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sabato 13 ottobre 2012

un Dio che io non so darti


L’intruso è dunque dentro di me fino a identificarsi con me stesso, ed è tale che rende estranea ed espropriante la mia vita, la quale non può essere disgiunta dalla morte, il cui differimento, cifra del mondo di oggi, è un modo per esibirla e per sottolinearla, non certo per ostentare un’assenza di fine. Non è un eterno ritorno dell’uguale, ma una circolarità drammatica che ripropone la non banalità della vita vissuta al di qua e non in prospettiva dell’al di là. «Su questo la teologia è chiamata a riflettere: che cosa comporta la ritrascrizione del Vangelo in termini di “vita”, non di “vita eterna” come sarebbe tradizionale, ma di semplice “vita”? Che senso ha questa traduzione in categorie naturali di ciò che è supremamente soprannaturale? Come può il concetto di “vita” definire il messaggio di colui che insegnava a “perdere la propria vita” e continuamente rimandava al “regno dei cieli”?»18.
Nello sforzo di non chiudere le molteplici prospettive che la vita ci fornisce e i rimandi che pur da essa è possibile accogliere, non dimentichiamo il qui e ora che accomuna il genere umano, nell’estraneità e nella desertificazione dell’esistere che l’esperienza dell’intruso anzitutto manifesta. In questo impegno comune di attraversamento, in questa comune espropriazione della vita-morte, non possiamo non sentirci solidali gli uni con gli altri, a prescindere dalle convinzioni religiose, filosofiche, economiche e sociali di ciascuno, come le parole poetiche sembrano suggerirci invitandoci alla meditazione silenziosa (Salvatore Passari):

Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere è la
dove la Parola non muore
abbia fine il nostro cammino.
D. M. Turoldo, Canti Ultimi 

venerdì 12 ottobre 2012

impressiona soprattutto la sua dimensione comune, ordinaria «banale»


Del male non impressiona soltanto la sua ferocia e la sua truculenza, né l’interrogativo angoscioso se ciò che attribuiamo all’oppressore possa esplodere nelle stesse modalità anche dentro di noi, ma impressiona soprattutto la sua dimensione comune, ordinaria «banale». Quell’orientamento e quel comportamento per cui «le poche regole e norme in base alle quali gli uomini distinguono il beni dal male - regole e norme la cui validità è ritenuta evidente da chiunque sia sano di mente, facendo esse parte del diritto naturale divino (...) - vengano meno dal mattino alla sera, (...) possano cambiare all’improvviso, senza troppi problemi, così come si possono cambiare le nostre abitudini a tavola»13.
Del dolore, inutile dirlo, non c’è alcuna consolazione. Lo si può accettare, sublimare, trasfondere in altro, ma «sul dolore non  c’è nulla da dire. Il dolore fa un taglio nel senso e impedisce che ci sia un senso: quando si prova un grande dolore niente ha senso. Il solo senso possibile è quello di respingere il dolore, di rifuggirlo o di essere scaltri nei suoi confronti» 14. Il dolore tiene in scacco la vita Non è lecito inneggiare, banalmente e maldestramente, a facili consolazioni. Le parole sulla croce, sulla sofferenza e sul dolore possono indicare, nella prospettiva cristiana, una strada paradossale inaudita; possono pure trasformarsi in ideologia e in indebito potere esercitati da uomini su altri uomini e veicolare schiavirù, domini, poteri illegittimi, scandali. E possono così suscitare la sdegnosa reazione di Nietzsche nel percepire il cristianesimo, al pari del platonismo, come esperienza che fissa e detta regole che non si ispirano al mondo di quaggiù, ma a un mondo che sta al di là della straripante forza della vita che si sprigiona nell’al di qua, e che per ciò stesso è luogo di evasione degli animi pusillanimi.
Il dubbio dell’uomo sofferente che grida tutto il suo scandalo e orrore per il proprio dolore e per quello altrui è legittimo; e se la fede è apertura allo Sconosciuto per attingere da esso luce, consapevolezza, accettazione, essa è parimenti orizzonte comune all’umano incedere nella condivisione di un Silenzio che sa farsi Caritas, e che accomuna gli uomini nell’anelito alla liberazione dal male e dal dolore. Una fede, dunque, debole e precaria, che non si alimenta e non si rassicura con la negazione del mondo e del non senso e disperazione che da esso trasudano, ma che anzi si incarna nel dolore del mondo, accettando il rischio di perdersi in esso.
L’intruso dentro di noi di Salvatore Passari