“Come seguace di Cristo, credi sopra ogni cosa che sei stato redento, perdonato e che sei amato da Dio con amore infinito” (F.X. Nguyen Van Thuan, Il cammino della speranza).
Nulla di più semplice, forse fin troppo semplice per comprendere davvero il valore della nostra esistenza: credere sopra ogni cosa che sei stato redento, perdonato e amato da Dio con amore infinito. Ma poiché le cose semplici (proprio per la loro sobrietà) ci appaiono talvolta non vere, noi quotidianamente provvediamo a complicarci la vita! E così tentiamo di convincere il nostro cuore che siamo sfigati, nessuno ci ama davvero, sbagliamo tutto e nemmeno noi siamo in grado di perdonarci tutte le volte che sbagliamo… e che la nostra capacità di amare e di essere amati è come una bomba ad orologeria che può esplodere da un momento all’altro, perché (ne siamo ormai erroneamente convinti) nessuno può amare l’altro con amore infinito. Il buon Dio, a questo punto, con divina e amorevole pazienza, te lo ritrovi accanto intento a raccogliere i cocci della vita che tu hai rifiutato, per ricomporli come in un mosaico e per ridisegnareinsieme a te la strada che non riuscivi più a vedere!
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sabato 6 novembre 2010
venerdì 5 novembre 2010
Ma certi attimi si ha paura: non di qualcosa, ma paura e basta...La paura di chi nell'esistenza non ha innestato un senso al suo vagare.
Don Marco Pozza, http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124201
Un crisantemo sulla tomba e una lacrima sul viso. Celebre quell'espressione dell'Ungaretti poeta: "Si sta come, d'autunno, sugli alberi, le foglie" (Soldati, 1918). Foglie che ingiallite cadono. Terra strapazzata e ferita dall'aratro, Castagne copiose nella fornella dell'appassionata massaia. E poi i colori caldi dei boschi, l'aria profumata delle vallate, l'alternarsi di tramonti rossastri e di albe lussureggianti. E qualche fiocco di timida neve. E' l'autunno della natura che tanto somiglia all'autunno della vita: forze che vacillano, pensieri che s'impigriscono, eco di antiche nostalgie. Il tocco di una campana, magari lenta, incupisce il cuore e rende malinconico il volto. Perchè ci ricorda che, nonostante tutto l'apparire, quaggiù è sempre e solo una terra di passaggio, zona d'allenamento, occasione di prova.
E' lassù la casa.
Un genio l'uomo: dalla ruota alla polvere da sparo, dal bacillo dell'aviaria alla luce, dalla "particella di Dio" alla macchina a vapore, dalla fotografia alla scrittura, tutto porta la sua firma. La sua appassionata ricerca delle leggi che regolano la musica del Creato. Nei laboratori l'uomo studia, s'arrovella, si stupisce. Nelle fabbriche lavora, guadagna, progredisce. Nelle chiese prega, s'accomuna, elargisce. Nelle case litiga, progetta e s'impoverisce. L'uomo può tutto: camminare, correre, saltare. Giocare, pensare, stupire. Crescere, diminuire, battagliare. L'uomo è potenza perché tutto sembra ai suoi piedi. Poi basta un tocco lento di campana per ficcargli nell'anima faticosi punti interrogativi: che senso ha vivere, faticare, sudare se poi tutto scompare? Sono bello: ma morirò. Sono ricco: ma finirà. Sono un genio: ma passerò. Perché tutto scomparirà.
E l'uomo - anticaglia uscita perfetta da Mani di Genio Innamorato - trema. Pensa, riflette, ha paura. Illusosi d'aver strappato all'Eterno l'immortalità, avverte l'angoscia dell'inedito, dell'imprevedibile. Le notizie giornalistiche parlano di città che s'attrezzano per formare operatori funebri, gente che aiuti a metabolizzare lo shock. Imprese funebri che s'accaparrano modelle svestite per abbellire la morte. Accanimenti paurosi per cercare di dribblare ciò che, inizialmente, era la nascita verso l'Eterno. Verso la pienezza. Verso la Gioia. Ricordo da bambino le lunghe veglie funebri con il defunto tenuto in casa. E coi bambini si pregava, lo si vegliava, gli si stava vicino nell'ora del passaggio. Tra canti, preghiere e litanie gli occhi dei piccoli apprendevano una legge bella, di vita, colorata: quasi uno squarcio di luce lanciato verso il cielo. Attimi di anticipata eternità. Perché - vite povere in esistenze ricche di cielo - l'Eterno era il premio, l'approdo, il senso di una vita. Oggi la morte fa paura. Così paura che, per paura, non se ne parla più. E così la paura cresce, monta, s'ingigantisce. La paura diventa angoscia. "Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci" (B. Pascal). Angoscia di una linea di febbre, di un cielo minaccioso, di un suono forestiero. Di uno sguardo, di uno sconosciuto accanto, di una mano troppo fredda. Ci pensavamo dèi: ci vediamo uomini sganciati da Dio. Uomini che corrono, imprecano e dimenticano per paura di pensare. Ma perché correre se non si sa dove andare? Sulla memoria del fratello morto, Foscolo tratteggiò l'amara consapevolezza dell'umana fatica: "Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, mi vedrai seduto sulla tua pietra..." (In morte del fratello Giovanni). Della morte nutriamo riverente spavento: in realtà tanti sono già morti. Non nel fisico, magari, ma nell'anima le esequie sono terribili: giovinezze spente, amori infranti, sogni lacerati. Tradimenti, disillusioni, sospetti. Maldicenze, voltafaccia, inganni. Sta decedendo lo stato, la democrazia, la finanza. Dio urla, sussurra, agisce: ma l'uomo corre. Dio tenta l'appostamento: l'uomo Lo sposta, Lo evita, Lo irride. Dio l'attende al varco: l'uomo è angosciato.
