sabato 16 marzo 2013

Quell’ora mi unisce certamente con il Signore nella prima parte della giornata, ma mi tiene pure unito a lui durante tutto il resto del giorno.

Molti anni fa imparai che l’unico modo per dedicare tempo di prima qualità alla preghiera era di alzarmi presto la mattina. (Debbo aggiungere, fra parentesi, che non avevo un grande desiderio di alzarmi così presto; di norma cercavo di rimanere a letto il più possibile). Le prime ore del mattino, prima che il telefono e il campanello della porta inizino a suonare, prima dell’arrivo della posta, mi sembrava che fossero le migliori da impiegare come tempo di prima qualità con il Signore. Promisi così a Dio ed a me stesso che avrei dedicato la prima ora di ogni giorno alla preghiera, pur non sapendo se avrei mantenuto questa promessa. Sono felice di dire che l’ho fatto per quasi venti anni. Questo non significa che io abbia imparato a pregare in modo perfetto. Non significa che io non abbia provato la stessa fatica affrontata da altre persone. Esattamente il contrario. Ma fin dai primi tempi presi un’altra decisione. Dissi: “Signore, so che impiego una certa quantità di quell’ora mattutina di preghiera in fantasticherie, a risolvere problemi, e non sono sicuro di riuscire ad evitarlo. Proverò, ma la cosa importante è che non dedico quel tempo ad altri. Così, anche se questo tempo non può unirmi a te proprio come vorrei, di certo quel tempo non se lo prende nessun altro”. Quello che ho visto con il passare degli anni che l’effetto di quella prima ora non termina quando finisce l’ora stessa. Quell’ora mi unisce certamente con il Signore nella prima parte della giornata, ma mi tiene pure unito a lui durante tutto il resto del giorno. Frequentemente, quando affronto dei problemi, siano essi positivi o negativi, penso alla mia relazione con Dio e chiedo il suo aiuto. Questi sono così dei punti importanti, almeno per me. Quel tempo, cioè, anche se non è impiegato correttamente, non lo si dovrebbe dedicare a nessun altro; si dovrebbe invece perseverare. E poi, se Gli si dedica del tempo, un po’ alla volta ci si unisce a Dio per tutta la vita, il che è molto importante. (Card. Joseph Bernardin, Il dono della pace)

venerdì 15 marzo 2013

Una chiesa che siede con i potenti, che cerca protezioni, che insegue riconoscimenti e glorie terrene, che notizia potrebbe rappresentare per il mondo?

Poco ci si ferma a pensare che, a volte, lo stile fa tutt'uno con il messaggio: uno stile potente, ricco, supergarantito, è tradimento dell'immagine del Dio che si spoglia. Questa sì notizia buona, notizia che racconta la discesa di un Dio che ama e annulla la distanza, di un Dio che dice beati i poveri in spirito. Uno stile potente, ricco, supergarantito è tradimento della notizia buona del vangelo per la quale i poveri ora passano avanti, perché i criteri di Dio sono diversi. Una chiesa che siede con i potenti, che cerca protezioni, che insegue riconoscimenti e glorie terrene, che notizia potrebbe rappresentare per il mondo? Non farebbe che riprodurre ossessivamente stili di pensiero e di vita ampiamente abusati, i vecchi criteri dei dominatori del mondo, modi di sentire che tutti purtroppo conosciamo e sui quali, per giusto doveroso pudore, dovremmo tacere il nome di Dio. Passata l'immagine di una chiesa trionfante sulla terra, instrumentum regni, basterebbe che ci chiedessimo quali sono le immagini che si accendono nell'immaginario collettivo al pronunciarsi della parola "chiesa". Immediatamente vengono a occupare la ribalta le figure del Papa, dei Cardinali, dei Vescovi, le immagini prepotenti delle assemblee prestigiose e colorate, delle celebrazioni spettacolari. Quando mai la parola "chiesa" evoca la chiesa "minore"? Quella che vive nel silenzio delle parrocchie, quella che cammina ogni giorno con la gente, condividendo gioie e tristezze, fatiche e speranze, chiesa dell'ascolto prima che della parola, chiesa che, come il suo pastore, prova compassione, che non ha nulla a che fare con coloro che caricano di pesi insopportabili i poveri e gli oppressi, chiesa che ne rivendica la dignità, perché ogni essere vivente porta in sé l'immagine di Dio, chiesa che non ha la fretta dei documenti, ma conosce l'arte di rallentare il passo, perché porta nel suo cuore la fatica dell'ultima pecora, quella gravida e quella ferita. Solo una chiesa minore potrà essere con i minori, la chiesa maggiore potrà solo dettare pronunciamenti dall'alto. (Angelo Casati, Extra pauperes nulla salus).

giovedì 14 marzo 2013

il grido che si eleva dalla debolezza può diventare è chiamato a diventare, un grido d’amore, aprendoci agli altri e a Dio

