sabato 15 gennaio 2011

l’indignazione è una virtù se colpisce gli atti riprovevoli, ma rispetta le persone

Beati gli irascibili
una virtù ignorata: l'indignazione 

Tutti sappiamo che sono “beati i miti”, come leggiamo nel discorso della montagna. Ma dimentichiamo che Gesù più volte si è arrabbiato e ha fatto capire che certe collere sono sacrosante. E’ vero che ha insegnato la mitezza, ma non voleva dire : “Siate remissivi, concilianti, tolleranti: chiudete gli occhi e fante finta di niente”.
C’è una virtù da riscoprire e da praticare. Non figura tra le virtù più onorate. Si è arrivati a confinarla nel campo opposto, quello dei difetti se non delle colpe. E’ la virtù dell’indignazione.
Un cristiano che non dovesse mai patire arrabbiature nei confronti di ciò che vede nella società, non sarebbe un santo: sarebbe piuttosto un imbelle. Mancassero i motivi per arrabbiarsi, si potrebbe anche capire. Ma poiché i motivi, purtroppo, ci sono, come è possibile non sdegnarsi?
I motivi per indignarsi .
Ce ne sono alcuni concreti, quotidiani (e qui ognuno potrebbe elencare i suoi, quelli che ogni giorno lo colpiscono): per esempio, la vicenda dei maghi e fattucchiere e dei tanti che volentieri cascano nelle loro reti e ci rimettono denari e tranquillità; la nostra TV quotidiana, troppo spesso sbracata e superficiale, irrispettosa delle persone, veicolo di disvalori e di appiattimento culturale; l’assenza di ideali elevati e di figure significative nella vita culturale e politica, ecc.
Ma al di là di queste situazioni che oggi ci colpiscono e domani dimentichiamo, c’è una situazione generale che nella coscienza di ogni credente e, prima ancora, di ogni uomo che non abbia rinunciato a pensare, dovrebbe essere vissuta con un profondo senso di sofferenza e di rifiuto.
E’ quel clima sempre più dilagante che vede la massa raccogliersi e inneggiare a miti fatui, tutti a godere delle stesse banalità che banalità restano anche se la loro diffusione è enorme. E’ l’atmosfera culturale imperante, che non è certamente cristiana, e se ha qualche venatura di religiosità, lo è  in senso deviante.
il cristiano si accorge di non avere più interlocutori perché le cose che gli interessano non interessano agli altri. Che fare? Tirarsi in disparte? Chiudersi nel proprio guscio? Sarebbe anche comodo. Facciano pure, esaltino i loro idoli, si stordiscano di parole vuote, io me ne sto nel mio angolino quieto e accogliente. Ma dire semplicemente “io non ci sto” sa molto di disimpegno e di fuga.
Indignarsi a partire da noi stessi.
Non cadiamo nell’errore di indignarci solo con gli altri. L’indignazione può essere una virtù solo se è rivolta anzitutto contro se stessi per colpire gli idoli che ciascuno coltiva nel suo cuore.
E ancora: l’indignazione è una virtù se colpisce gli atti riprovevoli, ma rispetta le persone. Se condanna il male, ma propone riscatto e salvezza a quelli che lo commettono, e che non sono mai cattivi in senso assoluto. Così faceva Gesù. La pietà verso l’uomo, che era il suo abito, sia anche nostra, verso l’uomo del nostro tempo, che cammina a tentoni nell’esistenza, tra verità che si offuscano ai nostri occhi come fossero errori ed errori che brillano come fossero verità.

Graziano Basso

spesso non ci fidiamo della sua Parola

Quando andiamo al ristorante, non chiediamo al cuoco di poter fare l’analisi chimica dei cibi che ci ha cucinato: ci fidiamo di lui. Quando saliamo su un aereo, non chiediamo al pilota di fargli un esame del sangue per verificare se il tasso alcolico è nella norma: ci fidiamo. E così ci fidiamo di molte altre persone.  
          Quando si tratta di Dio, invece, spesso non ci fidiamo della sua Parola e quindi facciamo di testa nostra e puntiamo tutto sulle nostre forze.

venerdì 14 gennaio 2011

il desiderio di un destino buono per l’uomo sembra dimenticato

  Ore 12, in fila all’ufficio postale. Incollati al display degli “elimina-code” ecco anziani con badante, madri di famiglia cariche della spesa, due impiegate sommerse di raccomandate da spedire. Tutti ansiosi di accedere allo sportello. Un’impellicciata benpensante dal labbro rosso carminio supera la coda, sgomita, si fa strada allo sportello vantando “una fretta terribile”.
Si scatena l’uragano.
  