E' il buio che fa paura al bambino. E' l'esame che terrorizza lo studente. E' la malattia che intristisce la mamma. E' la solitudine che impensierisce il nonno. Ma certi attimi si ha paura: non di qualcosa, ma paura e basta. L'angoscia del vivere, dell'essere abbandonato. La paura in cui l'Amore non riesce più ad entrare. La paura di chi nell'esistenza non ha innestato un senso al suo vagare.
L'Uomo della Croce un giorno ebbe a dire: "Chi vive e crede in me non morirà in eterno" (Gv 11,26). Non è promessa che eviteremo la morte. Ma molto di più: è certezza celeste che la morte della creatura non sarà più assurda e insignificante. Non sarà tolta. Ma semplicemente trasformata. Perché il sogno di Dio è di riabbracciarsi commosso con le sue creature.
Peccato aver voluto duplicare il brevetto di Dio sulla morte. Ne è uscita un'occasione d'angoscia. Quando la sua era spazio di vita. Eterna, tra l'altro.
giovedì 4 novembre 2010
Dobbiamo smettere di accontentarci di verità da edicola e tornare a mangiare dall’albero della vita
di Alessandro D’Avenia, Avvenire 4.11.10
La verità, la vita, la missione di chi crede in Gesù Cristo
Domenica scorsa, durante la Messa, mia sorella mi ha fatto notare, incredula, una signora intenta nella lettura di una rivista dal titolo reso più ironico, se non grottesco, dalla situazione: "Vero. Salute". Una rivista promette più verità e salvezza (ridotta a salute, e il bene ridotto a benessere) di quanta ne dispensi il mistero domenicale. Dentro di me ho sentito un moto di ribellione. Non verso la signora, ma verso Dio: «Dici di essere la verità, ma poi questa verità non ci conquista». Non è questione di vita o di morte. Non ci prende, non ci sorprende. Preferiamo altre verità più a buon mercato, altre salvezze, più sicure. La verità e la vita si cercano, ma non si trovano. La verità deve tornare a sedurre la vita e farle riscoprire che sono fatte della stessa pasta. La verità deve tornare a incarnarsi, perché la vita ne rimanga sedotta e conquistata. E quindi salvata. Domenica in una chiesa di Baghdad, durante la Messa, alcuni terroristi si sono fatti esplodere, uccidendo più di 50 persone. Per quei cristiani quella Messa è stata questione di vita o di morte. Tornano alla memoria quei 50 martiri di Abitene, in Africa, che furono giustiziati durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, perché sorpresi a celebrare la Messa che era stata loro vietata. Il padrone della casa che li ospitava per la celebrazione, al proconsole perplesso di fronte a tanta cocciutaggine, rispose: «Sine Dominico, non possumus». Senza il giorno del Signore, non possiamo. Non possiamo vivere. Non possiamo essere. Non possiamo. «Non c’è vita senza conoscenza, né conoscenza autentica senza la vera vita: per questo i due alberi sono stati piantati l’uno accanto all’altro», spiegava agli inizi del cristianesimo un anonimo nella sua nota lettera al curioso Diogneto, pagano, sedotto dalla verità. Quale verità? La vita dei cristiani: lo incantava e ne chiedeva conto e ragione a un amico, capace di pennellare l’identità cristiana con semplicità e chiarezza rimaste insuperate. Egli spiega che Dio manda suo figlio «come Dio, quale era, e come uomo, come conveniva diventasse per salvare gli uomini, mediante la persuasione e non con la violenza». Se la verità non persuade più la vita è perché non è più vita: si è disincarnata, non ha più la carne e le ossa dei cristiani.