La storia di ogni persona è una storia di debolezza / nata e accolta / o rifiutata per paura e per rabbia. / Siamo concepiti in debolezza / e in debolezza moriamo. / Dalla debolezza ascendiamo alla forza, / ma, poi, cadiamo nuovamente nella debolezza. / Questa storia umana è anche / la storia della Parola che si è fatta carne. // Il grido che si eleva dalla debolezza può diventare / è chiamato a diventare, / un grido d’amore, / aprendoci agli altri / e a Dio; / non un grido di rivolta e disperazione / che sale dal nostro desiderio / di essere forti e indipendenti, / che ci chiude in noi stessi. / È un grido per l’unità e per la compassione, / che avvicina le persone all’unità e alla comunità. / La debolezza dell’altro ci turba / quando vogliamo starcene in pace / o mantenere ciò che è nostro. / Tuttavia, può anche destare e aprire i nostri cuori /alla comunione e alla condivisione. / Quando è benvenuta, / la debolezza diventa comunione e condivisione; / quando è rifiutata, / la debolezza diviene durezza, disperazione, rivolta, / un preludio di morte. // Siamo, logicamente, chiamati a crescere, / e a crescere in forza e competenza; / tuttavia, questa forza / è per costruire umanità nell’amore, / e non per il nostro potere personale e la nostra gloria. / Non siamo chiamati a essere isole indipendenti, / separate le une dalle altre, / chiuse nell’autosoddisfazione. / Siamo tutti legati, interdipendenti, / chiamati ad essere un solo corpo. / Il debole ha bisogno del forte, / proprio come il forte ha bisogno del debole / per non chiudersi in atti suicidi di potere e di orgoglio, / ferendo il bambino interiore. / La necessità mutua dei cuori è comunione. (Jean Vanier, Jesus, o dom do amor).

mercoledì 13 marzo 2013

Ai piedi di Dio, la ricerca della mia colpa è facile, non prende tempo

Io, da parte mia, da lunghi anni ho imparato o meglio ho capito nel profondo dell'essere che, quando c'è qualcosa che non va : incomprensioni, attacchi, ingiustizie, inimicizie, persecuzioni, divisioni, sicuramente la colpa è la mia, sicuramente c'è qualcosa che io ho sbagliato.
Ai piedi di Dio, la ricerca della mia colpa è facile, non prende tempo, fa soffrire ma non poi così tanto, perché è poi così bello e grande riconoscersi colpevoli e combattere perché la colpa venga cancellata, perché i comportamenti sbagliati vengano riformati, perché in ogni relazione con gli altri l'approccio divenga positivo ... il nostro compito sulla terra è di far vivere. E la vita non è sicuramente la condanna, lo ius belli, l'accusa, la vendetta, il mettere il dito nella piaga, il rivelare gli sbagli, le colpe degli altri, il tenere nascosta invece la nostra colpa, l'impazienza, l'ira, la gelosia, l'invidia, la mancanza di speranza, la mancanza di fiducia nell'uomo.
La vita è sperare sempre, sperare contro ogni speranza, buttarsi alle spalle le nostre miserie, non guardare alle miserie degli altri, credere che Dio c'è e che Lui è un Dio d'amore.
Nulla ci turbi e sempre avanti con Dio. Forse non è' facile, anzi può essere una impresa titanica credere così. In molti sensi è un tale buio la fede, questa fede che è prima di tutto dono e grazia e benedizione ...
Perché io e non tu?
Perché io e non lei, non lui, non loro?
Eppure la vita ha senso solo se si ama [...]
Se anche Dio non ci fosse, solo l'amore ha un senso, solo l'amore libera l'uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, in particolare solo l'amore fa respirare, crescere, fiorire, solo l'amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di chi ci colpisce perché non sa quello che fa, che noi rischiamo la vita per i nostri amici, che tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto speriamo. (Annalena Tonelli, Testimonianza, 1/12/2001).

martedì 12 marzo 2013

Una volta fatta l’abitudine, è assai facile pensarlo vicino, anche se capiteranno momenti in cui non si potrà fare né una cosa né l’altra.

Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, mentre siamo sulla terra, e così nella terra come ero io, è insensato. Il pensiero solitamente ha bisogno di appoggio, benché talvolta l’anima esca così fuori di se e sia talmente piena di Dio da non aver bisogno, per raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma ciò non è abituale. In mezzo alle faccende, alle persecuzioni, alle pene, quando non si può avere tanta quiete o si passa per un periodo di aridità, Cristo è sempre un buonissimo amico. Lo vediamo uomo come noi, soggetto a debolezze e sofferenze, e ci diventa di grande compagnia. Una volta fatta l’abitudine, è assai facile pensarlo vicino, anche se capiteranno momenti in cui non si potrà fare né una cosa né l’altra. Perciò è bene ciò che ho detto: non diamo mostra di cercare consolazioni spirituali. Succeda quel che succeda, restare abbracciati alla croce sarà già una gran cosa. Nostro Signore rimase senza consolazione, solo, sotto il peso dei suoi dolori. Non abbandoniamolo noi, ed egli ci aiuterà ad affrontare le nostre sofferenze, più di quanto non possa fare tutta la nostra solerzia. Poi, si assenterà, quando lo riterrà opportuno e quando vorrà strappare l’anima a se stessa. Dio si compiace molto nel vedere un’anima che prende umilmente suo Figlio per mediatore e lo ama tanto che, anche se Lui la eleva alla più alta contemplazione, si riconosce indegna, dicendo con san Pietro: Signore, allontanati da me che sono un peccatore (Lc 5, 8). L’ho provato io stessa, perché il Signore mi ha condotta per questa via. Altri prenderanno sentieri diversi. Ciò che mi è stato dato di capire è che tutto questo edificio dell’orazione deve fondarsi sull'umiltà: quanto più un’anima si abbassa nell’orazione, tanto più Iddio la innalza. (Teresa de Jesús, Libro de la vida, XXI, 10-11).