          Fretta, impazienza e aggressività: un ufficio postale può essere l’icona dei tempi in cui viviamo? Credo di sì. In un mondo segnato da relazioni virtuali e precarie, dalla fretta dei 3.5 Mbit/s, dall’elogio dell’alterco e della virulenza polemica, il desiderio di un destino buono per l’uomo sembra dimenticato.
          Jean Debruynne, poeta francese, l'ha fotografato in pochi, lapidari versi: «Noi siamo quelli che non amano attendere/ non amiamo attendere nelle file/ non amiamo attendere il nostro turno/ non amiamo attendere il treno/ non amiamo attendere prima di giudicare/ non amiamo attendere il momento opportuno/ non amiamo attendere un giorno ancora/ non amiamo attendere perché non abbiamo tempo/ e non viviamo che nell'istante».

giovedì 13 gennaio 2011

l dolore e la sconfitta possono rendere l'uomo sventurato, ma non umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria volontà di agire

La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio concernente il fine che egli si propone e i mezzi atti a realizzarlo. Poco importa che le azioni siano agevoli o dolorose, e anche che siano coronate da successo; il dolore e la sconfitta possono rendere l'uomo sventurato, ma non umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria volontà di agire. L'uomo non può in alcun caso evitare di essere incalzato da una necessità inflessibile; ma, poiché pensa, ha la facoltà di scegliere tra cedere al pungolo con il quale essa lo incalza, oppure conformarsi alla raffigurazione interiore che se ne forgia; e in questo consiste l'opposizione tra servitù e libertà.
Simone Weil, da «Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione»

Chi non vuol essere importunato dice che nessuno ha sete

«Ho sete» (Gv 19,28). Tutte le seti nella sete del Signore: la sete del disperso e del ferito: la sete di tenerezza del lontano; la sete di giustizia del conculcato; la sete di patria dell'esule; la sete di gioia terrena dell'uomo; la sete di gioia eterna del santo. So che qualcuno riesce a chiudersela nel cuore la propria sete, senza gridarla. Quello è certo un uomo forte: cioè più di un uomo o meno di un uomo. Io sono un pover'uomo e chiedo una goccia d'acqua a tutte le fonti, una parola d'amore a tutti i cuori. Se chiedo, - sono un mendìco, è vero - ma quanta fede nel Signore cela la mia povertà!Se oso domandargli una goccia d'acqua vuol dire che c'è la goccia d'acqua, ch'essa fu voluta dalla sua onnipotenza, pensata dalla sua carità proprio per la mia sete di oggi. Per tutte le labbra riarse mandano acque le fonti del Signore, stillano rugiada le erbe del Signore: si donano al sole le nevi e i ghiacciai del Signore. Su ogni Calvario c'è sempre una canna e una spugna per arrivare alle labbra del Signore. Chi non vuol essere importunato dice che nessuno ha sete. Lasciate che il Morente ci trapassi il cuore col suo grido: «Ho sete».
don Primo Mazzolari, Dietro la croce, 52

mercoledì 12 gennaio 2011

un prete osserva, contempla, ama la Messa della sua parrocchia un testo che scava il cuore e la mente

