Colui che sta alla porta e bussa.
Scrivevo infatti nella mia prima Lettera:
"L'uomo nuovo,
come il Signore Gesù che all'alba saliva solitario sulle cime dei monti (cf Mc 1,3; Lc 4,42; 6,12, 9,28),
aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante,
dove sia possibile tendere l'orecchio e
percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre.
Ciascuno di noi è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni di clamori,
che assordano il nostro giorno
e perfino la nostra notte;
ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde" (La dimensione contemplativa della vita, p. 21).
Anche Martin Heidegger, il grande filosofo contemporaneo,
ha indicato il silenzio come condizione essenziale dell'ascolto
e quindi della vigilanza:
"Nel corso di una conversazione, chi tace può 'far capire',
cioè promuovere la comprensione più autenticamente di chi non finisce mai di parlare... Tacere non significa però essere muto...
Solo il vero discorso rende possibile il silenzio autentico.
Per poter tacere l'uomo deve avere qualcosa da dire,
deve cioè poter contare su una apertura di se stesso ampia e autentica. In tal caso, il silenzio rivela e mette a tacere la 'chiacchiera"' (13).
E, sempre nella dimensione contemplativa della vita, ricordavo una significativa espressione di Clemente Rebora riguardante la sua conversione:
"La Parola zittì chiacchiere mie" (p. 20).

domenica 23 febbraio 2014

Pregando con attenzione e devozione (e con le dovute pause!) e meditando i testi liturgici, ci metteremo nel giusto atteggiamento dei pellegrini che riprendono ogni giorno il cammino verso la mèta.


Il grido di tutti è l'anelito comune in cui ci aiutiamo, ci riconosciamo viandanti deboli e peccatori pieni di nostalgia del volto del Signore, desiderosi di tendere a lui con più purezza e verità. Se ciascuno di noi entrerà nei sentimenti del pellegrino cristiano, di colui che veglia nell'attesa dello Sposo, sarà più facile e più lieto il compito di camminare insieme nella continua conversione e nella gioia.
Per vivere tali atteggiamenti nulla è più efficace della liturgia.
Essa, soprattutto nella celebrazione eucaristica, è continuamente percorsa da aperture escatologiche, stimoli a guardare verso la patria celeste, desideri di eternità. Pregando con attenzione e devozione (e con le dovute pause!) e meditando i testi liturgici, ci metteremo nel giusto atteggiamento dei pellegrini che riprendono ogni giorno il cammino verso la mèta. La dimensione dell'attesa vigilante, del resto, è iscritta nella natura stessa della liturgia: "Ogni rito vive di memoria e si alimenta di speranza, annuncio dell'evento da cui è scaturita la salvezza e profezia che ne anticipa il compimento... Mentre attende e prega, la Chiesa sa che la sua attesa non andrà delusa, e che la sua preghiera non rimarrà senza esito" (11).

sabato 22 febbraio 2014

L'atteggiamento di interiore ed esteriore costante conversione e riforma non significa disprezzo verso le forme tradizionali del costume ecclesiastico e quelle popolari e semplici della vita dei fedeli.


"Conferma, o Padre, nella fede e nell'amore, la tua Chiesa, pellegrina sulla terra". Così recita la Preghiera eucaristica m, riferendosi alla realtà "pellegrinante" della Chiesa in cammino verso il regno di Dio.
La vigilanza è virtù tipica del pellegrino: attenzione alla scelta del cammino, cura di non attardarsi, prontezza nel riprendersi dopo le soste, sguardo interiore teso verso la mèta. La Lettera agli Ebrei, nel capitolo 11, passa in rassegna i grandi pellegrini dell'Invisibile, da Abele a Enoch a Noè, ad Abramo che "obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità" (v. 8), a Mosè che "per fede lasciò l'Egitto, senza temere l'ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse l'invisibile" (v. 25).
La Chiesa è l'insieme di tutti questi pellegrini e deve caratterizzarsi per le virtù di scioltezza, di distacco, di prontezza a riprendersi, a convertirsi a riformarsi che sono proprie di un pellegrino. "Carissimi io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima", dice Pietro (1 Pt 2,11) ricordando le conseguenze ascetiche del sapersi in cammino verso la patria.
L'atteggiamento di interiore ed esteriore costante conversione e riforma non significa disprezzo verso le forme tradizionali del costume ecclesiastico e quelle popolari e semplici della vita dei fedeli. Riforma non significa contrapposizione tra chi la propugna e chi la subisce, tra chi si atteggia a riformatore e la persona o l'istituzione che si pensa debba essere riformata. E' invece consonanza degli uni e degli altri nel desiderare l'unico Signore: "Lo Spirito e la Sposa dicono: vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni!" (Ap 21,17). 

venerdì 21 febbraio 2014

E' necessario creare una cultura della vigilanza, capace di contrastare la cultura della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della depressione, della rivalsa, dell'autoconsolazione, della chiusura in se stessi a doppia mandata.


