“Una persona può essere riconosciuta dalla natura delle parole che mangia. Ho sempre visto le persone provenienti da ambienti culturali, con qualche felice eccezione, come persone che non si nutrivano che di nomi propri, quando questi nomi avevano raggiunto una certa celebrità. La cultura e l’intelligenza appartengono a due ordini differenti. Si può avere l’una e essere sprovvisti dell’altra. Si può essere acculturati e di una stupidità spaventosa. L’intelligenza viene dall’anima ed è concessa a tutti per il solo fatto di nascere, anche se tutti non ne fanno uso, non osano far uso della loro capacità personale alla solitudine, della intensità di solitudine della propria anima. L’intelligenza non è nient’altro: la maniera personale di stare di fronte a sé e di fronte al mondo, la maniera di ciascuno di lasciarsi trasformare da ciò che gli viene incontro e di cercare il proprio bene, il suo proprio bene, in ciò che l’attraversa e talvolta l’ uccide. Leggere, ad esempio, è una delle manifestazioni più semplici dell’intelligenza , ciò non ha niente a che vedere , assolutamente nulla con la cultura. Leggere è fare prova di sé nella parola di un altro, fare arrivare dell’inchiostro via sangue sino al fondo dell’anima così che essa ne sia impregnata, mangiare ciò che si legge, trasformarlo in sé e trasformarsi in esso. La lettura che non sconvolge la vita non è niente, non ha avuto luogo, non è nemmeno tempo perduto,è meno di niente. Ogni vita che non sia sconvolta dalla vita e che non vada, sola, senza il conforto di alcuna lezione , a trovare il proprio bene in questo sconvolgimento, è morta. Sta alla persona sola decidere ciò che è il bene d’una persona, facendo leva unicamente sulla sufficiente luce della propria solitudine, il più lontano possibile dalle convenzioni intellettuali e morali. L’intelligenza non la si impara – si esercita. La cultura invece sì, si impara – viene fuori a poco a poco dall’accumularsi di lunghi studi, si aggiunge a noi con il tempo e ad opera di altri. Se uno vive soltanto nella cultura, molto presto diventa analfabeta: c’è un tempo, negli ambienti culturali, in cui le opere non vengono più meditate, amate, mangiate, un tempo in cui non si mangiano che i nomi degli autori, il loro nome soltanto, per farsene vanto o per imbrattarlo. La cultura quando viene a tal punto privata d’intelligenza, diviene una malattia dell’accumulo, una cosa inconsumabile che si sa solo consumare.”
Christian Bobin
sabato 6 agosto 2011
venerdì 5 agosto 2011
Non temo la grandezza...anzi l'ammiro
“Io temo un uomo dall'eloquio frugale
Io temo un uomo silenzioso.
L'arringatore, lo posso sovrastare
Il chiacchierone, intrattenerlo
ma colui che soppesa, mentre gli altri
spendono le loro ultime monete,
da quest'uomo mi guardo
ho paura che sia grande”
(Emily Dickinson)
Io temo un uomo silenzioso.
L'arringatore, lo posso sovrastare
Il chiacchierone, intrattenerlo
ma colui che soppesa, mentre gli altri
spendono le loro ultime monete,
da quest'uomo mi guardo
ho paura che sia grande”
(Emily Dickinson)
giovedì 4 agosto 2011
è adesso questa prigione
Nazim Hikmet "Benvenuta,donna mia "
Benvenuta, donna mia, benvenuta!
certo sei stanca
come potrò lavarti i piedi
non ho acqua di rose né catino d'argento
certo avrai sete
non ho una bevanda fresca da offrirti
certo avrai fame
e io non posso apparecchiare
una tavola con lino candido
la mia stanza è povera e prigioniera
come il nostro paese.
Benvenuta, donna mia, benvenuta!
hai posato il piede nella mia cella
e il cemento è divenuto prato
hai riso
e rose hanno fiorito le sbarre
hai pianto
e perle son rotolate sulle mie palme
ricca come il mio cuore
cara come la libertà
è adesso questa prigione.
Benvenuta, donna mia, benvenuta
E’ un’altra letteratura quella di cui ho fame.