Non una Messa pontificale, non una Messa in una basilica o in una abbazia benedettina, ma la più
povera delle Messe, celebrata dal più povero dei sacerdoti.
La nostra chiesa è la più povera delle chiese.
Il vescovo non s’illuda se in visita pastorale la trova quasi bella. Siamo anche noi dei poveri uomini che,
quando viene il superiore, danno un colore di festa anche agli stracci.
Ma non vergognamoci della povertà della nostra chiesa, che s’intona assai bene con la Messa e fa
meno paurosa la nostra povertà.
Quale preparazione possiamo fare noi poveri parroci, alla nostra Messa parrocchiale della domenica?
La liturgia è un momento composto, dicono alcuni. Vorrei che qualche mio confratello di città venisse a
celebrare da me la domenica. Dopo, potrebbe parlare con più competenza di «momento composto».
Dov’è il popolo? La chiesa è ancora vuota. O perché piove, o perché fa caldo, o perché gela: bisogna
attendere, i nostri clienti non hanno fretta.
Andiamo in sacrestia. Il sacrista è sbadato: i chierichetti litigano per il primo posto, come gli apostoli...
Finalmente, ci si avvia all’altare. Il momento richiederebbe il massimo raccoglimento: ma come si fa a
non dare uno sguardo alla navata per vedere se c’è gente e come sta?
Adesso salgo l’altare. Incomincia la Messa parrocchiale.
L’abbiamo tanto desiderata la nostra Messa domenicale!
Quella di ogni giorno è così sola...
La domenica invece è la nostra giornata. Non so immaginare un parroco che non aspetti la domenica,
anche se faticosa. Alla domenica io mi sento veramente padre, non sono più il solitario del
presbiterio. Il Signore, la domenica, mi dà una famiglia.
S’avvia il colloquio tra noi e il nostro popolo.
Esso continua gli incontri settimanali nel nostro studio, per le strade, per i campi.
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Un parroco non deve aver fretta quando esce di casa. C’è il povero che ha bisogno del nostro saluto: il
bambino di una carezza: la mamma di un conforto... che può essere solo una richiesta: «E il vostro
figliolo ha scritto?».
Se non è preparato così, il nostro colloquio domenicale ai piedi dell’altare rimane qualcosa di troppo
freddo, di troppo... liturgico. E la gente non capisce, perché la gente non può capire un sacerdote che,
invece di distaccarsi soltanto «ab homine iniquo et doloso», si è distaccato dall’uomo che fatica, tribola
e soffre.
Più che delle pretese verso la nostra gente, dobbiamo riconoscere che abbiamo dei torti: e il primo è
appunto questo, di aver avuto una settimana troppo comoda, mentre loro hanno lavorato da tirarsi il
collo.
Sono in debito verso la mia gente, oltre che verso il Signore, la Madonna e i Santi, e domando perdono
anche a loro... «et vobis, fratres».
Perdono di non averli sempre capiti, perdono di non averli sempre trattati con bontà, perdono di non
aver sofferto come essi soffrivano...
Ho bisogno di essere perdonato anche dal mio popolo per poter salire l’altare con minor confusione.
«Kyrie, eleison; Christe, eleison...».
Sulla nostra solidale povertà, la misericordia del Signore stende immediatamente le sue braccia.
«Dominus vobiscum».
È il primo saluto domenicale alla nostra gente, in compenso dei saluti mancati, o sgarbati, o frettolosi,
con cui abbiamo risposto durante la settimana.
Non sono un liturgista e dico cose sciocche: ma io vorrei un «Dominus vobiscum» largo, a braccia
piene, così che tutti vedano la nostra cordialità espansiva, che non lascia fuori nessuno.
Pio XII, quando benediceva, aveva il segreto di questa paterna vastità: e tutti ne sentivano il fascino,
come dell’abbraccio di Cristo in croce.
La stoltezza di un tal gesto non la può capire uno che non ha il cuore su tutte le strade.