La vita non vuole essere istruita, vuole essere ascoltata, sedotta, amata. Dio non è un catechismo, ma vita. Spesso ci accontentiamo di una vita impoverita, sdrucita, noiosa. L’anonimo ha l’ardire di dire a Diogneto che i cristiani sono nel mondo «ciò che è l’anima nel corpo». I cristiani sono la vita del mondo, come lo spirito tiene in vita e anima il corpo. Tutti conosciamo quella sensazione di smarrimento di fronte al corpo di un caro defunto: sembra irriconoscibile, benché ogni tratto del viso ci sia assai familiare. Quando non c’è più vita, persino il corpo perde identità. Il mondo senza i cristiani è un guscio inespressivo, un corpo senza vita. I cristiani sono l’anima del mondo. Dovremmo ripetercelo più spesso e chiederci se dove ci muoviamo, lavoriamo, riposiamo, siamo capaci di dare vita (cioè tempo e attenzione) a ciò e a chi ci sta attorno. Il cristiano è come re Mida, trasforma tutto ciò che tocca. Non in oro, ma in vita. Ma può farlo solo se ha dentro di sé l’esuberanza della vita. I cristiani possono tornare a sedurre la vita e restituirle la verità di cui ha sete, di cui ha disperato bisogno in tempi di povertà spirituali, oltre che materiali, di dipendenze asfissianti, di là da apparenti libertà assolute. Nietzsche ripeteva che avrebbe creduto il giorno in cui avesse visto sul volto dei cristiani l’espressione di uno che è salvo. Kafka, quasi conoscesse la parole della Lettera a Diogneto, scriveva nei suoi Diari che siamo due volte separati dalla salvezza: per avere mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male e per non aver mangiato da quello della vita. Dobbiamo smettere di accontentarci di verità da edicola e tornare a mangiare dall’albero della vita, rinato al centro del mondo, all’inizio della settimana. Altrimenti moriremo ogni giorno, portando nella fossa con noi il mondo, che langue, privo d’anima. È ora che la verità torni a sedurci. È ora di lasciarsi vincere dalla vera tentazione: mangiare dall’albero della vita. Senza non possiamo. Senza non siamo.
mercoledì 3 novembre 2010
un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta
...Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.
Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della risurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente....
La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.
E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12). La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio.
martedì 2 novembre 2010
DIO DEI MIEI POVERI GIORNI
La povertà della mia vita quotidiana voglio portarti dinanzi, Signore, e la mortale monotonia delle mie abitudini; lunghe ore, lunghi giorni, pieni di tutto fuorché di te. Guarda, Dio mite che dell'uomo hai compassione, dell'uomo che è tutto in questa povertà ; guarda la mia anima, ché l'infinita sagra di questo mondo consuma quasi per intero, nella sua ridda di inezie senza numero, nelle chiacchiere, nelle curiosità, nel vuoto delle sue faccende e del suo darsi importanza.
Non è la mia anima, davanti a te, verità intemerata, come una piazza dove dai quattro venti tutti i rivenduglioli si danno convegno per far mercato delle povere ricchezze di questo mondo; dove esponiamo, io e gli altri, le nostre futilità in perpetua insipiente inquietudine?
E' proprio dell' anima essere in qualche modo « tutto», ho imparato molti anni fa, da « filosofo». Oh mio Dio, quanto diversa esperienza ho dovuto fare di questa verità, da quello che allora pensavo e sognavo! Un enorme magazzino è diventata la mia anima, in cui, alla rinfusa, s'ammassa « tutto» giorno su giorno, fino a stiparlo fino al tetto.
Quale sarà la mia fine, mio Dio, se la mia vita continua così? L'ora che, improvvisa, spazzerà dalla mia anima tutte le futilità che l'hanno ingombrata, l'ora della mia morte, come sarà, Signore? Nulla di quanto riempie la mia vita quotidiana, nulla mi resterà in quell'improvviso totale abbandono. Ma che sarò io allora, Signore, che sarò io quando non mi resterà che me stesso, a me che tutta una vita sono stato vanità, cioè chiasso e chiacchiere e affaccendarmi, e, in fondo, sempre desolazione e squallore? Quando la pressione 'e la violenza della morte finirà di esprimere, inesorabile, dai giorni della mia vita, dai miei lunghi anni, il loro vero contenuto, che sarà allora, Signore? Se tu m'hai usato misericordia, mio Dio, qualche raro minuto si salverà forse nella grande delusione che sopravverrà all'illusione dei miei giorni perduti; pochi momenti nei quali la grazia del tuo amore s'è insinuata in un angolo del mio cuore, accanto alle infinite futilità che hanno ingombrato i giorni della mia vita.
Ma chi mi darà di evadere dalla miseria delle mie vane sollecitudini, di rivolgere la mia anima all'uno necessario che sei tu? Come fuggire alla forza delle mie abitudini quotidiane? Non sei stato tu che mi hai assoggettato al loro ricorso mortificante? Non ero già perduto e sommerso nella vanità di questo mondo quando ho cominciato la prima volta a intravedere in te il vero senso di questa mia vita che non potevo abbandonare così alla giostra delle mie abitudini?