Oggi si prospetta una grande sfida da cui dipendono le sorti prossime venture del nostro Paese. E' necessario creare una cultura della vigilanza, capace di contrastare la cultura della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della depressione, della rivalsa, dell'autoconsolazione, della chiusura in se stessi a doppia mandata.
L'interrogativo che ci deve in qualche modo mobilitare può essere formulato così: come recuperare una pedagogia della vigilanza diffusa? E' stato detto negli anni scorsi che bisognava passare da una stagione dei diritti a una dei doveri; ora è il momento delle responsabilità. Ciò significa, per esempio, sotto l'aspetto civile che ci interessa, rendersi attivi, non aspettando che lo Stato o gli altri si muovano, informandosi e facendo valere ragionevolmente le proprie istanze.
Due anni fa, per esempio, è stata promulgata una Legge (n. 241/1990) che forse pochi conoscono e ancor meno mettono in pratica. Eppure si tratta, dopo tante parole, di una vera, pur se piccola, rivoluzione: essa stabilisce le "nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi". Gli uffici pubblici non dovrebbero essere più luoghi verso cui nutrire riverenza o paura, oppure centri di potere da cui ottenere favori. Ovviamente la libertà costa fatica e va quotidianamente conquistata.
La stagione delle responsabilità coinvolge ancor più direttamente le cosiddette nuove soggettualità sociali (cf Centesimus annus, n. 49); accanto alla citata Legge sul procedimento amministrativo, abbiamo la normativa sulle autonomie locali (Legge 142/1990), che offre ampie possibilità, con Statuti e Regolamenti, di partecipazione della gente di un territorio alla vita e al bene comune; pure il volontariato (con la Legge 266/1991) e le cooperative sociali (con la Legge 381/1991) sono oggi riconosciuti quali nuovi soggetti sociali, dotati di autonomia statutaria e funzionale, di specificità e originalità nell'intervento. Le leggi riconoscono e valorizzano il ruolo fondativo e insostituibile di promozione, di attuazione e di gestione del bene comune. E' compito della vigilanza il sollecito impulso perché questi spazi (oltre quelli tradizionali dello Stato e del mercato) non restino deserti; essi più che altri possono descrivere e ridescrivere una convivenza fraterna, non condominiale, fondata non solo e non tanto sull'essere soci quanto e soprattutto sull'essere "prossimi".

giovedì 20 febbraio 2014

La vigilanza nell'attesa del futuro affranca, infatti, il cuore dalla servitù del presente (del successo, del danaro, della fama) e permette di vivere l'oggi con rispetto verso l'altro.


Per quale motivo la vigilanza, cioè la trepida attesa del Signore che viene, genera un'etica della responsabilità rispetto alle cose di questa terra, in particolare rispetto ai problemi e agli impegni della vita sociale e politica?
Perché la percezione che l'Amore di Dio intimamente presente in ogni cosa, universalmente all'opera nel creato e luminosamente trasparente in ogni valore è prossimo a manifestarsi nella mia vita e nella storia, mi libera dalla paura di dispiacere e dall'ansia di piacere agli altri, dall'ossessione del loro plauso, dal miraggio di un successo mondano fatto di potere o di denaro. Si attua nel mio cuore una libertà rispetto al godimento delle cose di quaggiù che viene dall'anticipata presenza, nella speranza e nell'attesa, del godimento pieno e definitivo della bontà e bellezza di Dio.
Il nuovo slancio dato alla vita mediante lo sguardo rivolto all'eternità scioglie dagli impacci delle convenzioni permette uno sguardo e un agire libero rispetto ai beni, alle istituzioni, allo stesso consenso sociale. E chi ha responsabilità politiche non sarà schiavo del consenso sociale, bensì un "ministro", cioè un saggio servitore, preoccupato del bene di tutti.
La vigilanza nell'attesa del futuro affranca, infatti, il cuore dalla servitù del presente (del successo, del danaro, della fama) e permette di vivere l'oggi con rispetto verso l'altro. E una mentalità, prima ancora che una serie di comportamenti concreti; è un atteggiamento di responsabilità e di attenzione per la cura della cosa pubblica. C'è da chiedersi in che modo un abituale disinteresse per il bene comune scoraggi i cittadini e i responsabili della cosa pubblica. Ci si può pure domandare come sia possibile sottrarsi alla deriva dell'interesse egoistico e della faziosità - che inducono a disgregazione nel tessuto politico e sociale - quando la formazione del consenso è sistematicamente perseguita attraverso la vischiosità di legami clientelari o pressioni di carattere corporativo.
Ci troveremmo oggi così amareggiati e indignati per tante situazioni incresciose che offuscano la nostra vita politica e amministrativa, se fossimo stati un pò più vigili, se avessimo alzato lo sguardo, allargando gli orizzonti oltre le comodità o l'interesse immediato? Ciascuno è chiamato a interrogarsi, a mettersi in discussione, a chiedere conto a se stesso delle proprie eventuali responsabilità, non solo attive, ma pure di omissione o di semplice distrazione. Vediamo qualche esempio.