E nel salutare, non abbassiamo gli occhi. Guardiamo in faccia i nostri figlioli. Come salutare senza
guardare? È vero: gli occhi sono la porta del male, ma sono pure la porta del bene, per dove passa la
pietà. Non ci dobbiamo preoccupare del male quando stiamo facendo il bene.
Forse, ci rattristeremo vedendo che là, in fondo la chiesa, i giovani discorrono invece di pregare, che i
fanciulli sono irrequieti nei loro banchi.
Io ho gusti strani: mi piacciono le chiese vive, un po’ mosse. Penso che anche il Signore non ne sia
malcontento. Non ch’egli li approvi - neanch’io, del resto, li approvo - ma son fatti così e nessuno ha
loro insegnato con bontà come bisogna stare davanti al Signore. E poi, sono tanto stanchi, hanno
lavorato tanto e possono starci alla buona al cospetto di Dio.
«Oremus».
Comincio a pregare. Per tutti.
Non so il vero significato della parola «colletta». Lo penso alla mia maniera: raccogliere e far propria, in
nome di Cristo, l’incomprimibile voce di tanti poveri cuori che non sanno parlare. Il parroco coordina
questo dolore muto, queste incomposte fatiche, queste segrete rivolte e le esprime davanti al Signore
con la sua voce. Gliele dà. Con tali sentimenti è naturale che l’«oremus» venga detto o salmodiato meno
sgarbatamente. Ci vuole una mano lieve e un tono dolce per chi soffre.
Il Vangelo.
Non vi siete mai chiesti perché nella Messa nulla è lasciato al nostro arbitrio, all’infuori dei nomi del
«memento»? Tutto è fisso, ogni capriccio è impedito. Nella Messa il sacerdote non è un inventore, ma
un ripetitore.
Gesù ordina agli apostoli: «Andate e dite». Il Vangelo è appunto una continua ripetizione di «dite».
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Devo quindi leggere la Messa e il Vangelo com’è. Anche il Vangelo detto alla balaustra o sul pulpito.
Quando predico alla mia povera gente sono il ripetitore della parola di un altro: devo ripetere quel
che Gesù ha detto: non il mio Vangelo ma il Vangelo di Gesù.
Una delle tentazioni più forti di un parroco alla Messa domenicale è di leggere, invece del Vangelo
secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni, il Vangelo «secondo il parroco». Con ciò non intendo dire che
io non debba mettere nel Vangelo la mia anima, il mio cuore, ma semplicemente che con la scusa del
Vangelo, io non posso presentare alla mia gente, che è la «plebs sancta», i miei sfoghi, le mie
rampogne. Se gli altri saranno giudicati sul secondo comandamento «Non nominare il nome di Dio
invano», noi saremo giudicati sul Vangelo, poiché anche il Vangelo è uno dei nomi di Dio e il più bello.
Il Vangelo è la «buona novella», la parola che libera, che solleva: non la parola che opprime.
Povera la nostra gente, già tanto oppressa e insultata e maltrattata lungo la settimana! Un po’ da tutti:
dal padrone, dall’impiegato, dal gerarca.
Facciamo che alla Messa essa senta che il parroco non è un padrone. Il Signore è venuto tra i suoi come
un servitore: gli apostoli sdegnarono di fare da padroni. Erano uomini liberi e quindi rispettosi della
libertà e della dignità degli altri, specialmente degli «ultimi» che nella casa del Padre sono i «primi».
Facciamo da padroni noi preti quando chiediamo alla nostra gente una perfezione che non può
raggiungere, una generosità che noi stessi non sentiamo, un distacco che non trova aiuto nel nostro
esempio. Il Vangelo, prima di predicarlo, bisogna farlo passare attraverso la nostra povertà, allora la
nostra voce avrà un tono diverso.
Offertorio.
Forse anche da voi c’è la bella abitudine, alla mietitura e alla vendemmia, di far portare dai bambini
spighe e grappoli per l’offerta all’altare.
