sabato 27 luglio 2013
finalmente, ci accorgiamo di non essere soli...
Ciascuno di noi ha a disposizione tanti mondi paralleli
nell’arco della propria esistenza;
si tratta, solo di prendere una decisione apparentemente difficile,
ma che in realtà non lo è affatto.
Quando ci liberiamo della paura e delle opinioni altrui;
quando realizziamo che il nostro passaggio su questo pianeta,
con tutti i suoi alti e bassi, è comunque un’avventura piena di gioia;
quando comprendiamo che la vita non ci deve nulla,
e va intesa come un dono…
allora, finalmente, ci accorgiamo di non essere soli... Mai !!
(Sergio Bambaren)
venerdì 26 luglio 2013
l’ascesi tende a liberare l’uomo dalla philautia, cioè dall’amore di sé, dall’egocentrismo, e a trasformare un individuo in persona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
Ascesi
Di più, essendo a servizio della rivelazione cristiana che attesta che
la libertà autentica dell’uomo si manifesta nel suo divenire capace di donazione di sé,
per amore di Dio e del prossimo,
aprendosi al dono preveniente di Dio,
l’ascesi tende a liberare l’uomo dalla philautia,
cioè dall’amore di sé, dall’egocentrismo,
e a trasformare un individuo in persona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore.
Ancora una volta, la tradizione cristiana antica mostra capacità di auto critica nelle parole di un padre del deserto che constata:
«Molti hanno prostrato il loro corpo senza alcun discernimento,
e se ne sono andati senza trovare alcunché.
La nostra bocca esala cattivo odore a forza di digiunare,
noi sappiamo le Scritture a memoria,
recitiamo tutti i Salmi,
ma non abbiamo ciò che Dio cerca: l’amore e l’umiltà».
Solo un’ascesi intelligente e condotta con discernimento risulta gradita a Dio.
E risulta umanizzante e non disumanizzante.
Risulta capace di aiutare l’uomo nel compito di fare della propria vita un capolavoro,
un’opera d’arte.
Forse non è casuale che askein sia utilizzato, nella letteratura greca antica,
anche per indicare il lavoro artistico.
Questo dunque il fine dell’ascesi:
porre la vita del credente sotto il segno della bellezza,
che nel cristianesimo è un altro nome della santità.
giovedì 25 luglio 2013
Essa non mira al perfezionamento del proprio «io», ma all’educazione dell’«io» alla libertà e alla relazione con l’altro: il suo fine è l’amore, la carità.
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
Ascesi
Certo, deve essere chiaro che l’ascesi cristiana resta sempre
un mezzo ordinato all’unico fine da conseguire:
la carità, l’amore per il Signore e per il prossimo.
Non è possibile senza la continua esperienza di cadute, di fallimenti, di «peccati»,
che fan sì che l’ascesi cristiana rettamente intesa
sia sempre assolutamente indissociabile dalla grazia:
«Che uno possa vincere la sua natura non è tra le cose possibili» (Giovanni Climaco).
La storia cristiana ha conosciuto molte deviazioni ed eccessi dell’ascesi,
ma ha anche sempre saputo condannare tali eccessi
che riducevano la vita cristiana a un insieme di imprese eroiche.
E ha saputo farlo anche con senso dello humour:
«Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi.
Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne,
perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro Presbitero).
Essa non mira al perfezionamento del proprio «io»,
ma all’educazione dell’«io» alla libertà e alla relazione con l’altro: il suo fine è l’amore, la carità. L’ascesi prende sul serio il fatto che non si possono servire due padroni
e che l’alternativa all’obbedienza a Dio è l’asservimento agli idoli.
Anche l’interiorità va educata,
anche l’amore va sempre affinato e purificato,
anche le relazioni vanno rese sempre più intelligenti e rispettose:
questo dice l’ascesi!
In particolare, «il sudore e la fatica» (Cabasilas) dello sforzo ascetico sono l’apertura al dono di Dio, il disporre tutta la propria persona a ricevere il dono di grazia;
possiamo riassumere la dimensione cristiana dell’ascesi in questa affermazione:
la salvezza viene da Dio in Gesù Cristo.
L’ascesi non è altro che l’accettazione a essere se stessi soltanto per grazia di quell’Altro che ha nome Dio,
è il dire di sì a ricevere la propria identità nella relazione con questo Altro.
In particolare, l’ascesi corporale,
che ha rivestito spesso connotati meramente negativi e di disprezzo del corpo,
soprattutto a seguito dell’assunzione di un modello antropologico di tipo dualista,
afferma come essenziale per la conoscenza teologica il coinvolgimento dell’intero corpo!
Senza questa dimensione il cristianesimo si riduce a esercizio intellettuale,
a gnosi, oppure alla sola dimensione morale.
Niente può renderti imitatore di Cristo, come il prenderti cura del prossimo. Anche se tu digiunassi e dormissi per terra…, ma poi non ti prendi cura del prossimo, tu non hai fatto niente di grande e resti lontano dal Modello. - San Giovanni Crisostomo -
mercoledì 24 luglio 2013
In realtà «ascesi», termine che deriva dal greco askein, «esercitare», «praticare», indica anzitutto l’applicazione metodica, l’esercizio ripetuto, lo sforzo per acquisire un’abilità e una competenza specifica
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
Ascesi
«Non si nasce cristiani, lo si diventa» (Tertulliano).
Questo «divenire» è lo spazio in cui si inserisce l’ascesi cristiana.
Ascesi è oggi parola sospetta, se non del tutto assurda e incomprensibile per molti uomini
e, ciò che più è significativo, anche per un gran numero di cristiani.