Non sei tu che m'hai fatto uomo? Questo essere insoddisfatto, che, nella brama della tua infinità, cammina e cammina incontro alle tue stelle; e s'affanna su tutte le vie della terra e in capo a tutte le vie della terra, ecco, le tue stelle brillano mute sempre ugualmente lontane.
E, vedi Signore, se io volessi fuggire la povertà della mia vita ordinaria, se volessi farmi certosino per dover restare sempre, in silenzio e adorazione, alla tua santa presenza, mi sarei con questo sottratto davvero al ricorso dell'abitudine? Se penso alle ore che ,passo al tuo altare, o a recitare la preghiera della tua Chiesa, allora io comprendo: non le occupazioni mondane rendono monotoni e vani i miei giorni; io sono che ho il potere di trasformare le azioni più sante in meccanica, grigia ripetizione: io svuoto i miei giorni, non i miei giorni me.
Io lo vedo perciò, che se una via c'è che a te mi possa condurre, essa passa attraverso le povertà della mia vita quotidiana; altra via per rifugiarmi in te non potrei trovare che lasciando indietro me stesso nella mia fuga. Ma si può mai giungere a te attraverso questa povertà? Non mena lontano da te questa via, giù sempre verso il vuoto e il chiasso delle mie faccende, nelle quali tu non abiti, tu Dio della quiete? So bene che l'agitazione molteplice, che a uno riempie la vita e il cuore, finisce poi nella sazietà; che il « taedium vitae» dei filosofi, la sazietà di vivere, l'ultima esperienza della vita dei patriarchi, come mi narra la tua parola, sarà sempre più anche la mia sorte. Sì, questa mia vita quotidiana si converte al fine nella grande melanconia della vita. Ma non la fanno anche i pagani questa esperienza? Sono con ciò arrivato vicino a te, solo che la mia vita mostri al fine il suo vero volto, solo che io rinnovi l'esperienza del tuo savio e confessi che tutto è vanità e afflizione di spirito? E così, in tanta semplicità, che la mia vita ordinaria è una via verso di te? O non è piuttosto questa l'ultima vittoria della vanità, quando il cuore è al fine esausto e insignificanti sono anche gli interessi consueti della vita, quelli che, così familiarmente, solevano distrarre l'uomo dalla noia, dallo squallore che gli occupava l'anima, E' più vicina a te la stanchezza delusa che la fresca gioia di vivere? E dove ti si troverà, Signore, se le voglie che riempiono i miei giorni ti fanno dimenticare e la disillusione non t'ha ancora trovato, anzi affligge il cuore e lo rende .anche più inadatto al tuo incontro?
Mio Dio, se in tutto ti posso perdere, se né preghiera, né sacre solennità, né quiete di chiostro, se neppure la finale delusione basta a escludere questo pericolo, allora anche tutto quanto c'è di santo, quanto sembra elevarsi sopra la vanità della mia monotona vita, ricade nella vanità. Sì, vanità non è una parte della mia vita, la più lunga, fosse pure; ma quanto è lunga la vita, tanto c'è in essa di vanità; tutto è vanità, che mi nasconde e mi toglie quello di cui ho bisogno, te, mio Dio.
Ma pure se non c'è luogo dove io debba andare per averti trovato, se tutto può essere la perdita di te, dell'Unico, allora devo anche poterti trovare in tutto; ché se no non ti potrebbe affatto trovare l'uomo che senza di te non può essere. Bisogna allora che ti cerchi in tutto, ché ogni creatura è vanità, e ogni creatura è un incontro con te, l'ora della tua grazia. Tutto ti nasconde e tutto ti rivela. lo comprendo ancora quello che da tanto tempo sapevo; ora mi rivive in cuore quello che m'ha spesso ripetuto la mia mente. Ma a che serve la verità della mente che non diventa vita del cuore?
Mi devo ancora una volta rileggere quella pagina che ho trascritto tanti anni fa da Giovanni Ruysbroeck: il mio cuore la comprende ancora una volta. Mi consolo sempre a rileggere come questo uomo interiore concepiva la sua vita. E l'amore che ritrovo in me per queste parole, anche in tanta povertà della mia vita, è come una promessa che tu vorrai un giorno benedire anche la mia povertà. « Dio viene senza posa in noi, attraverso le cose e senza le cose, e vuole da noi quiete amorosa e lavoro, e che l'uno 'non impedisca l'altra, ma si fortifichino sempre a vicenda. L'uomo interiore perciò possiede la sua vita in queste due maniere, nella quiete e nel lavoro. E in ciascun di esse egli è intero e indiviso. Egli è tutto in Dio, godendo la sua quiete, ed è tutto in se stesso, rimanendo attivo in amore. E costantemente riceve egli da Dio il monito e l'incitamento a rinnovare l'una e l'altro: la quiete e l'amore. L'uomo dunque è giusto ed in cammino verso Dio mediante interiore dilezione e costante operare; ed entra in Dio mediante la dilezione fruitiva in pace eterna. Rimane in Dio ed esce tuttavia su tutte le creature, in amore aperto a tutto, in virtù e giustizia. E questo è il grado supremo della vita interiore. Tutti coloro che non possiedono « ad un tempo»quiete e lavoro, non hanno raggiunto questa giustizia. Ma quel giusto non può essere impedito nella sua vita interiore, poiché e la quiete e l'operare ve lo riconducono. Egli è piuttosto simile a un doppio specchio, che rispecchia dalle due facce. Ché nella parte superiore del suo spirito l'uomo rispecchia e riceve Dio con tutti i suoi doni, e nella parte inferiore riceve, attraverso i sensi, le immagini corporee... ».