mercoledì 19 febbraio 2014

liberi della libertà dei figli di Dio, possiamo scegliere di dare tempo a Lui che ci dedica il suo eterno tempo per realizzare la nostra vita secondo il suo progetto e compierla nell'incontro con Gesù, il Signore.


Se la vigilanza cristiana mira a preparare giorno dopo giorno l'incontro con il Signore che viene, esige pure una saggia attenzione a quanto può distoglierci da questo ideale, in particolare alle "seduzioni", che, più insidiose delle comuni tentazioni, sono come forti attrazioni che nascondono l'inganno.

Esse si possono ricondurre all'istinto del godimento, del possesso, del prestigio e del potere (cf 1 Gv 2,16), strettamente connessi tra loro e interdipendenti (cf 1 Gv 2,16; cf anche Mt 4,1-11; Mc 1, 12-13; Lc 4,1-13). Il godimento, ricercato come fine in se stesso e senza alcuna regola fuorché quella di godere il più possibile; la ricchezza, avidamente accumulata, posseduta e goduta; l'ambizione e la superbia, sempre a caccia di consenso, di prestigio e di successo, quali premesse per garantire il potere di asservire altri e manipolarli a mio uso e consumo. Questi atteggiamenti culturali e comportamentali non sono estranei neppure a una certa pratica religiosa, alle devozioni e alle oblazioni: si può, infatti agire come se Dio, la Madonna e i Santi esistessero per soddisfare le nostre esigenze. Non si pensi che le attrazioni siano tipiche di alcune categorie di persone, poiché ciascuno di noi vi è esposto.
Siamo chiamati a vigilare per dominarle, in modo che, liberi della libertà dei figli di Dio, possiamo scegliere di dare tempo a Lui che ci dedica il suo eterno tempo per realizzare la nostra vita secondo il suo progetto e compierla nell'incontro con Gesù, il Signore.
La vigilanza si attua nelle diverse forme di rinuncia, sia a ciò che è illecito, sia - con la dovuta discrezione - a qualcosa che di per sé sarebbe lecito. E' utile abituarsi a piccole rinunce al fumo, ai dolci, alle bibite, alla televisione, a lunghe e superficiali conversazioni telefoniche, a letture dispersive, a spese superflue nel cibo e nell'abbigliamento, ecc. Una simile ascesi giova pure al sistema nervoso, unifica la mente, aiuta il raccoglimento nella preghiera.

martedì 18 febbraio 2014

e Dio non serve a esaudire la mia voglia di benessere, a soddisfare le mie esigenze, a compiere i miracoli che mi procurano successo, carriera, prestigio e potere, quale senso ha il suo esistere?


"Siate temperanti e vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare" (1 Pt 5,8-9). La Liturgia delle Ore ci fa leggere ogni martedì nella Compieta questa ammonizione che ci introduce nell'aspetto ascetico della vigilanza.
Vogliamo comprenderla a partire dal "disordine" espresso dall'affermazione "Non ho tempo". Non ho tempo di pensare al "tempo" di Dio perché il tempo è "mio", come mia è la vita, la natura, le cose, il denaro, Dio stesso; tutto è mio! Io sono il padrone e tutto uso e consumo a mio piacere.
Se Dio non serve a esaudire la mia voglia di benessere, a soddisfare le mie esigenze, a compiere i miracoli che mi procurano successo, carriera, prestigio e potere, quale senso ha il suo esistere?
non ho tempo di pensare ad altro che a farmi il "mio" regno, perché chi mi garantisce che ci sia il cosiddetto regno di Dio, per raggiungere il quale dovrei dedicare tempo e vigilanza?
Tali domande ispirano la cultura e il comportamento della società secolaristica che ha relegato Dio tra le cose da usare: sono domande e pensieri che si possono ben qualificare come "seduzioni di satana".
Nel Rito delle promesse battesimali che si rinnovano ogni anno nella Veglia Pasquale è posta la domanda: "Rinunci a satana, alle sue opere e alle sue seduzioni?".