In realtà «ascesi», termine che deriva dal greco askein, «esercitare», «praticare», indica anzitutto l’applicazione metodica, l’esercizio ripetuto, lo sforzo per acquisire un’abilità e una competenza specifica:
l’atleta, l’artista, il soldato devono «allenarsi», provare e riprovare movimenti e gesti per poter pervenire a prestazioni elevate.
L’ascesi è dunque anzitutto una necessità umana:
la stessa crescita dell’uomo,
la sua umanizzazione,
esige un corrispondere interiore alla crescita anagrafica.
Esige un dire dei «no» per poter dire dei «sì»:
«Quando ero bambino, parlavo e pensavo da bambino ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato»scrive san Paolo (1Corinti 13,11).
La vita cristiana poi, che è rinascita a una vita nuova, a una vita «in Cristo», che è adattamento della propria vita alla vita di Dio,
richiede l’assunzione di capacità «non naturali» come la preghiera e l’amore del nemico:
e questo non è possibile senza un’applicazione costante, un esercizio, uno sforzo incessante. Purtroppo il mito della spontaneità,
che domina ancora in questa fase di adolescenze interminabili
e che porta a contrapporre esercizio e autenticità,
si rivela un ostacolo determinante
alla maturazione umana delle persone e alla comprensione dell’essenzialità
dell’ascesi per una crescita spirituale.
martedì 23 luglio 2013
La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità.
LA VITA SPIRITUALE
Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale.
Anzitutto la crisi dell’immagine che abbiamo di noi stessi:
questo è il doloroso,
ma necessario inizio della conversione,
il momento in cui si frantuma l’«io» non reale
ma ideale che ci siamo forgiati e
che volevamo perseguire come doverosa realizzazione di noi stessi.
Senza questa «crisi» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito.
Se non c’è questa morte a se stessi
non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cir. Romani 6,4).
Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà,
cioè l’adesione alla realtà,
perché è nella storia e nel quotidiano,
con gli altri e non senza di essi,
che avviene la nostra conoscenza di Dio e
cresce la nostra relazione con Dio.
È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbedienza a Dio e
fedeltà alla terra in una vita di fede, di speranza e di carità.
È a quel punto che noi possiamo dire
il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti
che caratterizzano la nostra creaturalità.
Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede
che è sequela del Cristo per giungere all’esperienza dell’inabitazione del Cristo in noi.
Scrive Paolo ai cristiani di Corinto:
«Esaminate voi stessi se siete nella fede:
riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinti 13,5).
La vita spirituale si svolge nel «cuore»,
nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità.
È lì che va riconosciuta l’autenticità del nostro essere cristiani.
La vita cristiana infatti non è un «andare oltre»,
sempre alla ricerca di novità,
ma un «andare in profondità»,
uno scendere nel cuore per scoprire
che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo!
Si tratta infatti di «adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5).
Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione,
cioè l’accoglienza in noi della vita divina trinitaria:
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23).
Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina,
è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione».
«Dio, infatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio»,
scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore
sintetizza in modo sublime:
«La divinizzazione si realizza per innesto in noi della carità divina,
fino al perdono dei nemici come Cristo in croce.
Quand’è che tu diventi Dio?
Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire:
“Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”».
A questo ci trascina la vita spirituale,
cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore,
mossa e orientata dallo Spirito santificatore,
innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi.
Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
lunedì 22 luglio 2013
lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza
LA VITA SPIRITUALE
L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti:
è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene.
Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione:
Egli è già là!
E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo:
«nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6).
Cioè l’esperienza spirituale è anche esperienza filiale.
Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci previene e
orienta il nostro cammino verso la santificazione,
cammino che è sequela del Figlio:
l’esperienza spirituale diviene così null’altro che
la risposta di fede, speranza e carità al Dio Padre
che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva:
«Tu sei mio figlio!».
Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo:
questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo!
Come diceva Ireneo di Lione,
lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui
Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza,
in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
domenica 21 luglio 2013
Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.
Oggi diamo la parola al Priore di Bose e cade a proposito, quasi un commento alle letture di questa 16a domenica: le querce di Mamre, Marta e Maria.
LA VITA SPIRITUALE
Non si dà vita cristiana senza vita spirituale!
Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli
è quello di introdurli a un’esperienza di Dio,
a una vita in relazione con Dio.
È essenziale ribadire oggi queste verità elementari,
perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale,
dominata dall’ansia pastorale,
ha assunto l’idea che
l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo
piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio
vissuta in un contesto comunitario,
radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture,
plasmata dall’eucaristia e
articolata in una vita di fede, di speranza e di carità.
Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale
è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio,
ci immette cioè nella vita spirituale,
che è la vita guidata dallo Spirito santo.
Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio:
non gli può bastare avere idee giuste su Dio.
E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7:
«noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»),
è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe:
«Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16),
oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi [...]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.).
Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto,
dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe:
«Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento;
a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9).
Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare.
Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita,
attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare,
dunque anche attraverso le «crisi»,
i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
LA VITA SPIRITUALE
Non si dà vita cristiana senza vita spirituale!
Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli
è quello di introdurli a un’esperienza di Dio,
a una vita in relazione con Dio.
È essenziale ribadire oggi queste verità elementari,
perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale,
dominata dall’ansia pastorale,
ha assunto l’idea che
l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo
piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio
vissuta in un contesto comunitario,
radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture,
plasmata dall’eucaristia e
articolata in una vita di fede, di speranza e di carità.
Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale
è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio,
ci immette cioè nella vita spirituale,
che è la vita guidata dallo Spirito santo.
Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio:
non gli può bastare avere idee giuste su Dio.
E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7:
«noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»),
è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe:
«Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16),
oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi [...]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.).
Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto,
dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe:
«Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento;
a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9).
Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare.
Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita,
attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare,
dunque anche attraverso le «crisi»,
i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.
Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità
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