sabato 7 gennaio 2012

la cosa più importante per me sta in questo verbo: ritrovarlo.

Gli auguri di Geremia di Gilberto Borghi | 05 gennaio 2012 
Vorrei che in questo "spaesamento collettivo" ci fermassimo un istante e ci chiedessimo:
"Ma qual è la cosa più importante di tutte per Gesù?
 Quella su cui concentrarsi e a cui dedicare le nostre energie?
A partire dalla quale si può ancora trovare un filo per capire e dare senso a quello stiamo vivendo?
Mi è passato sotto mano in questi giorni, per questioni di lavoro, il libro di Geremia. "Poiché dice il Signore: Ecco questa volta caccerò lontano gli abitanti del paese, li ridurrò alle strette, perché mi ritrovino (10,18)". Ecco la cosa più importante per me sta in questo verbo: ritrovarlo. E sempre Geremia suggerisce due concreti auguri per ritrovarlo:
1. Il primo è quello di essere essenziali. Tra chi si gloria di una Chiesa sicura e ben distinta dagli altri e chi si lamenta di una Chiesa poco aperta e generosa, "essere ridotti alle strette" ci obbliga a rimettere in fila il valore delle cose, e a ridirci cosa vale di più, come Chiesa. "Chi si vuol gloriare si glori di questo: di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia" (9,23). E allora vale di più avere una Chiesa socialmente forte, che "pesa" culturalmente, anche a costo di accettare compromessi col Vangelo, o quella invisibile e quotidiana di chi ama come Gesù e contagia senza volerlo altre persone? Vale di più aver speso due ore ad ascoltare qualcuno che ci chiede attenzione o l'incontro solito di formazione in cui ci ridiciamo per l'ennesima volta le stesse cose? Vale di più che la liturgia sia celebrata in una certa lingua o in un'altra, o la nostra partecipazione sincera dove siamo disposti a lasciarci un po' cambiare da quel che si celebra?
2. Il secondo nasce proprio da lì, la disponibilità a lasciarci rinnovare. "Lo so, Signore, che l'uomo non è padrone della sua via, non è in potere di chi cammina il dirigere i suoi passi" (10,23). Si può accettare di navigare a vista, lasciando cadere le strade che ormai non portano da nessuna parte. Oggi non è tempo di "conservare e mantenere". Oggi ci è chiesto il coraggio di lasciarci cambiare, di lasciarci portare dove lo spirito ci chiama. Come Geremia che si sente troppo giovane e non all'altezza della vocazione. E Dio gli dice: "Non temere, perché io sono con te per proteggerti" (1,8) E allora l'augurio è di avere più coraggio nell'affidarci alla forza dello spirito e meno alle sicurezze, di ogni tipo, che fino qui ci hanno tenuto in piedi come Chiesa. Più coraggio nel credere che il mondo non è scappato alle mani di Dio, per quanto possa sembrare strano. E che, se quello che capita a volte scandalizza la nostra fede, c'è un significato che Dio ci chiede di capire proprio in queste cose.

venerdì 6 gennaio 2012

questi li chiamo "i miei amici"

Gente che mi piace.
Mi piace la gente che vibra,
che non devi continuamente sollecitare e alla quale non c'è bisogno di dire cosa fare perché sa quello che bisogna fare e lo fa.
Mi piace la gente che sa misurare le conseguenze delle proprie azioni,
la gente che non lascia le soluzioni al caso.
Mi piace la gente giusta e rigorosa,
sia con gli altri che con se stessa, purché non perda di vista che siamo umani e che possiamo sbagliare. Mi piace la gente che pensa
che il lavoro collettivo, fra amici, è più produttivo dei caotici sforzi individuali.
Mi piace la gente che conosce l'importanza dell'allegria.
Mi piace la gente sincera e franca, capace di opporsi con argomenti sereni e ragionevoli.
Mi piace la gente di buon senso,
quella che non manda giù tutto, quella che non si vergogna di riconoscere che non sa qualcosa o si è sbagliata.
Mi piace la gente che, nell'accettare i suoi errori, si sforza genuinamente di non ripeterli.
Mi piace la gente capace di criticarmi costruttivamente e a viso aperto:
questi li chiamo "i miei amici".
Mi piace la gente fedele e caparbia,
che non si scoraggia quando si tratta di perseguire traguardi e idee.
Mi piace la gente che lavora per dei risultati.
 Con gente come questa mi impegno a qualsiasi impresa, giacché per il solo fatto di averla al mio fianco mi considero ben ricompensato.
Mario Benedetti (14.9.1920 - 17.5.2009) - scrittore, poeta e saggista uruguaiano