C M Martini

lunedì 17 febbraio 2014

Vivere la spiritualità dell'attesa è vivere la dimensione contemplativa nella profonda consapevolezza dell'assoluto primato di Dio sulla vita e sulla storia.



Chi, credendo alla promessa di Dio rivelata nella Pasqua, attende il ritorno del Signore e si sforza di vivere nell'orizzonte della speranza che non delude, sperimenta la gioia di sapersi amato, avvolto e custodito dalla Trinità santa. Come le vergini sagge della parabola (cf Mt 25,1-13), egli attende lo Sposo, alimentando l'olio della speranza e della fede con il cibo solido della Parola, del Pane di vita e dello Spirito santo che nella Parola e nel Pane si dona a noi.
Vivere la spiritualità dell'attesa è vivere la dimensione contemplativa nella profonda consapevolezza dell'assoluto primato di Dio sulla vita e sulla storia. Perciò l'atteggiamento spirituale della vigilanza è un continuo riferire al Signore che viene la propria vita e la vicenda umana, nella luce della fede che ci fa camminare da pellegrini verso la patria (cf Eb 11) e ci permette di orientare a essa ogni nostro atto.
Il totale orientamento del cuore a Dio colma la persona della letizia e della pace proprie di chi vive le beatitudini (cf Mt 5,1-11, Lc 6,20-23). Essa non sperimenta naturalmente la beatitudine di chi si sente arrivato, bensì quella umile e fiduciosa di chi, nella povertà e nella sofferenza, nella mitezza e nella sete di giustizia, nella custodia del cuore e nel costruire rapporti di pace, si sa sostenuto dall'amore del Signore che è venuto, viene e tornerà nell'ultimo giorno.
La spiritualità dell'attesa esige quindi povertà di cuore per essere aperti alle sorprese di Dio, ascolto perseverante della sua Parola e del suo Silenzio per lasciarsi guidare da lui docilità e solidarietà con i compagni di viaggio e i testimoni della fede, che Dio ci affianca nel cammino verso la mèta promessa. La vigilanza nutre il senso della Chiesa, nella compagnia della fede e della speranza con quanti camminano con noi verso la celeste Gerusalemme.
Carlo Maria Martini

domenica 16 febbraio 2014

essa dimostra la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico


Vivere nell'attesa del ritorno del Signore non è fuga dalla storia; 
è vivere ancora più pienamente la storia nell'orizzonte del suo destino ultimo.
L'atteggiamento evangelico della vigilanza fonda così un'etica del discernimento: 
chi attende il Signore si sa chiamato a vivere responsabilmente ogni atto alla presenza del suo Dio, 
e comprende che il valore supremo di ogni scelta morale sta nello sforzo di piacere a Dio e di santificare il suo Nome compiendo la sua volontà.
Dio, quale orizzonte ultimo e patria vera, diviene il criterio della decisione morale; 
il discernimento di ciò che è penultimo rispetto a ciò che è ultimo e definitivo si offre come la forma concreta in cui si esercita la responsabilità etica.
Guardando al mistero pasquale come statuto della vigilanza cristiana, 
si potrebbe dire che, sotto il profilo morale, la speranza della risurrezione è la morte e risurrezione delle speranze umane: 
essa dimostra la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico. 
In questa luce, i temi decisivi del nascere e del morire si colorano del loro significato più profondo: nascere è essere chiamati a un destino di eternità, che a nessuno è lecito manipolare o pretendere di interrompere; 
morire è andare incontro al compimento di tale destino, 
con tutta la dignità dell'esercizio della libertà che ci è data, 
per piacere a Dio e santificarne il Nome 
nella gioia e nel dolore, 
nella vita e nella morte (10).

sabato 15 febbraio 2014

Nessun programma pastorale sulla vigilanza avrà efficacia se non sarà macerato nell'esperienza di preghiera che costituisce il banco quotidiano di prova e il forno infuocato di purificazione della speranza