« Ad un tempo » devo essere nella povertà delle cose e nella tua verità. Uscendo nel mondo, rientrare prèsso di te, possedere in tutto te, l'Unico. Ma come fanno le cose a diventare la tua verità? E' solo opera tua, Signore. Solo tu puoi fare di me un uomo. « interiore» nella molteplicità delle occupazioni d'ogni giorno. Solo tu mi puoi mantenere, nel mio intimo, vicino. a te, quando io esco quasi da me per essere con le cose. Non l'angoscia, né il nulla, né la morte mi liberano dalla dispersione sulle cose del mondo, come van dicendo oggi i filosofi; ma solo il tuo amore, l'amore per te, tu che sei di tutte le cose fine e attrattiva, tu beatitudine che sola basti a te stessa. Il tuo amore, mio Dio infinito, l'amore per te, che si protende oltre attraverso le creature, attraverso il loro cuore, fin nella tua lontananza infinita, e tutte queste perdute creature le solleva con sè, come un coro di lodi alla tua infinità. Davanti a te diventa uno ogni molteplicità; ogni dissipazione si raccoglie in te; ogni esteriorità ritorna alla sua interiorità nel tuo amore. Nel tuo amore ogni uscire sulle cose diventa un ritorno nella tua unità, che è la vita eterna. Ma tu solo mi puoi donare questo amore, che lascia alla vita quotidiana la sua povertà, e la converte tuttavia in vita di incontro con te.
Che mi resta più da dirti, Signore, ora che mi presento così a te nella povertà mia quotidiana? Solo una timida invocazione ancora: Il tuo amore, mio Dio, il dono che tu sempre dispensi, il sommo dei tuoi doni. Tocca il mio cuore con la tua grazia. Quando, nella gioia o nel dolore, tratto le cose di questo mondo, fa che, attraverso ad esse, giunga all'amore e al contatto con te, che di tutte le cose sei l'unico primordiale principio. Tu che sei l'amore, dammi l'amore, donami te stesso, perchè tutti i miei giorni sfocino finalmente nell'unico giorno, che è la tua vita eterna.
KARL RAHNER
TU SEI IL SILENZIO
Colloqui con il Dio Altissimo
Non è la mia anima, davanti a te, verità intemerata, come una piazza dove dai quattro venti tutti i rivenduglioli si danno convegno per far mercato delle povere ricchezze di questo mondo; dove esponiamo, io e gli altri, le nostre futilità in perpetua insipiente inquietudine?
E' proprio dell' anima essere in qualche modo « tutto», ho imparato molti anni fa, da « filosofo». Oh mio Dio, quanto diversa esperienza ho dovuto fare di questa verità, da quello che allora pensavo e sognavo! Un enorme magazzino è diventata la mia anima, in cui, alla rinfusa, s'ammassa « tutto» giorno su giorno, fino a stiparlo fino al tetto.
Quale sarà la mia fine, mio Dio, se la mia vita continua così? L'ora che, improvvisa, spazzerà dalla mia anima tutte le futilità che l'hanno ingombrata, l'ora della mia morte, come sarà, Signore? Nulla di quanto riempie la mia vita quotidiana, nulla mi resterà in quell'improvviso totale abbandono. Ma che sarò io allora, Signore, che sarò io quando non mi resterà che me stesso, a me che tutta una vita sono stato vanità, cioè chiasso e chiacchiere e affaccendarmi, e, in fondo, sempre desolazione e squallore? Quando la pressione 'e la violenza della morte finirà di esprimere, inesorabile, dai giorni della mia vita, dai miei lunghi anni, il loro vero contenuto, che sarà allora, Signore? Se tu m'hai usato misericordia, mio Dio, qualche raro minuto si salverà forse nella grande delusione che sopravverrà all'illusione dei miei giorni perduti; pochi momenti nei quali la grazia del tuo amore s'è insinuata in un angolo del mio cuore, accanto alle infinite futilità che hanno ingombrato i giorni della mia vita.
Ma chi mi darà di evadere dalla miseria delle mie vane sollecitudini, di rivolgere la mia anima all'uno necessario che sei tu? Come fuggire alla forza delle mie abitudini quotidiane? Non sei stato tu che mi hai assoggettato al loro ricorso mortificante? Non ero già perduto e sommerso nella vanità di questo mondo quando ho cominciato la prima volta a intravedere in te il vero senso di questa mia vita che non potevo abbandonare così alla giostra delle mie abitudini?