giovedì 5 gennaio 2012

riconosce in qualcuno un’autorità capace di farlo crescere


Ecco un bellissimo esempio di dire la verità ed andare contro l'abitudine che offusca e adegua  l'intelletto alle  mode del tempo. 
“La verità – osserva Gianfranco Ravasi – è che noi tutti siamo avvolti da una sottile rete di comunicazioni che hanno lo scopo di ridisegnare la realtà, i valori, le scelte così da catturare e orientare anima e cuore delle persone verso sbocchi interessati e talora inconfessabili. Tenere alto il vessillo della consapevolezza, della critica, della coscienza contro le falsificazioni è, allora, necessario anche se sembra più facile accodarsi alla deriva dei luoghi comuni dominanti. Per questo, riflettere e giudicare, vagliare e meditare sono atti decisivi di libertà”.  L’essere superiore a qualcosa o a qualcuno, o peggio ancora il “sentirsi” superiore, è una affascinante prerogativa per chi è capace di amare soltanto se stesso e i propri interessi! Ciò che preoccupa di più è però il progetto culturale che ruota attorno alla superbia. Puoi far crescere i tuoi figli, per esempio, facendogli credere che tutto gli appartiene perché il mondo e i suoi abitanti sono lo sgabello dei loro piedi; tanta gente (soprattutto a lavoro) ama essere adulata e osannata come un imperatore. 

L’uomo “dovrebbe” imparare a disobbedire alla propria volontà, rinunciando alla solitudine del proprio egoismo nel quale spesso trova rifugio. Questa è la più antica e certamente la più efficace delle tentazioni che si possa rivolgere alla persona.
E’ interessante, a tal proposito, rileggere il dialogo fra Berlicche e Malacoda (due diavoletti impegnati ad ostacolare il disegno di Dio) tratto dal celebre racconto di C. Lewis: “Naturalmente, so benissimo che anche il Nemico [Dio] vuole distaccare gli uomini da se stessi, ma in modo diverso. Ricorda sempre che a Lui quei piccoli vermi piacciono veramente, e che pone un assurdo valore assoluto sulla distinzione di ciascuno di loro. Quando dice che devono perdere il proprio io, intende solamente dire che debbono abbandonare la volontà propria; una volta fatto ciò, in realtà dà loro indietro tutta la loro personalità, e si vanta (sinceramente, ho paura) che se saranno completamente suoi saranno più che mai se stessi. Quindi, mentre gode nel vederli sacrificare perfino le loro innocenti volontà a Lui, odia di vederli allontanare dalla loro natura per qualsiasi altra ragione. E noi invece dovremmo sempre incoraggiarli a farlo” (C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche).
Chi obbedisce non mortifica la propria identità, ma riconosce in qualcuno un’autorità capace di farlo crescere, se poi questo qualcuno è Dio anche il demonio preferisce ritirarsi.
S. Teresa d’Avila scriveva: 
“Se le anime si abbandonano alla santa obbedienza con sincerità e vi assoggettano l’intelletto… il demonio lascia d’assalire con le sue continue inquietitudini, sapendo egli per esperienza che ne uscirebbe più con perdita che con guadagno. Cessano del pari quei nostri inquieti movimenti che ci portano sempre a far la nostra volontà e a non assoggettar la ragione nelle cose di nostro gradimento, perché ci ricordiamo d’aver decisamente sottomessa la volontà a quella di Dio…” .http://cogitor.altervista.org/virgolettato/?p=1096#more-1096

mercoledì 4 gennaio 2012

il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro,

Che la nostra società si sia imbarbarita e noi con essa, è un fatto indiscutibile che ci ha portato ad avere atteggiamenti eticamente indifferenti.  Il salmo 49 ci dice che «l’uomo nel benessere non capisce, è come un animale...». La crisi attuale ci sta costringendo ad una presa di coscienza. Questo può risultare insufficiente se non vi è una una educazione del cuore.
Da tempo, per lo meno nel mondo occidentale, «sacrificio» non ha più l’accezione legata alla sua etimologia di impronta religiosa: «sacrum facere», «rendere sacro» un oggetto o una realtà spostandola dalla dimensione profana a quella appartenente al divino attraverso un rito o un insieme di gesti che arrivavano fino all’offerta «sacrificale», appunto - di una vittima per ingraziarsi gli dèi o placarne l’ira. Il «capro espiatorio» così finemente analizzato anche nella sua dimensione fondativa di una cultura, ha lasciato il posto a «sacrifici» meno cruenti ma più quotidiani, legati comunque alla faticosa ricerca di una vita «migliore». Così la mia generazione, cresciuta in un’epoca ancora di cristianità, è stata educata umanamente e cristianamente a «fare sacrifici»: privarci di alcune cose, rinunciare ad altre, accontentarci di quello che c’era... 
riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita «normale». Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate... 
se non ci sono principi condivisi, se non c’è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere. Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Enzo Bianchi in “La Stampa” dell'11 dicembre 2011

martedì 3 gennaio 2012

Ho racimolato pensieri. Ora c'è un oltre, il vostro oltre, l'oltre dei vostri pensieri.