lunedì 11 marzo 2013

le beatitudini sono l’orizzonte di felicità di una vita posta sotto il segno della benevolenza, poiché la felicità non è semplicemente ciò che non ho, ciò che spero di avere, ma anche ciò che ho gustato.

Mi piace molto la parola felicità. 
Per molto tempo ho pensato che era o troppo facile o troppo difficile parlare della felicità, e poi ho superato questo pudore, o meglio ho approfondito questo pudore di fronte alla parola felicità. 
La prendo in tutta la varietà dei suoi significati, compreso quello delle beatitudini. 
La formula della felicità è: “Beato chi…”. 
Saluto la felicità come una «ri-conoscenza» nei tre sensi della parola. La riconosco come mia, l’approvo negli altri e ho della gratitudine per ciò che ho conosciuto della felicità, e delle piccole felicità, tra le quali, le piccole felicità della memoria, per guarirmi delle grandi infelicità dell’oblio
E qui funziono nello stesso tempo come filosofo, nutrito dei greci e come lettore della Bibbia e del Vangelo dove si può seguire il percorso della parola felicità. 
Ci sono come due registri: 
il meglio della filosofia greca è una riflessione sulla felicità, la parola greca eudeimon, come in Platone e Aristotele, 
e, d’altra parte, mi ritrovo molto bene nella Bibbia. Penso all’inizio del Salmo 4: “Chi ci farà vedere il bene?”. 
E’ una domanda retorica, ma che ha la sua risposta nelle beatitudini, e le beatitudini sono l’orizzonte di felicità di una vita posta sotto il segno della benevolenza, poiché la felicità non è semplicemente ciò che non ho, ciò che spero di avere, ma anche ciò che ho gustato. 
Recentemente riflettevo sulle immagini della felicità nella vita. 
Riguardo alla creazione: un bel paesaggio di fronte a me, la felicità è l’ammirazione
Poi, seconda immagine, riguardo agli altri: nella riconoscenza degli altri e, sul modello nuziale del Cantico dei Cantici, è il giubilo. 
Poi, terza immagine della felicità, rivolta verso il futuro, è l’aspettativa: mi aspetto ancora qualcosa dalla vita. Spero di avere il coraggio del dolore che non conosco, ma mi aspetto ancora della felicità. Uso la parola aspettativa, potrei usarne un’altra che viene dalla lettera ai Corinzi, dal versetto che introduce il famoso capitolo 13, sulla “carità che comprende tutto, scusa tutto”. Questo versetto dice: “Aspirate ai doni più grandi”. “Aspirate”: è la felicità d’aspirare che completa la felicità del giubilo e la felicità dell’ammirazione. (Paul Ricoeur, Liberare il fondo di bontà).

domenica 10 marzo 2013

Tu sai bene ciò che si trova in fondo a quel pozzo

Da quando, un giorno, lui mi ha chiesto, del tutto inaspettatamente, d’insegnargli a pregare, Mohammed ha preso l’abitudine di venire a intrattenersi regolarmente con me. È un nostro vicino. È così che è sorta una lunga storia di condivisione. Spesso mi è capitato di tagliare corto con lui, o di passare dei finesettimana senza vederlo, quando gli ospiti erano troppo numerosi e assorbivano tutto il nostro tempo. 
È stato così che un giorno ha trovato la formula per richiamarmi all’ordine e sollecitare un incontro: 
“È molto tempo che non scaviamo il nostro pozzo!”
L’immagine è rimasta. 
E noi la usiamo quando sentiamo il bisogno di conversare in profondità. 
Una volta, a mo’ di scherzo, gli ho posto una domanda: 
E in fondo al nostro pozzo, cosa troveremo? Dell’acqua musulmana o dell’acqua cristiana?”. 
Lui mi ha guardato, mezzo triste e mezzo ridanciano: 
“ Camminiamo insieme da tanto tempo, e nonostante ciò tu mi fai ancora questa domanda!... Tu sai bene ciò che si trova in fondo a quel pozzo, è l’acqua di Dio!”
(Christian de Chergé).