sabato 29 marzo 2014

22° giorno “egli ci ha percosso ed egli ci fascerà”. Così si esprime il profeta, parlando di una morte e di una risurrezione che Dio produce misteriosamente nella vita di coloro che gli appartengono.


 I testi odierni si soffermano su questo contrasto di due possibilità di esprimere il proprio senso religioso, mettendo in evidenza alcune verità che si colgono nei loro versetti chiave. Consideriamo innanzitutto il versetto chiave che apre il testo di Osea: “venite, ritorniamo al Signore: Egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà”. Nella esperienza religiosa autentica, che non è fatta di osservanze esteriori, ma di amore, c’è una maniera particolare di percepire l’opera di Dio che guida la vita dell’uomo in una pedagogia misteriosa, la quale si svolge talvolta nel ferire e talaltra nel guarire. Il profeta intende dire che la persona che si abbandona al disegno di Dio, sperimenta un cammino che a volte è tormentato dalle prove, a volte è fortificato dalla consolazione; e comunque tutto quello che avviene di lieto o di triste, è ricevuto come dalle mani di Dio. Perciò l’invito del profeta è di ritornare a Dio, perché è Lui stesso la sorgente della forza, così come è sempre Lui che talvolta permette le esperienze dolorose; in ogni caso, “egli ci ha percosso ed egli ci fascerà”. Così si esprime il profeta, parlando di una morte e di una risurrezione che Dio produce misteriosamente nella vita di coloro che gli appartengono. Nello stesso tempo, si afferma con assoluta certezza la vicinanza e il soccorso di Dio per tutti quelli che lo cercano: “affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura”. Qui il profeta sottolinea la necessità della conoscenza, aldilà e al di sopra di qualunque osservanza cultuale o precettistica, aldilà di qualunque normativa religiosa: “affrettiamoci a conoscere il Signore”. Questo termine biblico, “conoscere”, che allude non a un conoscere astratto e concettuale, ma a un conoscere per esperienza diretta e personale, ritornerà ancora una volta alla fine del brano, in contrasto con coloro che offrono a Dio sacrifici e olocausti ma non lo conoscono; conoscere Dio, è dunque la radice e la sorgente fondamentale di qualunque autentica esperienza religiosa.
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 28 marzo 2014

21° giorno la santità appare come un processo di maturazione graduale, in cui non si può transitare verso gli stadi superiori se si saltano quelli inferiori. In questo caso, la legge di Mosè è il gradino preliminare e necessario di ogni cammino di santità.


 La Parola odierna ruota intorno al tema del primato dell’amore di Dio, un primato che viene presentato, dal profeta Osea, sotto l’aspetto di un movimento di ritorno, o di conversione: “torna Israele al Signore tuo Dio”. Il primato di Dio viene sviluppato così nei termini di un pellegrinaggio interiore. L’amore di Dio non è una realtà ferma, né un fatto statico: l’amore di Dio mette in movimento la persona, quando questo amore sta al vertice di tutti i propri affetti.
Il vangelo di Marco è incentrato su una domanda relativa al primo comandamento, alla quale Gesù risponde con una citazione duplice, tratta in parte dal Deuteronomio e in parte dal Levitico, con cui la Legge di Mosè viene riconsegnata a Israele - e in un certo senso convalidata da Cristo - sebbene con la precisazione che la legge mosaica, pur convalidata dal Messia non è il punto di arrivo della santità, bensì soltanto un ambito di prossimità al Regno che viene, ovvero una tappa, per così dire, preliminare della santità, tappa necessaria ma non sufficiente. Gesù risponde infatti allo scriba che lo interroga sul primo dei comandamenti, citando insieme il Deuteronomio e il Levitico, e aggiungendo poi: “non sei lontano dal Regno di Dio”. Ci sembra che questa espressione del Maestro abbia una doppia valenza: da un lato, la legge di Mosè è convalidata da Cristo, e sulle sue labbra quelle stesse parole del Pentateuco acquistano un peso anche per il cammino del discepolato cristiano, perché attraverso di esse bisogna passare, se si vuole giungere fino al cuore del Regno di Dio, dove i due amori, di Dio e del prossimo, si unificano in un’unica realtà, rappresentata dal comandamento nuovo. Dall’altro lato, la santità appare come un processo di maturazione graduale, in cui non si può transitare verso gli stadi superiori se si saltano quelli inferiori. In questo caso, la legge di Mosè è il gradino preliminare e necessario di ogni cammino di santità. Ingannerebbe se stesso chi volesse inoltrarsi nelle profondità del discepolato cristiano senza avere maturato prima le esigenze etiche dei comandamenti mosaici.
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 27 marzo 2014

