Che la nostra società si sia imbarbarita e noi con essa, è un fatto indiscutibile che ci ha portato ad avere atteggiamenti eticamente indifferenti. Il salmo 49 ci dice che «l’uomo nel benessere non capisce, è come un animale...». La crisi attuale ci sta costringendo ad una presa di coscienza. Questo può risultare insufficiente se non vi è una una educazione del cuore.
Da tempo, per lo meno nel mondo occidentale, «sacrificio» non ha più l’accezione legata alla sua etimologia di impronta religiosa: «sacrum facere», «rendere sacro» un oggetto o una realtà spostandola dalla dimensione profana a quella appartenente al divino attraverso un rito o un insieme di gesti che arrivavano fino all’offerta «sacrificale», appunto - di una vittima per ingraziarsi gli dèi o placarne l’ira. Il «capro espiatorio» così finemente analizzato anche nella sua dimensione fondativa di una cultura, ha lasciato il posto a «sacrifici» meno cruenti ma più quotidiani, legati comunque alla faticosa ricerca di una vita «migliore». Così la mia generazione, cresciuta in un’epoca ancora di cristianità, è stata educata umanamente e cristianamente a «fare sacrifici»: privarci di alcune cose, rinunciare ad altre, accontentarci di quello che c’era...
riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita «normale». Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate...
se non ci sono principi condivisi, se non c’è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere. Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Enzo Bianchi in “La Stampa” dell'11 dicembre 2011
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