Jacques Maritain, in una conversazione tenuta a Tolosa ai Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld nel 1962, ha descritto con semplicità e profondità la misteriosa e tenera relazione che unisce ciascuno di noi con i membri della Chiesa che ci hanno preceduto nel regno eterno. Egli ricorda come coloro che stanno presso Dio non cessano di interessarsi delle realtà per le quali si sono spesi nella vita terrena e che ora contemplano nella luce di Dio. Con loro (genitori, parenti amici santi protettori sacerdoti che ci hanno preceduto nel ministero) noi possiamo entrare in conversazione, confidando ciò che ci sta a cuore e che anch'essi ebbero a cuore, per cui lavorarono e soffrirono (8).
E la conversazione più tenera e incessante deve svolgersi con la Vergine Maria, Regina del mondo, Madre della Chiesa e di tutti gli uomini e soprattutto con Gesù Cristo, redentore dell'umanità.
La preghiera è perciò l'espressione prima e principale della vigilanza e della speranza cristiana. Nessun programma pastorale sulla vigilanza avrà efficacia se non sarà macerato nell'esperienza di preghiera che costituisce il banco quotidiano di prova e il forno infuocato di purificazione della speranza. Chi prega costantemente e intensamente, impara che cos'è la vigilanza e, anche nella prova, vede nascere in lui la speranza che non delude (cf Rm 5,2-5). Se vogliamo allora giungere a una percezione reale, non puramente nozionistica, di quanto ho spiegato nelle pagine precedenti, dobbiamo ascoltare le esortazioni pressanti di Gesù e degli Apostoli: "Bisogna pregare sempre senza mai stancarsi" (Lc 18,1); "Vegliate e pregate per non entrare in tentazione" (Mt 26,41); "Siate assidui nella preghiera: che essa vi mantenga vigilanti nel rendimento di grazie" (Col 4,2).
C M Martini

venerdì 14 febbraio 2014

Chi ha questi occhi... si impegna per "utopie realistiche" come la visione di una nuova umanità proposta dall'insegnamento sociale della Chiesa


le speranze temporali partendo dalla speranza eterna 

7. Le nostre speranze per questa vita
possono dunque rimanere in buona parte
nascoste agli occhi della storia
e sono chiaramente percepibili solo
agli occhi della fede e della speranza.
Chi ha questi occhi lotta con amore
per la giustizia,
per la pace,
per una più grande uguaglianza dell'umanità,
per l'equilibrio della natura;
si impegna per "utopie realistiche"
come la visione di una nuova umanità
proposta dall'insegnamento sociale della Chiesa;
lavora per l'affermarsi pur circoscritto dei valori del Regno,
con la certezza che essi rimangono in eterno;
sono un'anticipazione di quella pienezza
che, con fiducia e sicurezza, attendiamo da Dio solo.

giovedì 13 febbraio 2014

l'amore e il perdono dei giusti vincono l'odio e spalancano orizzonti di vita.


le speranze temporali partendo dalla speranza eterna 

6. Sappiamo che
le forze del male e dell'ingiustizia
non riusciranno a distruggere
quanto è stato costruito per grazia dello Spirito d'amore.
Pur nei momenti più neri,
come in quello della morte di Gesù,
l'amore e il perdono dei giusti vincono l'odio
e spalancano orizzonti di vita.

mercoledì 12 febbraio 2014

abbiamo la certezza che la forza dello Spirito non ci mancherà mai


le speranze temporali partendo dalla speranza eterna 

5. Ogni nostro sforzo autentico nelle direzioni sopra indicate,
è consapevole del fatto
che la forza del peccato e dell'ingiustizia è sempre all'opera
e contrasta continuamente gli ideali di bene.
Non aspettiamo dunque,
quale oggetto della speranza teologale,
il momento in cui le forze del male saranno definitivamente vinte sulla terra (cf Mt 13,2430.36 43.47-50),
e non va escluso che la malizia degli uomini possa far precipitare la storia in una catastrofe del mondo umano e del suo ambiente.
Siamo perennemente in condizione di lotta
e tuttavia abbiamo la certezza che la forza dello Spirito non ci mancherà mai,
che nessuno di coloro che invocheranno con fede il nome del Signore soccomberà alla tentazione,
che la Chiesa rimarrà fino all'ultimo momento della prova rifugio sicuro per quanti si affideranno a essa.