Vedo la mia chiesa come un campo di grano o dei filari che salgono verso l’altare.
Proprio il pane ed il vino che tengo in mano in questo momento sono il frutto della terra lavorata dal
mio popolo: la sua fatica che sta per essere riposata in un misterioso incontro col Signore. Io ho in
mano tutta la fatica della mia povera gente che sale verso un incontro di grazia. Il primo incontro, tra
l’uomo che lavora e Dio che benedice, è avvenuto sul campo. Sull’altare, attraverso il mistero della
transustanziazione si completa l’incontro nella presenza sacramentale.
Mi piace, a volte, guardare la Messa sotto aspetti «non contemplati».
La patena non pesa, eppure, nella Messa solenne, il diacono ci aiuta a sorreggerla. Sulla patena c’è il
nostro pane, la fatica e la sofferenza di tutto un popolo.
Ormai sapete che amo i gesti larghi, che sono i veri gesti sacerdotali.
Io ho bisogno di una famiglia. La domenica, la voglio tutta presente all’altare: voglio che sappia che
questa è la sua Messa. Voglio tutti presenti: vicini e lontani, perduti e ritrovati.
Mi chino sul pane e il vino che m’hanno posto tra le mani e ripeto le parole divine. Per queste parole
ripetute tremando dal più povero dei preti nella più povera delle chiese, Cristo prende posto tra la mia
gente e con la sua presenza cambia volto ad ognuno.
Dilato nuovamente le braccia, di più, sempre di più. Non siamo più orfani: c’è il Fratello, il Maestro, il
Pastore. Non sono più solo all’altare, c’è Cristo con me. E se c’è lui, che è la Vita, posso chiamare anche i
morti e fare della mia piccola chiesa una chiesa senza termine nello spazio e nel tempo, e rivolgermi al
Padre che è nei cieli con confidenza nuova e sicura: «Padre nostro».
Sto sospeso un attimo con il frammento del Pane sull’orlo del Calice. L’odio, nel mondo, è tanto: ma
l’amore è più grande. «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo donaci la pace». Un’altra volta vince
l’Amore che si lascia spezzare. In pace anche con me. Eccolo, viene in me.
La comunione.
La comunione è il momento più caro, più impegnativo.
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Alla Messa parrocchiale nessun fedele prende la comunione1. È troppo tardi. Io solo ricevo Cristo e lo
ricevo per tutti.
Per me, la Messa durante la quale non scendo dall’altare per fare la comunione a qualcuno, è la Messa
più impegnativa. Ricevo e porto Cristo per tutti quelli che non lo ricevono e non lo portano: divento
responsabile nella mia comunione di tutti coloro che non hanno potuto comunicarsi.
Se durante la settimana i miei parrocchiani verranno a chiedermi esempio, conforto, carità e mi
troveranno vuoto, essi potranno chiedermi: «Che ne hai fatto del Cristo che è venuto in te sotto i nostri
occhi?».
Mezzogiorno è suonato: la gente brontola se non finisco presto: i fanciulli sono stanchi.
Comincio a coprire il calice in fretta...
«Ite, missa est».
Son parole che il parroco, la domenica, dice col cuore grosso.
Li avevo appena ritrovati e debbo subito congedarli. Li guardo partire. Sono come uccelli migratori:
hanno bisogno di andare.
«Ite». Li accompagno col mio cuore facendomi prestare, con un gesto che misuro sulla grande croce che
domina l’altare, la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo per essere con loro ovunque la
vita li porti.
Quando sono in sacrestia, sento che la mia spirituale paternità ha avuto nella Messa parrocchiale il suo
vertice e la sua più alta gioia, e mi dispongo, con fiducia, alla fatica settimanale aspettando la nuova
domenica: il ritorno.
                                                               don Primo Mazzolari, La parrocchia, 99-107

