sabato 14 gennaio 2017

ricercare le orme della gioia, della sua stremata fragilità, nei volti e negli occhi, nel sorriso e negli sguardi di chiunque incontriamo in vita

Cosa ci dice, infine, la gioia in ordine al senso della vita: al destino che è in noi?
La gioia ci dice forse che,
nella condizione umana, è radicata la possibilità di ritrovare un senso nella vita
anche quando essa sia oscurata dalle spine inesorabili
dell’indifferenza e della noncuranza,
dell’egoismo e dell’aggressività,
e anche della violenza e della morte.
La gioia è un destino insondabile che consente di intravedere la luce
anche nelle tenebre dei campi di concentramento,
quando la grazia, il mistero della grazia, sia nella nostra anima.
Ma a noi, a ciascuno di noi, è demandato il compito di ricercare le orme della gioia,
della sua stremata fragilità,
nei volti e negli occhi,
nel sorriso e negli sguardi di chiunque incontriamo in vita.
Non la inaridiamo con la nostra gelida disattenzione.
Eugenio Borgna

venerdì 13 gennaio 2017

un’arcana nostalgia di infinito

Ma la gioia testimonia di un’arcana nostalgia di infinito,
di un infinito che non si spegne nemmeno nelle condizioni di straziato dolore e di quotidiana attesa della morte;
come sono state quelle vissute da Etty Hillesum a Westerbork, il campo di concentramento olandese nel quale è stata confinata dal 1941 al 1943:
nell’attesa, come è avvenuto, di essere mandata
a morire ad Auschwitz con i genitori e con Mischa, uno dei suoi due fratelli
(ma anche Jaap, sopravvissuto ad Auschwitz, moriva mentre tornava in Olanda).
La gioia, una gioia di inesprimibile tenerezza,
rinasce in Etty Hillesum con parole che non si possono citare se non con il cuore in gola:
«Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda il dominio della morte, sí, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è cosí».
Eugenio Borgna

giovedì 12 gennaio 2017

un’emozione che nasce in noi solo quando il nostro cuore si sottrae agli avvenimenti di ogni giorno

La gioia come immagine del cuore,
e il cuore come immagine della gioia:
l’una e l’altra cosí fragili.
Certo, se volessi aggiungere qualcosa alle straordinarie considerazioni rilkiane,
potrei soltanto dire che

la gioia è un’emozione che nasce in noi solo quando il nostro cuore si sottrae agli avvenimenti di ogni giorno, e recupera le sorgenti intatte del nostro aprirsi agli altri:
nella dedizione e nella solidarietà.

La gioia è un’emozione luminosa
che è causata da qualcosa non di esteriore ma di interiore:
è quasi una fontana che sgorga dagli abissi della nostra interiorità.

La gioia è un’emozione friabile e fragilissima, sí,
come la stella del mattino
che si intravede un attimo, e poi scompare fra la notte e l’alba:
come la rosa che,
in una bellissima poesia di Malherbe,
fiorisce e poi muore nello spazio di un mattino.

La gioia è un’emozione di indescrivibile leggerezza
che ci fa riflettere fino in fondo sul mistero della condizione umana:
sulla sua estrema fragilità che resiste nondimeno alle situazioni dolorose della vita:
quando nasca, e cosí è sempre, dal cuore.

La gioia è un’emozione impalpabile e fuggitiva,
e non è facile raggiungerla e trattenerla.
Sguscia fra le dita, e tuttavia come coda di cometa continua a vivere in noi:
nella nostra memoria, e nel nostro cuore.
Eugenio Borgna

mercoledì 11 gennaio 2017

Le emozioni fragili, come le virtú deboli, hanno in sé le stimmate lucenti e dolorose dell’umanità ferita


Ci sono emozioni fragili, certo, ma ci sono anche virtú fragili, virtú deboli, 
come la gentilezza e la mansuetudine, 
l’innocenza e la modestia, 
la mitezza e la tenerezza; 
e come non richiamarmi, a questo riguardo, alle considerazioni di Norberto Bobbio 
in un suo bellissimo libro dedicato all’elogio della mitezza? 
«Chiamo “deboli” queste virtú 
non perché le consideri inferiori o meno utili e nobili, e quindi meno apprezzabili, 
ma perché caratterizzano quell’altra parte della società 
dove stanno 
gli umiliati e gli offesi, i poveri, i sudditi che non saranno mai sovrani, 
coloro che muoiono senza lasciare altro segno del loro passaggio su questa terra che una croce con nome e data in un cimitero, coloro di cui gli storici non si occupano perché non fanno storia, 
sono una storia diversa, con la s minuscola, 
la storia sommersa o meglio ancora la non-storia 
(ma da qualche anno si comincia a parlare di una microstoria contrapposta alla macrostoria, e chi sa che nella microstoria ci sia un posto anche per loro)».

