ci domandiamo come sia possibile ritornare nel seno della propria madre.
E una quantità di obiezioni, di sospetti ci assalgono in nome di quella fiducia
che si ha in se stessi e che ogni uomo rivendica come essenziale alla propria personalità.
Non è questo un atteggiamento da deboli,
un complesso di inferiorità,
un invito ad una spontaneità facile
ma un po’ stupida che dispensa dall’interrogarsi, dal riflettere
e che svuota l’individuo di ogni responsabilità?
Tutto questo è fuori luogo.
Ciò che Gesú vuol farci comprendere è tutt’altra cosa.
Ciò che Egli denuncia in noi non è la nostra personalità,
è la nostra sufficienza,
la nostra tendenza a farci il centro del mondo,
a vedere tutto, a giudicare tutto e spesso a condannare tutto attraverso i nostri punti di vista.
No, non siamo il centro del mondo.
Questo è già evidente sul piano ordinario della vita sociale,
ma lo è ancora di più se vogliamo situarci in verità davanti a Dio.
Ed è qui che Gesú ci insegna qualcosa di veramente nuovo,
di fronte a questa situazione in cui noi potremmo sentirci superati, schiacciati, oppressi.
Gesù ci insegna che non abbiamo nulla da temere,
che al contrario dobbiamo riprendere fiducia,
perché in realtà siamo Figli di un Padre che non ignora niente di noi e che ci ama,
sul quale possiamo contare dovunque siamo e chiunque siamo.
Gesù va così lontano che sembra dirci che non dobbiamo più preoccuparci di nulla,
perché se Dio si occupa dei gigli del campo e degli uccelli del cielo,
a maggior ragione penserà a noi.
Quello che vuol dirci non è certamente di prendere le cose alla leggera e di lasciarci andare,
ma neppure di lasciarci abbattere,
come se Egli non esistesse, di dimenticare che Egli è nostro Padre
e che conosce tutto ciò che ci fa soffrire
e di cui abbiamo bisogno.
È questa una realtà che ci dovrebbe rasserenare,
aiutarci a guardare con più semplicità a noi stessi,
ad amarci come Dio ci ama,
a vivere nella pace,
nella fiducia e nella gioia
perché siamo in buone mani.
È questo che ci apre le porte del Regno dei Cieli;
ed è questo pure che si trova in sostanza nella preghiera dei poveri,
che non sono capaci di una preghiera geniale,
ma che sanno di non essere più soli perché hanno un Padre.
(René Voillaume, Lettera n. 27, Marzo 1978).