20° giorno “camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”. Quando si smarrisce questa visione delle cose, la volontà di Dio ci si presenta come una montagna insormontabile, come un ostacolo, come una strada chiusa dinanzi alla libertà dell’uomo.


 Le letture della liturgia odierna sviluppano il tema della fedeltà di Dio. Ciò non va inteso nel senso che Dio è fedele all’uomo, quanto piuttosto che Egli è fedele a Se Stesso; e avendo dato la sua Parola e la sua promessa di salvezza, la realizza in modo infallibile, indipendentemente da quella che può essere la risposta storica dell’uomo.
Il testo del profeta Geremia ci permette, attraverso alcuni versetti chiave, di cogliere il modo in cui la fedeltà di Dio viene presentata da questo profeta dell’esilio. Innanzitutto dobbiamo notare che l’appello del profeta, in linea con il tema del primato della grazia, non è quello di compiere particolari opere; infatti, il testo odierno si apre con le seguenti parole: “così dice il Signore: Questo comandai loro: Ascoltate la mia voce!”. Il comando di Dio, come si vede chiaramente, non consiste in primo luogo nell’esortazione a compiere una particolare opera; è, piuttosto, un’esortazione a compiere l’Opera delle opere, a compiere cioè quell’Opera dalla quale tutto prende vita: l’ascolto della voce di Dio che parla al suo popolo.
Va sottolineato, ancora, un altro versetto chiave: “camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”. Dall’ascolto e dall’accoglienza di questa Parola pronunciata da Dio, mediante la bocca dei suoi profeti, dipende la più autentica felicità dell’uomo. Tale Parola uscita dalla bocca di Dio, quando è guardata con occhi innocenti, si presenta come una indicazione di percorso, tesa a evitare agli uomini le esperienze tragiche del peccato e dell’autodistruzione. Dall’altro lato, lo spirito del male ne stravolge il senso, mutando il carattere protettivo della legge di Dio in un carattere restrittivo. Egli presenta infatti, alla mente ingenua dell’uomo che non prega, la legge di Dio come un insieme di restrizioni, di obbligazioni e di strade chiuse, come se Dio volesse impedire all’uomo una maggiore pienezza di vita, chiudendo o restringendo i suoi movimenti e mortificando la sua libertà. Qui viene affermato che la giusta interpretazione della legge di Dio, non è la mortificazione dell’uomo, bensì la sua maggiore felicità, e anche quei “no” che il vangelo ci spinge a pronunciare, sono orientati alla custodia della nostra maggiore felicità, anche se sono pronunciati contro ciò che ci gratificherebbe, e non sono in nessun caso arbitrarie proibizioni di una divinità capricciosa: “camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”. Quando si smarrisce questa visione delle cose, la volontà di Dio ci si presenta come una montagna insormontabile, come un ostacolo, come una strada chiusa dinanzi alla libertà dell’uomo. Così la falsificazione del maligno ingigantisce, in modo sproporzionato e negativo, tutti quei gesti che ci avvicinerebbero a Dio e ci introdurrebbero nell’orizzonte di una felicità più grande.  
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 26 marzo 2014

Nel cuore dell'Eucaristia, perciò, ogni parola, gesto, progetto pastorale delle nostre comunità dovrebbe essere verificato alla luce della domanda essenziale: come e in quale misura questa parola, gesto, progetto, rinviano al Signore atteso?