Non sei tu che m'hai fatto uomo? Questo essere insoddisfatto, che, nella brama della tua infinità, cammina e cammina incontro alle tue stelle; e s'affanna su tutte le vie della terra e in capo a tutte le vie della terra, ecco, le tue stelle brillano mute sempre ugualmente lontane.
E, vedi Signore, se io volessi fuggire la povertà della mia vita ordinaria, se volessi farmi certosino per dover restare sempre, in silenzio e adorazione, alla tua santa presenza, mi sarei con questo sottratto davvero al ricorso dell'abitudine? Se penso alle ore che ,passo al tuo altare, o a recitare la preghiera della tua Chiesa, allora io comprendo: non le occupazioni mondane rendono monotoni e vani i miei giorni; io sono che ho il potere di trasformare le azioni più sante in meccanica, grigia ripetizione: io svuoto i miei giorni, non i miei giorni me.
Io lo vedo perciò, che se una via c'è che a te mi possa condurre, essa passa attraverso le povertà della mia vita quotidiana; altra via per rifugiarmi in te non potrei trovare che lasciando indietro me stesso nella mia fuga. Ma si può mai giungere a te attraverso questa povertà? Non mena lontano da te questa via, giù sempre verso il vuoto e il chiasso delle mie faccende, nelle quali tu non abiti, tu Dio della quiete? So bene che l'agitazione molteplice, che a uno riempie la vita e il cuore, finisce poi nella sazietà; che il « taedium vitae» dei filosofi, la sazietà di vivere, l'ultima esperienza della vita dei patriarchi, come mi narra la tua parola, sarà sempre più anche la mia sorte. Sì, questa mia vita quotidiana si converte al fine nella grande melanconia della vita. Ma non la fanno anche i pagani questa esperienza? Sono con ciò arrivato vicino a te, solo che la mia vita mostri al fine il suo vero volto, solo che io rinnovi l'esperienza del tuo savio e confessi che tutto è vanità e afflizione di spirito? E così, in tanta semplicità, che la mia vita ordinaria è una via verso di te? O non è piuttosto questa l'ultima vittoria della vanità, quando il cuore è al fine esausto e insignificanti sono anche gli interessi consueti della vita, quelli che, così familiarmente, solevano distrarre l'uomo dalla noia, dallo squallore che gli occupava l'anima, E' più vicina a te la stanchezza delusa che la fresca gioia di vivere? E dove ti si troverà, Signore, se le voglie che riempiono i miei giorni ti fanno dimenticare e la disillusione non t'ha ancora trovato, anzi affligge il cuore e lo rende .anche più inadatto al tuo incontro?
Mio Dio, se in tutto ti posso perdere, se né preghiera, né sacre solennità, né quiete di chiostro, se neppure la finale delusione basta a escludere questo pericolo, allora anche tutto quanto c'è di santo, quanto sembra elevarsi sopra la vanità della mia monotona vita, ricade nella vanità. Sì, vanità non è una parte della mia vita, la più lunga, fosse pure; ma quanto è lunga la vita, tanto c'è in essa di vanità; tutto è vanità, che mi nasconde e mi toglie quello di cui ho bisogno, te, mio Dio.
Ma pure se non c'è luogo dove io debba andare per averti trovato, se tutto può essere la perdita di te, dell'Unico, allora devo anche poterti trovare in tutto; ché se no non ti potrebbe affatto trovare l'uomo che senza di te non può essere. Bisogna allora che ti cerchi in tutto, ché ogni creatura è vanità, e ogni creatura è un incontro con te, l'ora della tua grazia. Tutto ti nasconde e tutto ti rivela. lo comprendo ancora quello che da tanto tempo sapevo; ora mi rivive in cuore quello che m'ha spesso ripetuto la mia mente. Ma a che serve la verità della mente che non diventa vita del cuore?