Voglio andare oltre, verso l'altrove. incontro alla passione di Dio.

Vi confesso che di tanto in tanto mi ritrovo a invocare per me la passione del Dio custode e pastore, a invocare per me i suoi occhi e le sue mani. Vorrei avere occhi e mani, io che, a volte, oltrepasso ciò che sconta fragilità e debolezza. Vorrei avere i suoi occhi, le sue mani. Quelli di Gesù, il pastore bello, il custode bello, occhi e mani che accarezzavano, si incantavano, restituivano valore alla piccolezza, alla debolezza, alla fragilità. Delle persone e delle cose.
Non dovrei fare memoria di chi sconta fragilità e debolezza io che credo in un Dio che raccatta pezzi, i miei pezzi? Come mi è capitato di scrivere:
Perdo pezzi
e tu li raccogli
alle spalle, Signore,
tu Dio dell'orfano e della vedova,
tu Dio dei frammenti,
tu hai compassione
del non intero,
dei pezzi di pane avanzati,
tu che non vuoi
che si perda nessuno.
Perdo pezzi di voce e di occhi,
di memoria e di cuore.
Dietro
alle spalle tu ti chini
e raccogli
Ho racimolato pensieri. Ora c'è un oltre, il vostro oltre, l'oltre dei vostri pensieri.
Angelo Casati

lunedì 2 gennaio 2012

in fondo al cuore ho terrore a guardare il mio mondo


C
aro Gesù, sei già stato condannato una volta, e lo sei ancora. Hai già portato la croce una volta, e la porti ancora. Sei già morto una volta, e continui a morire. Sei risorto dai morti una volta, e continui a risorgere. Io ti guardo, e tu mi apri gli occhi ai tanti modi in cui la tua passione, morte e risurrezione si ripetono ogni giorno in mezzo a noi.
Ma in fondo al cuore ho terrore a guardare il mio mondo. Tu mi dici: «Non aver paura di guardare, toccare, sanare, confortare, consolare». Voglio ascoltare la tua voce, sapendo che, a mano a mano che entro più profondamente nella vita dei miei fratelli, piena di dolore ma anche di speranza, entro anche più profondamente nel tuo cuore.
Signore, nel profondo del mio ansioso cuore ho anche tanta paura di aprire gli occhi e di guardare il mondo delle mie sofferenze. In realtà, non sono sicuro di essere davvero amato e protetto, e così mantengo le mie distanze dalla vita piena di paura degli altri. Ma tu ripeti: «Non temere di mostrarmi il tuo cuore ferito; lascia che ti abbracci, ti guarisca, ti conforti e consoli… perché ti amo di un amore illimitato e incondizionato».
Ti ringrazio, Signore, delle tue parole. Bramo tanto che tu guarisca il mio cuore ferito, per uscire dal mio egoismo e raggiungere vicini e lontani.
So, Signore, che sei mite e umile di cuore e che ci inviti dicendo: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo».
E poiché la tua passione, morte e risurrezione continuano nella storia, dammi la speranza, il coraggio e la fiducia di lasciare che il tuo cuore unisca anche il mio cuore a quello dei tuoi fratelli che soffrono, sì da diventare per noi sorgente divina di vita nuova. Amen!
Henri J. M. Nouwen

domenica 1 gennaio 2012

Consegnami il tuo abisso – lo imbottirò di sonno.

di Wislawa Szymborska
 Sono un tranquillante.
 Agisco in casa,
 funziono in ufficio,
 affronto gli esami,
 mi presento all’udienza,
 incollo con cura le tazze rotte -

 devi solo prendermi,
 farmi sciogliere sotto la lingua,
 devi solo mandarmi giù
 con un sorso d’acqua.

 So come trattare l’infelicità,
 come sopportare una cattiva notizia,
 ridurre l’ingiustizia,
 rischiarare l’assenza di Dio,
 scegliere un bel cappellino da lutto.
 Che cosa aspetti
– fidati della pietà chimica.
 Sei un uomo (una donna) ancora giovane,
 dovresti sistemarti in qualche modo.

 Chi ha detto che la vita va vissuta con coraggio?
 Consegnami il tuo abisso
– lo imbottirò di sonno.
 Mi sarai grato (grata) per la caduta in piedi.
 Vendimi la tua anima.
 Un altro acquirente non capiterà.
 Un altro diavolo non c’è più.