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sabato 3 novembre 2012

è la scala musicale che ci fa ascendere dalla terra al cielo

Ecco le parole di introduzione del Card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura. «Santità, nel giorno dedicato dalla liturgia a San Benedetto, quasi come per un omaggio augurale a Lei rivolto, la West-Eastern Divan Orchestra – col suo appassionato fondatore e direttore M° Daniel Barenboim – si presenta davanti a Vostra Santità e davanti al Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano che tanto ha desiderato questo evento così suggestivo.
Questi giovani orchestrali sono il simbolo vivente delle tre grandi culture religiose della Terrasanta, l’ebraica, la cristiana e la musulmana. A unirli non c’è solo la fede nell’unico Dio e la comune radice abramitica, ma anche la musica, che è la vera lingua universale dell’umanità. Per creare l’atmosfera spirituale profonda di questo evento, è naturale, allora, far risuonare la voce di tre alti testimoni delle fedi qui rappresentate.
La prima è quella dell’islam, col celebre poeta mistico musulmano Jalal ed-Dîn Rûmî, contemporaneo di Dante. Egli nel suono dolce del flauto intuiva la nostalgia del canneto da cui era stato strappato, parabola del nostro legame originario con Dio: “Fuoco è questo grido di flauto – scriveva – e non vento, fuoco dell’Amato divino che ha invaso ogni particella del mio essere, per cui di me non rimane che il nome, tutto il resto è Lui!”.
La seconda voce è quella dell’ebraismo con Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace 1986. Egli rievocava la scala della visione di Giacobbe sulla quale salivano e scendevano gli angeli (Genesi 28) e concludeva: “Ebbene, quando gli angeli risalirono in cielo, dimenticarono di ritirarla. Da allora essa è rimasta tra noi ed è la scala musicale che ci fa ascendere dalla terra al cielo”.
L’ultima voce, che facciamo idealmente risuonare questa sera, è quella del cristianesimo con lo scrittore del VI sec. Aurelio Cassiodoro. Egli nelle sue Institutiones ammoniva: “Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza la musica”.
Santità, la musica che tra poco risuonerà ci ricorderà che – nonostante tutto – c’è ancora giustizia, amore e pace nel mondo e ci ripeterà che Dio, se ci lascia ancora la musica, è segno che non si è stancato di amare l’umanità».

sabato 7 maggio 2011

Dio, allora, tristemente sospirando disse: Perché il mio servo mi abbandona per andare in cerca di me?


«Dio si stanca dei grandi regni, mai dei piccoli fiori», scriveva, evocando le teofanie silenziose: «Oggi lungo i sentieri nascosti, / attraverso l'ombrosa selva / invisibile a tutti, / silenzioso come la notte sei venuto, Signore... », così cantava in una delle sue opere più celebri, Gitanjali del 1913-14 (tradotta in italiano come Canti di offerta, San Paolo Edizioni 1993). Purtroppo, però, l'uomo «affonda nelle sabbie mobili della noia... / intristito in pareti strette, senza cielo aperto... / perso nelle molte strade / tra grattacieli di inutili cose». E invece dovrebbe abbandonarsi all'abbraccio divino, come egli invoca: «Lasciami solo quel poco con cui possa chiamarti il mio tutto. / Lasciami solo quel poco con cui possa sentirti in ogni luogo / e offrirti il mio amore in ogni momento». E ancora la temperie mistica di questa «piccola canna di flauto» suonata da Dio – come ama definirsi Tagore, che era anche musicista – affiora in un'altra confessione di lode: «Hai fatto prigioniero il mio cuore / nelle infinite reti / del tuo canto, o mio Signore».



Eppure la sua religiosità non si astrae dalla quotidianità che gronda di sofferenze e di ingiustizie. Citatissima è la preghiera, sempre del suo capolavoro Gitanjali, che suona così nel suo centro tematico: «Dammi la forza, o Signore, di non rinnegare mai il povero, / di non piegare le ginocchia di fronte al l'insolenza dei potenti». Esemplare è la parabola dell'aspirante asceta che decide di lasciare la sua famiglia per l'eremo e che si chiede: «Chi mi trattenne a lungo nell'illusione della vita familiare?». Dio gli sussurra: Io! «Ma l'uomo aveva le orecchie turate. Col suo bimbo addormentato al seno, la moglie dormiva placidamente. L'uomo disse: Chi siete voi che mi ingannate coi sentimenti? Una voce misteriosa mormorò: Essi sono Dio! Ma egli non intese. Allora Dio comandò: Fermati, sciocco, non abbandonare la tua casa! Ma l'aspirante asceta ancora non udì. Dio, allora, tristemente sospirando disse: Perché il mio servo mi abbandona per andare in cerca di me?».

Tagore, una voce in mano a Dio Gianfranco Ravasi scritto sul sole 24ore il 01 maggio 2011. Chi volesse leggerlo tutto linki

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-05-01/tagore-voce-mano-082032.shtml?uuid=AaxEGRTD

sabato 22 gennaio 2011

il gusto delle grandi attese

Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani che chiedono a un anziano rabbino quando sia cominciato l'esilio di Israele. " L'esilio di Israele" risponde il rabbino" cominciò il giorno in cui Israele non ha più sofferto del fatto di essere in esilio". Il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c'è più nel cuore la struggente nostalgia della patria.
APOLOGO EBRAICO



(...). L'uomo di oggi ha perso il gusto delle grandi attese, degli interrogativi radicali, degli ampi orizzonti. La perdita di questa nostalgia dell'infinito da cui proviene e a cui è destinato lo rende meschino, curvo sulle piccole cose (...). Aveva ragione lo scrittore moralista francese secentesco La Rochefoucauld quando dichiarava : "Chi si dedica troppo alle piccole cose diventa incapace delle grandi". In molti c'è ormai l'abitudine all'esilio, stanno bene nella banalità di un'esistenza priva di fremiti e di tensione, non attendono più un "oltre", cioé una meta più alta, una destinazione che non sia solo una qualsiasi stazione di passaggio. (...). Nel suo Discorso sulle scienze e sulle arti il famoso filosofo francese Jean-Jacques Rousseau osservava : "L'anima si proporziona insensibilmente agli oggetti che la occupano e quindi sono i grandi orizzonti quelli che fanno i grandi uomini".

tratto da
"Le parole e i giorni"
di Gianfranco Ravasi