Il libro dell’Esodo descrive un momento di prova attraversato da
Israele nel deserto, all’uscita dall’Egitto. Il popolo eletto,
dopo avere sperimentato l’intervento salvifico del Signore contro
il faraone e il dono della manna, in un momento di dure privazioni,
giunge stranamente alla mormorazione contro Dio, come se non avesse
mai sperimentato il suo soccorso. La prima difficoltà nel cammino
nel deserto è già sufficiente a creare una crisi di fede, portando
Israele alla domanda:
“Il
Signore è in mezzo a noi sì o no?” (v. 7). Questa crisi di
fede è particolarmente significativa, se si trasferisce la
situazione narrata dall’Esodo nella concretezza della vita
cristiana, dove la fede teologale non deve consistere nell’adesione
data a Dio in seguito a una grazia ricevuta. L’autentica fede
descritta dai due Testamenti è un atteggiamento di adesione a Dio in
quanto Dio, non in base a qualsivoglia dimostrazione. Se il cammino
di fede dovesse nascere dall’esperienza di un dono ricevuto, allora
accadrebbe come ad Israele nel deserto: alla prima difficoltà
nascerebbe il dubbio e l’adesione personale al Signore sarebbe
radicalmente indebolita. La fede autenticamente teologale è
piuttosto un’adesione oscura all’agire sapiente di Dio. Essa
nelle narrazioni evangeliche avrà delle straordinarie icone.
Possiamo ricordare la Cananea che, davanti al rifiuto di Gesù,
continua a credere e ad attendere fiduciosamente un suo intervento
liberatore, anche quando tutto sembrerebbe andare in senso contrario
(cfr. Mt 15,21-28; Mc 7,24-30). Se Cristo non le avesse mostrato la
sua indifferenza, se non le avesse dato la sensazione di essere
respinta, essa non avrebbe avuto l’occasione di superare se stessa
e di compiere un atto di fede veramente eroico, che merita l’elogio
di Cristo. Il vertice della fede è, infatti, toccato da questa donna
quando, senza poter appoggiare la propria fede su alcuna
dimostrazione, anzi avendo come unico dato di fatto l’indifferenza
del Messia verso i suoi bisogni, continua tuttavia a credere.
Oseremmo dire che questa donna è il personaggio neotestamentario più
simile al Cristo crocifisso, che si abbandona fiduciosamente nelle
mani di Colui che apparentemente lo ha abbandonato al suo destino:
“Padre, nelle tue mani consegno
il mio spirito” (Lc 23,46). Forse non è possibile a una
creatura umana glorificare Dio oltre questo punto.
Va notato pure che, nel racconto dell’Esodo, il dubbio di fede nei
confronti di Dio non è separabile dalla sfiducia nei confronti
dell’uomo di Dio. In diversi contesti si coglie questa
corrispondenza: non accade mai che il popolo si ribelli a Dio e
ubbidisca a Mosè. La ribellione è sempre portata avanti
inseparabilmente sui due versanti divino e umano. Israele dubita
dell’amore divino e simultaneamente getta ombre di sospetto anche
sull’autorità di Mosè, rivolgendogli questa irrispettosa domanda:
“Perché ci hai fatto salire
dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro
bestiame?” (v. 3). Tale interrogativo esprime un dubbio
radicale nei confronti del ministero Mosè, ma rivela anche una
ribellione più profonda, che implica la negazione del disegno
salvifico di Dio.
Il Signore risolve questa situazione drammatica, in cui Mosè rischia
di essere lapidato, attraverso un intervento carismatico, ingiungendo
al suo servo di colpire una roccia, da cui uscirà dell’acqua che
disseterà Israele (cfr. vv. 5-6). Non si tratta, quindi, di guidare
Mosè verso una sorgente; Dio fa uscire l’acqua dalla roccia,
dimostrando a tutto il popolo che, in qualunque circostanza di crisi,
Egli possiede la soluzione e può offrirla in un istante, quando
vuole. Se le situazioni di crisi permangono, ciò è segno che esse
rispondono a un preciso progetto. Infatti, la privazione dell’acqua,
nel deserto, è l’occasione permessa da Dio, per portare alla luce
la fede ancora immatura del popolo, perché esso stesso ne prenda
coscienza. Il prodigio compiuto attraverso il colpo del bastone di
Mosè, muterà e risolverà improvvisamente la situazione drammatica.
Il bastone è il simbolo del comando e dell’autorità della guida
pastorale accreditata da Dio. Con esso Mosè ottiene l’acqua a
tutto il popolo in una maniera innaturale, dimostrando così, in modo
non verbale, la falsità di coloro che dubitano della sua autorità.
L’Apostolo Paolo identificherà questa roccia con il Cristo
crocifisso (xcfr. 1 Cor 10,4), precisamente con il suo Corpo, le cui
piaghe sono le sorgenti della grazia che disseta il popolo cristiano.
Il luogo dove si verifica questo scontro, e la sua soluzione
miracolosa, viene chiamato con due termini che derivano dall’ebraico:
“Massa e Meriba” (v.
7), che rispettivamente si possono tradurre con “tentazione e
conflitto”.
Don Vincenzo Cuffaro
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