possiamo facilmente incontrare l’insuccesso e lo scoraggiamento
è quella della creazione della comunità parrocchiale.
Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia.
Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti,
un sacerdote mi espresse la sua frustrazione
perché troppo spesso
la parrocchia era vista più come una stazione di servizio
che non come una genuina comunità.
La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa
per una messa fugace anziché riunirsi attorno all’altare come popolo di Dio.
Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa,
ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco
prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale.
Tutto questo non sorprende.
Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato
prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità.
Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità,
ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti
nella lista dei luoghi di appartenenza,
dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro.
Tutto questo può insinuare nel sacerdote l’idea del fallimento,
di non essere riuscito
a radunare la gente attorno all’altare
e di costruire una comunità eucaristica.
Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative;
mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista,
ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso
è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto.
Ogni comunità cristiana,
sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della “Legio Mariae”,
è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo,
quella del Regno.
Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere
l’errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia.
(Timothy Radcliffe, Chiamati ad irradiare gioia).