Christian Bobin nel suo Autoritratto:
“C’è una letteratura sontuosa, sovraccarica d’oro e di autocompiacimento. Essa considera la scrittura superiore alla vita. Non conosce niente di più nobile di una bella frase. Ha senza dubbio generato dei capolavori, e mi lascia tuttavia indifferente. E’ un’altra letteratura quella di cui ho fame. Essa è antica quanto la prima. Non implica meno lavoro, ma non cerca la stessa cosa. O piuttosto: c’è una scrittura che cerca, non trova per caso che per grazia, e continua a cercare. E c’è una scrittura che si rigira davanti allo specchio, una sposa che prova i suo abito. Questa non cerca niente. Non ha niente da cercare, avendo trovato da sempre chi sposare: se stessa. La sua bellezza non m’ impressiona. Non ammiro un’opera perché mi si dice di ammirarla, ma per la forza dell’amore che vibra in essa. Ciò che intendo per amore non ha nulla di sentimentale. Il solo amore reale è di una durezza incredibile. Il poeta Henri Pichette dice che non si dovrebbe mai scrivere una sola frase che non si possa sussurrare all’orecchio di un agonizzante. Ebbene, è esattamente questo. La scrittura che amo è esattamente questa. E noi siamo tutti degli agonizzanti, non è vero? Dove mi conducono tali riflessioni? A niente, a niente. Non è grave: un piccolo accesso febbrile. Quello che ho detto lo poso dire in un altro modo: c’è una parola dei principi e una parola dei mendicanti. Quella dei principi è come una camera in cui non c’è nulla e in cui al tempo stesso tutto è pieno, riempito sino all’orlo. E’ una parola così sorda da bastare a se stessa. Quella dei mendicanti, al contrario, racchiude in sé abbastanza vuoto – spazio, silenzio – perché il primo venuto vi si possa intrufolare e scoprire la felicità. E’ una parola che lascia in sé un posto per l’altro. La conoscete la vecchia tradizione di disporre sulla tavola un piatto in più per un ospite inatteso, straniero. Sono queste le parole che amo. E’ a queste tavole che mangio meglio.”
mercoledì 3 agosto 2011
Vi si parla molto poco nei primi anni.
« Bambini del ventesimo secolo, i vostri genitori sono stanchi. Non credono più in niente. Vi domandano di portarli sulle spalle, di dar loro coraggio e forza. Bambini dei tempi moderni, siete dei re in un deserto. Bambini del tredicesimo secolo vi si accorda poco peso. Siete come una torma talora scossa da brividi di febbre, decimata dalle guerre, dalle carestie o dalla peste. Vi si parla molto poco nei primi anni. Vi si guarda appena, con lo sguardo intenerito che si accorda ai cani di fattoria coi quali giocate nella polvere dei cortili. Piccoli selvaggi del tredicesimo secolo, crescete inosservati sotto lo sguardo di tutti, confusi coi servi nelle scuderie e con le galline nella sala grande. Chi ha visto il piccolo Francesco crescere? A parte Dio, nessuno o quasi. Non il padre, troppo occupato dai suoi viaggi, dal suo denaro e dalle sue stoffe. La madre, un poco. Così poco: il genio materno ha le sue eclissi. C’è quella che veglia su colui che ama, senza impedirgli di prendere la sua strada. E c’è quella che si tormenta per colui che ama, e cerca di modificarne il cammino. C’è Marta e c’è Maria, le due sorelle incontrate da Gesù che passava. Marta, preoccupata dell’ordine e del cibo, che si affanna per la cucina, persa fra rumori di piatti e d’acqua che bolle. E Maria, il grembiule buttato sotto una panca, Maria seduta per terra, le gambe ripiegate di sotto come le ali di un uccello che riposa, viso aperto, mani vuote, Maria tutta presa da quest’amore senza il quale ogni ordine è triste, ogni cibo insipido. Marta e Maria. L’una persa in mille cose, l’altra raccolta. L’una infaticabile, l’altra quieta. Le madri sono l’una e l’altra, spesso contemporaneamente. Il pensiero del bambino le acceca e le illumina al tempo stesso. Guardano la carne della propria carne. Vedono il fanciullo vivere, mai crescere. Vedono il fanciullo nell’eternità della sua età, non vedono mai il passaggio da un’età all’altra, da un’eternità alla successiva. Un giorno si voltano indietro, osservano stupite quel baldo giovane che entra in casa, quell’uomo impacciato dalla sua stessa forza, non rendendosi più conto di come tanta forza e tanta goffaggine siano potute venire da loro, non comprendendo più nulla: il loro fanciullo è cresciuto, ma il loro cuore non è invecchiato e arde, come ai primi dolori del parto…