due sono i tratti caratteristici di una Chiesa che vive l'Eucaristia vigilando nell'attesa.
a. Il primo è di essere una Chiesa sempre più relativa a Gesù, rivolta unicamente a lui.
Suggestiva, in proposito, l'immagine astronomica cui si riferivano antichi autori cristiani: il rapporto tra Cristo e la Chiesa è analogo a quello tra il sole e la luna. La luna riceve tutta la sua luce dal sole, la Chiesa ha da trasmettere solo la luce di Cristo. E' Cristo la salvezza di tutti gli uomini e non a caso, nella celebrazione eucaristica, alla proclamazione "Mistero della fede" noi rispondiamo annunciando Cristo morto, risorto e atteso. La Chiesa è totalmente relativa a Gesù, subalterna a lui. Nel cuore dell'Eucaristia, perciò, ogni parola, gesto, progetto pastorale delle nostre comunità dovrebbe essere verificato alla luce della domanda essenziale: come e in quale misura questa parola, gesto, progetto, rinviano al Signore atteso?

19° giorno La Parola di Dio consegnata alla Chiesa, non è data perché essa semplicemente ne prenda atto, ma perché la Chiesa ne viva. La rivelazione della volontà di Dio, che si esprime nella forma della Parola, ha un legame essenziale con la vita, e qualora tale legame con la vita venisse sciolto, anche la Parola di Dio risulterebbe svuotata della sua forza


 L’insegnamento odierno è incentrato intorno al tema della Legge, cioè della rivelazione della volontà di Dio nel codice dell’Antica Alleanza; un codice che è stato perfezionato da Cristo, ma non abolito. Il compimento della legge rivelata nell’AT e della volontà di Dio, così come si svela nei profeti dell’AT e nella legge mosaica, conserva un fondamentale valore per i credenti anche nel tempo della Chiesa, dove però tutto deve essere riletto nella luce di Cristo, e soprattutto a partire dal dono di Pentecoste. Tutto ciò che è antico rimane valido nelle sue esigenze fondamentali, ma tutto deve essere riletto e riconsegnato al cuore della Chiesa, attraverso l’insegnamento nuovo di Cristo.
La parola che Cristo pronuncia, dicendo: “Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure uno iota o un segno senza che tutto sia compiuto”, deve essere posta accanto ad un’altra parola dello stesso Cristo, quando dice: “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Ed è appunto in questa prospettiva che bisogna comprendere questo enunciato di Matteo: “finché non siano passati il cielo e la terra”; la legge di Mosè dunque non passerà, ovvero rimane valida fino a un termine di tempo ben determinato; essa passerà col passare di questa creazione, mantenendo però la sua validità finché esisteranno questo cielo e questa terra. Fino a quel momento, le esigenze fondamentali rivelate a Mosè, faranno parte integrante di ogni cammino dell’uomo verso Dio. Ma quando questo cielo e questa terra saranno passati, passerà con loro anche la legge di Mosè; non la parola di Cristo, che rimarrà anche dopo in una illimitata validità: “i cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. La grandezza dei figli di Dio, nel regno dei cieli, si misurerà sul grado di fedeltà alle esigenze della Parola.
Ma accanto al testo di Matteo viene posto dai liturgisti il cap. 4 del libro del Deuteronomio, che rappresenta il cuore della legge mosaica e su cui ci fermiamo qualche istante, per metterne in evidenza i versetti chiave.
Un primo versetto chiave, viene posto in evidenza dalla ripetizione del motivo per cui a Israele viene data una legge rivelata: “Mosè parlò al popolo e disse: ascolta Israele le leggi e le norme che oggi io vi insegno, perché le mettiate in pratica”. E poi ancora, più avanti: “Vedete, io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica”. Per due volte consecutive viene dunque ripetuto lo stesso concetto. La Parola di Dio consegnata alla Chiesa, non è data perché essa semplicemente ne prenda atto, ma perché la Chiesa ne viva. La rivelazione della volontà di Dio, che si esprime nella forma della Parola, ha un legame essenziale con la vita, e qualora tale legame con la vita venisse sciolto, anche la Parola di Dio risulterebbe svuotata della sua forza: “Ascolta Israele le leggi e le norme che oggi io vi insegno, perché le mettiate in pratica. Non si tratta di prenderne atto, o semplicemente di esserne informati: su questa Parola deve fondarsi interamente la vita della Chiesa. La Parola ha infatti l’obiettivo fondamentale di plasmare interamente la vita dell’uomo, secondo quello che dice. E proprio in questo si manifesta la sua efficacia. Qui dobbiamo anche osservare il seguito dello stesso versetto, dove si dice: “perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi”. Quando questa Parola, da semplice e pura informazione, si muta in una forza che modella la vita, allora la persona entra in possesso della “Terra promessa”. Tutte le promesse di Dio si realizzano, quando la sua Parola penetra nell’intimo della nostra vita e viene accolta nella fede.  
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 25 marzo 2014