Le emozioni fragili, come le virtú deboli, 
hanno in sé le stimmate lucenti e dolorose dell’umanità ferita, 
ed è questa a renderle cosí umane e cosí arcane.
Eugenio Borgna

martedì 10 gennaio 2017

sono fragili alcune delle emozioni piú significative della vita.

Le emozioni fragili.
Ci sono emozioni forti ed emozioni deboli, virtú forti e virtú deboli, e sono fragili alcune delle emozioni piú significative della vita.

Quali emozioni si possono considerare fragili, e in cosa consiste la loro fragilità?
Sono fragili
la tristezza e la timidezza,
la speranza e l’inquietudine,
la gioia e il dolore dell’anima,
l’amicizia e le lacrime,
che sono intessute di fragilità e che,
se non fossero fragili,
perderebbero immediatamente
la loro significazione umana e il loro fulgore emozionale.
Le emozioni fragili si scheggiano e si frantumano facilmente:
non resistono all’avanzata dei ghiacciai
della noncuranza e dell’indifferenza,
delle tecnologie trionfanti e degli idoli consumistici.
Ma cosa diverrebbe la speranza, se non fosse nutrita di fragilità e di fluida friabilità?
Non sarebbe se non una delle tante problematiche certezze che,
nella loro impenetrabilità al dubbio e all’incertezza,
svuotano di senso la vita.
Eugenio Bogna

lunedì 9 gennaio 2017

ci consente di curarle e di guarirle senza lasciare cicatrici

Le parole nascono dal silenzio e muoiono nel silenzio,
e tuttavia le parole non sono mai fragili come lo è il silenzio che non parla se non con il linguaggio dei volti, degli sguardi e delle lacrime,
o del sorriso, ed è un linguaggio che si coglie nei suoi significati profondi solo quando sia accompagnato dalla luce arcana dell’interiorità.
Solo un dialogo senza fine con il silenzio, con la fragile evanescenza del silenzio,
ci consente di cogliere le ferite dello spirito inesprimibili e invisibili
agli occhi della ragione calcolante,
e ci consente di curarle e di guarirle senza lasciare cicatrici.
Quando ci incontriamo con un malato in ospedale,
alta è la tentazione di parlare, di riempire con parole le pause del silenzio,
senza rendersi conto che
talora al silenzio di chi sta male
non può accompagnarsi
se non talora il silenzio di chi sta bene.
Non dovremmo mai lasciarci trascinare dall’impazienza e dalla fretta di aggredire il silenzio
senza cercare di intuirne le motivazioni.
Costa fatica attendere che il silenzio si esaurisca;
ma nella solitudine in cui noi ci troviamo dinanzi alla indifesa fragilità di un paziente murato nel suo silenzio, è necessario attendere, tacere, non fare nulla e scambiarsi un sorriso.
Eugenio Borgna

domenica 8 gennaio 2017

La parola che tace è talora piú importante della parola che parla

Come non essere tentati di guardare al silenzio come a un modo di essere inutile e negativo,
e alla parola invece come a un modo di essere sfolgorante e positivo?
Ma dovremmo sapere che nella vita non tutto è dicibile, e non tutto è esprimibile; e non dovremmo illuderci di potere spiegare i pensieri che abbiamo, e le emozioni che proviamo, con le sole parole chiare e distinte.
La parola che tace è talora piú importante della parola che parla.
Sono cose che dice Etty Hillesum nel suo bellissimo diario scritto nel campo di concentramento olandese di Westerbork:
«In me c’è un silenzio sempre piú profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla»;
e quante sono le parole inutili che diciamo ogni giorno senza che il silenzio abbia a recuperarle nella loro sincerità e nella loro profondità:
«Bisogna sempre piú risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche parole che ci sono necessarie, per riconoscerci e per riconoscere cosa c’è nell’altro. Questa nuova forma di espressione deve maturare nel silenzio».
Eugenio Borgna