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, pp. 28-29 )
martedì 2 agosto 2011
un potere “vitale”
“La letteratura può molto. Po’ tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo. La letteratura ha un ruolo vitale da giocare, ma può ricoprirlo solo se viene presa nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo e che oggi è stata messa da parte, mentre sta trionfando una concezione assurdamente ristretta. Il lettore comune, continuando a cercare nelle opere che legge come dare un senso alla propria vita, ha ragione rispetto a insegnanti, critici e scrittori quando gli dicono che la letteratura parla solo di sé, o che insegna solo a disperare. Se non avesse ragione, la lettura sarebbe condannata a scomparire nel giro di breve tempo. ” Tzvetan Todorov
lunedì 1 agosto 2011
come chi sa che non vale la pena affannarsi
In chiesa, come a un funerale
Amico, per caso hai disimparato a correre? Ti vergogni, adducendo come pretesto il fatto che non sei più un ragazzino, e che certe cose sono disdicevoli per un uomo posato?
Sei diventato anche tu saggio, prudente, controllato, come chi sa che non vale la pena affannarsi, bisogna abituarsi alla morte?
Anche tu vai in chiesa col tuo passo abituale, tranquillo, un po' legnoso, disposto ad assistere a una calma liturgia, ad ascoltare un sermone rassicurante.
C'è gente che va a "fare Pasqua", o si reca abitualmente in chiesa, magari tutti i giorni, come si va a un funerale. Con una certa compostezza, compunzione, cercando di darsi un certo contegno, assumere una certa aria perbene, apparire cortese, garbata.
Non succede niente. Tutto in ordine, previsto, regolamentato. Nessuna sorpresa.
Sei diventato anche tu saggio, prudente, controllato, come chi sa che non vale la pena affannarsi, bisogna abituarsi alla morte?
Anche tu vai in chiesa col tuo passo abituale, tranquillo, un po' legnoso, disposto ad assistere a una calma liturgia, ad ascoltare un sermone rassicurante.
C'è gente che va a "fare Pasqua", o si reca abitualmente in chiesa, magari tutti i giorni, come si va a un funerale. Con una certa compostezza, compunzione, cercando di darsi un certo contegno, assumere una certa aria perbene, apparire cortese, garbata.
Non succede niente. Tutto in ordine, previsto, regolamentato. Nessuna sorpresa.
Lasciarsi portare via Dio
Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto... (v. 13).
Maria di Magdala deve accettare, prima di tutto, di perdere il suo Signore. Paradossalmente, per trovare veramente Dio, bisogna perderlo.
Amico, lasciati portare via il tuo Dio triste.
Non contribuire anche tu a mettere in circolazione l'immagine di un Dio triste, di una Chiesa cupa e severa, di un cristiano mesto e annoiato.
Lascia che altri vadano a trovarlo, con passo lento e ritmato, al cimitero...
Tu, come Maria di Magdala, apriti alla sopresa di un Dio "irriconoscibile" rispetto a quello del passato.
Amico, lasciati portare via il tuo Dio triste.
Non contribuire anche tu a mettere in circolazione l'immagine di un Dio triste, di una Chiesa cupa e severa, di un cristiano mesto e annoiato.
Lascia che altri vadano a trovarlo, con passo lento e ritmato, al cimitero...
Tu, come Maria di Magdala, apriti alla sopresa di un Dio "irriconoscibile" rispetto a quello del passato.
Alessandro Pronzato
domenica 31 luglio 2011
Un approccio al testo per invogliarmi a leggere
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