18° giorno La richiesta di perdono, termine di approdo dell’intera preghiera, si conclude con un’immagine di riconciliazione, non soltanto compiuta con Dio, ma anche col prossimo, all’interno della comunità ebraica, dove si prevede una ripresa delle attività del culto, e in definitiva il ripristino di un cammino comune


 La Parola di Dio di questa giornata, è interamente dedicata al tema della riconciliazione, un tema fondamentale nel tempo forte della Quaresima, in preparazione alla nostra rinascita nella risurrezione di Cristo.
Il tema della riconciliazione viene affrontato nelle letture odierne, innanzitutto, nella linea verticale, ossia come una riconciliazione con Dio, che rappresenta la sorgente necessaria per la riconciliazione in linea orizzontale con il prossimo. Invano tenterebbero di ricucire le proprie amicizie e relazioni con il prossimo coloro che non si siano posti davanti a Dio, nella posizione della riconciliazione con Lui. Questa verità la vediamo sottolineata in entrambe le letture.
La liturgia di oggi, data la centralità del tema della riconciliazione, non a caso si apre con il capitolo terzo del libro di Daniele, dove viene presentata, attraverso le parole di Azaria, una preghiera penitenziale rivolta a Dio, perché Egli si degni di perdonare il peccato del popolo. La richiesta di perdono, termine di approdo dell’intera preghiera, si conclude con un’immagine di riconciliazione, non soltanto compiuta con Dio, ma anche col prossimo, all’interno della comunità ebraica, dove si prevede una ripresa delle attività del culto, e in definitiva il ripristino di un cammino comune. Infatti, dopo avere detto: “Non ci abbandonare fino in fondo Signore! Non ritirare da noi la tua misericordia!”, il testo di Daniele si conclude, dicendo: “Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto”. Questo plurale utilizzato dall’autore sacro: ti seguiamo, ti temiamo, cerchiamo il tuo volto è estremamente significativo e indica il risanamento del noi della comunità cristiana come frutto del risanamento della relazione con Dio, attraverso il perdono del peccato personale e comunitario.
Inoltre, il testo afferma pure che una tale preghiera di richiesta di perdono rivolta a Dio, ricostruisce i rapporti umani in una maniera infallibile; il versetto chiave collocato quasi alla fine della prima lettura, ci riporta la preghiera di Azaria in questi termini: “Non c’è delusione per coloro che confidano in te”. Il che significa, che non c’è riconciliazione umana senza conversione, non c’è risanamento dei rapporti interumani, senza il perdono dei peccati ricevuto da Dio; e non c’è parimenti perdono ricevuto da Dio senza la preghiera e senza l’offerta, a nostra volta, di quello stesso perdono, ricevuto da Dio. 
Don Vincenzo Cuffaro 

lunedì 24 marzo 2014

17 giorno Così Dio si nasconde, per darci la possibilità di un atto di fede libero; se ci manifestasse con chiarezza la sua gloria, non sarebbe più possibile la fede, e noi cadremmo in ginocchio sotto il peso della sua gloria.