Mi devo ancora una volta rileggere quella pagina che ho trascritto tanti anni fa da Giovanni Ruysbroeck: il mio cuore la comprende ancora una volta. Mi consolo sempre a rileggere come questo uomo interiore concepiva la sua vita. E l'amore che ritrovo in me per queste parole, anche in tanta povertà della mia vita, è come una promessa che tu vorrai un giorno benedire anche la mia povertà. « Dio viene senza posa in noi, attraverso le cose e senza le cose, e vuole da noi quiete amorosa e lavoro, e che l'uno 'non impedisca l'altra, ma si fortifichino sempre a vicenda. L'uomo interiore perciò possiede la sua vita in queste due maniere, nella quiete e nel lavoro. E in ciascun di esse egli è intero e indiviso. Egli è tutto in Dio, godendo la sua quiete, ed è tutto in se stesso, rimanendo attivo in amore. E costantemente riceve egli da Dio il monito e l'incitamento a rinnovare l'una e l'altro: la quiete e l'amore. L'uomo dunque è giusto ed in cammino verso Dio mediante interiore dilezione e costante operare; ed entra in Dio mediante la dilezione fruitiva in pace eterna. Rimane in Dio ed esce tuttavia su tutte le creature, in amore aperto a tutto, in virtù e giustizia. E questo è il grado supremo della vita interiore. Tutti coloro che non possiedono « ad un tempo»quiete e lavoro, non hanno raggiunto questa giustizia. Ma quel giusto non può essere impedito nella sua vita interiore, poiché e la quiete e l'operare ve lo riconducono. Egli è piuttosto simile a un doppio specchio, che rispecchia dalle due facce. Ché nella parte superiore del suo spirito l'uomo rispecchia e riceve Dio con tutti i suoi doni, e nella parte inferiore riceve, attraverso i sensi, le immagini corporee... ».
« Ad un tempo » devo essere nella povertà delle cose e nella tua verità. Uscendo nel mondo, rientrare prèsso di te, possedere in tutto te, l'Unico. Ma come fanno le cose a diventare la tua verità? E' solo opera tua, Signore. Solo tu puoi fare di me un uomo. « interiore» nella molteplicità delle occupazioni d'ogni giorno. Solo tu mi puoi mantenere, nel mio intimo, vicino. a te, quando io esco quasi da me per essere con le cose. Non l'angoscia, né il nulla, né la morte mi liberano dalla dispersione sulle cose del mondo, come van dicendo oggi i filosofi; ma solo il tuo amore, l'amore per te, tu che sei di tutte le cose fine e attrattiva, tu beatitudine che sola basti a te stessa. Il tuo amore, mio Dio infinito, l'amore per te, che si protende oltre attraverso le creature, attraverso il loro cuore, fin nella tua lontananza infinita, e tutte queste perdute creature le solleva con sè, come un coro di lodi alla tua infinità. Davanti a te diventa uno ogni molteplicità; ogni dissipazione si raccoglie in te; ogni esteriorità ritorna alla sua interiorità nel tuo amore. Nel tuo amore ogni uscire sulle cose diventa un ritorno nella tua unità, che è la vita eterna. Ma tu solo mi puoi donare questo amore, che lascia alla vita quotidiana la sua povertà, e la converte tuttavia in vita di incontro con te.
Che mi resta più da dirti, Signore, ora che mi presento così a te nella povertà mia quotidiana? Solo una timida invocazione ancora: Il tuo amore, mio Dio, il dono che tu sempre dispensi, il sommo dei tuoi doni. Tocca il mio cuore con la tua grazia. Quando, nella gioia o nel dolore, tratto le cose di questo mondo, fa che, attraverso ad esse, giunga all'amore e al contatto con te, che di tutte le cose sei l'unico primordiale principio. Tu che sei l'amore, dammi l'amore, donami te stesso, perchè tutti i miei giorni sfocino finalmente nell'unico giorno, che è la tua vita eterna.
KARL RAHNER
TU SEI IL SILENZIO
Colloqui con il Dio Altissimo
lunedì 1 novembre 2010
In Cristo poi li possiamo in qualche modo raggiungere, i nostri morti, che in Lui sono vivi.
una breve riflessione di Paolo VI sui defunti:
"Vi invitiamo oggi ad uscire con la memoria dal mondo dei vivi ed a fare, come è costume in questo mese, una visita al mondo dei nostri cari defunti, a tutta l'umanità trapassata dalla scena del tempo a quella dell'esistenza fuori del tempo. Visitando i cimiteri ci fa riflettere alla inesorabile caducità della vita presente; ed è questa una formidabile lezione anche se l'effetto pratico può essere ambiguo, stimolando in chi non riflette un'ansia maggiore di vivere la vita presente, ma crescendo invece nei credenti la sapienza per il buon uso di ogni valore, del tempo durante la nostra effimera attuale giornata terrena. É una scuola di alta filosofia questa sosta sui sepolcri umani.
Anche per due altre ragioni: per compiere un dovere di memoria e di riconoscenza verso chi ci ha lasciato un'eredità, quella della vita specialmente, e poi tante altre, dell'amicizia, della cultura, del sacrificio forse. Dimenticare non è umano, non è saggio.
L'altra ragione perché la memoria dei defunti non è soltanto una rimembranza, è una celebrazione della loro sopravvivenza, dell'immortalità della loro anima, anche se tanto velata di mistero; è un contatto con una comunione viva e commovente con coloro i quali 'ci hanno preceduti con il segno della fede e dormono il sonno della pace'.