Il primo versetto chiave che dobbiamo mettere a fuoco, riguarda l’atteggiamento di Naaman nei confronti del profeta e la sua delusione quando Eliseo gli dice: “Va’, bagnati sette volte nel Giordano. La tua carne tornerà sana e tu sarai guarito. Naaman si sdegnò e se ne andò protestando”. Dal punto di vista di Naaman, l’azione di Dio dovrebbe essere caratterizzata da grandi manifestazioni di potenza; egli infatti è un uomo d’armi e ragiona nella linea del potere. Gli sembra che anche Dio debba fare come i potenti della terra, ostentando l’apparato della sua forza; invece, il profeta Eliseo gli indica una guarigione senza grandi manifestazioni istrioniche, senza segni e portenti che colpiscano la sensibilità degli spettatori. L’azione di Dio, che raggiunge l’uomo e lo guarisce nell’intimo, è un’azione umile e potente nello stesso tempo; non è mai portata avanti con manifestazioni straordinarie, che colpiscono e che fanno impressione: il Cristo del vangelo non fa mai nulla per impressionare. Non lo fa neppure quando ciò lo salverebbe da cocenti umiliazioni e dallo scherno degli sfaccendati. In generale, i profeti del Signore non sono degli illusionisti, e non si comportano mai come gli attori sulla scena; la potenza di Dio si manifesta certamente agli uomini, ma agisce con un pudore custodito dall’umiltà e dal nascondimento della sua opera. Naaman poteva rischiare, se fosse rimasto fermo al fascino della potenza, di non incontrare Dio nell’esperienza della guarigione. Se si fosse intestardito nella sua idea di un Dio che si impone con la sua potenza, o nella sua aspettativa di vedere il servo di Dio manifestare il carattere straordinario dei suoi carismi, forse se ne sarebbe tornato a casa lebbroso com’era venuto; del resto, la presentazione di questo personaggio, ci permette di comprendere la sua mentalità, come abbiamo già brevemente osservato: egli è il capo dell’esercito del re di Aram, un personaggio autorevole presso il suo signore, un uomo prode che capisce solo il linguaggio del potere. Per questo rimane disorientato dinanzi all’umile ingiunzione del profeta. Andando da Eliseo, egli rimane deluso quando si accorge che il profeta non vuole fare nessun prodigio davanti ai suoi occhi, ma gli dice semplicemente: “Và, bagnati sette volte nel Giordano. La tua carne tornerà sana e tu sarai guarito”.  Questo primo versetto chiave ci dà la misura e lo stile dell’azione di Dio, che passa nella nostra vita con umile potenza, volendo essere accolto liberamente, piuttosto che sotto la costrizione dell’evidenza della sua divina maestà. Così Dio si nasconde, per darci la possibilità di un atto di fede libero; se ci manifestasse con chiarezza la sua gloria, non sarebbe più possibile la fede, e noi cadremmo in ginocchio sotto il peso della sua gloria. Ma non sarebbe un atto libero. In fondo, anche un delinquente può agire da bravo cittadino, sotto la costrizione del potere giudiziario o per la paura della punizione.
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 23 marzo 2014

In diversi contesti si coglie questa corrispondenza: non accade mai che il popolo si ribelli a Dio e ubbidisca a Mosè. La ribellione è sempre portata avanti inseparabilmente sui due versanti divino e umano.


 Il libro dell’Esodo descrive un momento di prova attraversato da Israele nel deserto, all’uscita dall’Egitto. Il popolo eletto, dopo avere sperimentato l’intervento salvifico del Signore contro il faraone e il dono della manna, in un momento di dure privazioni, 
giunge stranamente alla mormorazione contro Dio, come se non avesse mai sperimentato il suo soccorso. La prima difficoltà nel cammino nel deserto è già sufficiente a creare una crisi di fede, portando Israele alla domanda: 
Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (v. 7). Questa crisi di fede è particolarmente significativa, se si trasferisce la situazione narrata dall’Esodo nella concretezza della vita cristiana, dove la fede teologale non deve consistere nell’adesione data a Dio in seguito a una grazia ricevuta. L’autentica fede descritta dai due Testamenti è un atteggiamento di adesione a Dio in quanto Dio, non in base a qualsivoglia dimostrazione. Se il cammino di fede dovesse nascere dall’esperienza di un dono ricevuto, allora accadrebbe come ad Israele nel deserto: alla prima difficoltà nascerebbe il dubbio e l’adesione personale al Signore sarebbe radicalmente indebolita. La fede autenticamente teologale è piuttosto un’adesione oscura all’agire sapiente di Dio. Essa nelle narrazioni evangeliche avrà delle straordinarie icone. Possiamo ricordare la Cananea che, davanti al rifiuto di Gesù, continua a credere e ad attendere fiduciosamente un suo intervento liberatore, anche quando tutto sembrerebbe andare in senso contrario (cfr. Mt 15,21-28; Mc 7,24-30). Se Cristo non le avesse mostrato la sua indifferenza, se non le avesse dato la sensazione di essere respinta, essa non avrebbe avuto l’occasione di superare se stessa e di compiere un atto di fede veramente eroico, che merita l’elogio di Cristo. Il vertice della fede è, infatti, toccato da questa donna quando, senza poter appoggiare la propria fede su alcuna dimostrazione, anzi avendo come unico dato di fatto l’indifferenza del Messia verso i suoi bisogni, continua tuttavia a credere. Oseremmo dire che questa donna è il personaggio neotestamentario più simile al Cristo crocifisso, che si abbandona fiduciosamente nelle mani di Colui che apparentemente lo ha abbandonato al suo destino: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Forse non è possibile a una creatura umana glorificare Dio oltre questo punto.
Va notato pure che, nel racconto dell’Esodo, il dubbio di fede nei confronti di Dio non è separabile dalla sfiducia nei confronti dell’uomo di Dio. In diversi contesti si coglie questa corrispondenza: non accade mai che il popolo si ribelli a Dio e ubbidisca a Mosè. La ribellione è sempre portata avanti inseparabilmente sui due versanti divino e umano. Israele dubita dell’amore divino e simultaneamente getta ombre di sospetto anche sull’autorità di Mosè, rivolgendogli questa irrispettosa domanda: “Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (v. 3). Tale interrogativo esprime un dubbio radicale nei confronti del ministero Mosè, ma rivela anche una ribellione più profonda, che implica la negazione del disegno salvifico di Dio.
Il Signore risolve questa situazione drammatica, in cui Mosè rischia di essere lapidato, attraverso un intervento carismatico, ingiungendo al suo servo di colpire una roccia, da cui uscirà dell’acqua che disseterà Israele (cfr. vv. 5-6). Non si tratta, quindi, di guidare Mosè verso una sorgente; Dio fa uscire l’acqua dalla roccia, dimostrando a tutto il popolo che, in qualunque circostanza di crisi, Egli possiede la soluzione e può offrirla in un istante, quando vuole. Se le situazioni di crisi permangono, ciò è segno che esse rispondono a un preciso progetto. Infatti, la privazione dell’acqua, nel deserto, è l’occasione permessa da Dio, per portare alla luce la fede ancora immatura del popolo, perché esso stesso ne prenda coscienza. Il prodigio compiuto attraverso il colpo del bastone di Mosè, muterà e risolverà improvvisamente la situazione drammatica. Il bastone è il simbolo del comando e dell’autorità della guida pastorale accreditata da Dio. Con esso Mosè ottiene l’acqua a tutto il popolo in una maniera innaturale, dimostrando così, in modo non verbale, la falsità di coloro che dubitano della sua autorità. L’Apostolo Paolo identificherà questa roccia con il Cristo crocifisso (xcfr. 1 Cor 10,4), precisamente con il suo Corpo, le cui piaghe sono le sorgenti della grazia che disseta il popolo cristiano. Il luogo dove si verifica questo scontro, e la sua soluzione miracolosa, viene chiamato con due termini che derivano dall’ebraico: “Massa e Meriba” (v. 7), che rispettivamente si possono tradurre con “tentazione e conflitto”.  
Don Vincenzo Cuffaro