In Cristo poi li possiamo in qualche modo raggiungere, i nostri morti, che in Lui sono vivi. In Cristo continua la CIRCOLAZIONE DELL'AMORE. La nostra vita 'ecco, io vi dico un mistero' (S. Paolo ai Corinti) riprenderà. Ora si trova in una fase di dissociazione che disintegra il corpo, e lascia superstite l'anima, ma questa è priva dello strumento naturale per le sue facoltà normali. Un giorno, se qui siamo inseriti in Cristo, il nostro corpo risorgerà, ricomposto, perfetto e felice. Non è vano pensare così: è vero, è pio, è consolante. Lo sguardo del passato si volge al futuro, verso l'aurora del ritorno di Cristo. Per questo riflettiamo e preghiamo per i nostri defunti e, ricordando ciò che ci attende, preghiamo per noi vivi".
"Vi invitiamo oggi ad uscire con la memoria dal mondo dei vivi ed a fare, come è costume in questo mese, una visita al mondo dei nostri cari defunti, a tutta l'umanità trapassata dalla scena del tempo a quella dell'esistenza fuori del tempo. Visitando i cimiteri ci fa riflettere alla inesorabile caducità della vita presente; ed è questa una formidabile lezione anche se l'effetto pratico può essere ambiguo, stimolando in chi non riflette un'ansia maggiore di vivere la vita presente, ma crescendo invece nei credenti la sapienza per il buon uso di ogni valore, del tempo durante la nostra effimera attuale giornata terrena. É una scuola di alta filosofia questa sosta sui sepolcri umani.
Anche per due altre ragioni: per compiere un dovere di memoria e di riconoscenza verso chi ci ha lasciato un'eredità, quella della vita specialmente, e poi tante altre, dell'amicizia, della cultura, del sacrificio forse. Dimenticare non è umano, non è saggio.
L'altra ragione perché la memoria dei defunti non è soltanto una rimembranza, è una celebrazione della loro sopravvivenza, dell'immortalità della loro anima, anche se tanto velata di mistero; è un contatto con una comunione viva e commovente con coloro i quali 'ci hanno preceduti con il segno della fede e dormono il sonno della pace'.
In Cristo poi li possiamo in qualche modo raggiungere, i nostri morti, che in Lui sono vivi. In Cristo continua la CIRCOLAZIONE DELL'AMORE. La nostra vita 'ecco, io vi dico un mistero' (S. Paolo ai Corinti) riprenderà. Ora si trova in una fase di dissociazione che disintegra il corpo, e lascia superstite l'anima, ma questa è priva dello strumento naturale per le sue facoltà normali. Un giorno, se qui siamo inseriti in Cristo, il nostro corpo risorgerà, ricomposto, perfetto e felice. Non è vano pensare così: è vero, è pio, è consolante. Lo sguardo del passato si volge al futuro, verso l'aurora del ritorno di Cristo. Per questo riflettiamo e preghiamo per i nostri defunti e, ricordando ciò che ci attende, preghiamo per noi vivi".
domenica 31 ottobre 2010
Tutto può fare il nostro Dio tranne che dimenticarsi di noi
"Io invece non ti dimenticherò mai"!
“La più grande disgrazia che può capitarvi è di pensare di non essere utili ad alcuno e che la vostra vita non serva a nulla. L'unica verità è amarsi. Amarsi gli uni gli altri, amarsi tutti” (Raoul Follereau).
Ci sono momenti nella vita in cui davvero pensiamo di non essere utili ad alcuno e che la nostra vita non serva a nulla. Tali considerazioni creano un terribile senso di abbandono e di profonda mestizia nell’anima e nel cuore, soprattutto di chi è più giovane e ha bisogno di maggiori certezze.
A volte perdiamo l’orientamento; non sappiamo nemmeno descrivere bene i sintomi di questo malessere, ma abbiamo la netta impressione di dover naufragare da un momento all’altro o per dirla come il sommo padre Dante: “mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”.
Nessuno, si direbbe, si accorge del momento che stai attraversando. Ma Dio? Dio no! Tutto può fare il nostro Dio tranne che dimenticarsi di noi. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is. 49, 15).
http://cogitor.splinder.com/
“La più grande disgrazia che può capitarvi è di pensare di non essere utili ad alcuno e che la vostra vita non serva a nulla. L'unica verità è amarsi. Amarsi gli uni gli altri, amarsi tutti” (Raoul Follereau).
Ci sono momenti nella vita in cui davvero pensiamo di non essere utili ad alcuno e che la nostra vita non serva a nulla. Tali considerazioni creano un terribile senso di abbandono e di profonda mestizia nell’anima e nel cuore, soprattutto di chi è più giovane e ha bisogno di maggiori certezze.
A volte perdiamo l’orientamento; non sappiamo nemmeno descrivere bene i sintomi di questo malessere, ma abbiamo la netta impressione di dover naufragare da un momento all’altro o per dirla come il sommo padre Dante: “mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”.
Nessuno, si direbbe, si accorge del momento che stai attraversando. Ma Dio? Dio no! Tutto può fare il nostro Dio tranne che dimenticarsi di noi. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is. 49, 15).
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