mi sento a disagio quando abbandono l'abituale rifugio


Mi hai fatto conoscere ad amici che non conoscevo.
Mi hai fatto sedere in case che non erano la mia.
Mi hai portato vicino il lontano,
e reso l'estraneo un fratello.
In fondo al cuore mi sento a disagio quando abbandono l'abituale rifugio;
scordo che il vecchio abita nel nuovo,
e là Tu stesso hai dimora.
Attraverso la nascita e la morte,
in questo oppure in altri mondi, ovunque mi conduci,
sei Tu, lo stesso unico compagno della mia vita
senza fine, che unisci, con legami di gioia,
il mio cuore a ciò che non è familiare.
Se conosco Te nessuno mi sarà estraneo,
non vi sarà porta chiusa.
Esaudisci la mia preghiera:
ch'io non perda mai la carezza dell'uno nel gioco dei molti.

Tagore da "Gitanjali"

Non c'è nulla di più bello che vedere marito e moglie rivolgersi al Padre

«Marito e moglie, pregare insieme apre al mondo»
Pregate insieme ogni giorno, per essere felici voi stessi e per trasmettere la vostra felicità al mondo». È la ricetta semplice, quasi disarmante, annunciata ieri a Valencia da una coppia un po' speciale: Gerard e Marie Christine de Roberty, la coppia responsabile a livello internazionale dell'Équipe Notre Dame, la prima associazione al mondo a dedicarsi in maniera esclusiva alla spiritualità coniugale e familiare.
Era il 1938 infatti, quando padre Henry Caffarel, vicario di una parrocchia parigina, ebbe l'intuizione di mettere a punto un corso di evangelizzazione pensato in maniera specifica per le coppie cristiane. Da allora l'Équipe Notre Dame ha percorso tanta strada in tutto il mondo. Oggi è diffusa in 71 Paesi nei cinque continenti e raggruppa oltre 60 mila coppie. Un bagaglio sterminato di esperienza e di ricchezza umana che ieri è emerso in tutto il suo spessore dalle parole coinvolgenti dei coniugi de Roberty.
Niente psicologia quindi, niente sedute psicanalitiche: per la felicità della coppia basta la preghiera insieme...
«Quando la spiritualità è davvero profonda e sentita, è la migliore medicina per il cuore degli sposi. Cristo è presente in maniera speciale quando gli sposi pregano insieme. Fermandosi insieme in preghiera, marito e moglie non solo rinnovano il loro sì a Dio, ma giungono ad una coesione profonda, ad una spiritualità incarnata, che è il cemento migliore per l'unità della coppia».
Qual è il valore aggiunto della spiritualità coniugale per la vita d ogni giorno?
«La preghiera fa scoprire agli sposi una nuova dimensione della loro vita coniugale e rende abituale a marito e moglie il fatto di essere testimoni di Cristo anche al di fuori della famiglia. La preghiera è la via privilegiata per abbracciare il mondo».
La preghiera può diventare anche strumento privilegiato per la trasmissione della fede, che è il tema al centro di queste giornate di Valencia?
«Assolutamente sì. Pregando insieme, le coppie trasmettono spiritualmente i frutti interiori maturati nella riflessione comune ai loro figli e agli altri familiari. Una coppia che prega insieme davvero, giorno dopo giorno, si vede subito. Ha una marcia in più. Noi ormai abbiamo l'occhio allenato. Quando incontriamo due coniugi uniti in profondità, anche sotto l'aspetto spirituale, trasmettiamo loro le congratulazioni di padre Caffarel. Ce le manda dal paradiso... naturalmente».
Torniamo all'efficacia della preghiera per la trasmissione della fede in famiglia.
«Sì, siamo convinti che sia proprio la strada privilegiata. Soltanto in casa si può preparare ai figli una vita di fede davvero condivisa, profonda, ricca di contenuti. I genitori, per una sorta di osmosi spirituale, trasmettono la fede ai figli facendo in modo che la casa sia un luogo dove ci si aiuta a pregare e ad incontrare il Signore. Ma attenzione: bisogna condividere anche la vita, concretamente, altrimenti le parole servono a poco».
In sostanza la spiritualità degli sposi deve emergere dalla loro stessa vita. Spiritualità incarnata e condivisa, con una sua specificità.
«Certo, anche la modalità concrete della preghiera devono riflettere il "mistero grande" della coniugalità. Gli sposi devono pregare guardandosi in volto, le mani nella mani, condividendo il palpito di ogni espressione. Non c'è nulla di più bello che vedere marito e moglie rivolgersi così al Padre. Sono due, eppure è come se fosse uno. Quando si dice che la famiglia è icona della Trinità - l'ha ricordato recentemente anche Benedetto XVI - vuol dire proprio questo. La circolarità d'amore che segna il mistero trinitario si ritrova intatta nell'amore coniugale benedetto dal sacramento di Cristo».
In che modo la preghiera coniugale dilata i confini della coppia?
«Gli sposi pregano insieme con il cuore accanto a quello di Cristo, ma il loro sguardo è diretto alla vita quotidiana. La preghiera abbraccia i figli, la famiglia, il lavo ro, gli impegni della giornata. La preghiera serve anche per vivere meglio la loro intimità. E qui siamo proprio alle radici della realtà coniugale. La preghiera di marito e moglie diventa scambio di cuori, di corpi, di fede. E allora è il dono più grande. Un dono da trasmettere a tutta la Chiesa».
Nasce da questo presupposto l'impegno missionario dell'Équipe Notre Dame?
«Padre Caffarel diceva che se le Équipe non diventano una miniera di uomini e di donne pronti ad assumere coraggiosamente tutte le loro responsabilità nella Chiesa e nel mondo, perdono la loro ragione di essere. Naturalmente conservando il nostro carisma, che è appunto la spiritualità della coppia».

fonte: l'avvenire

martedì 11 gennaio 2011

fammi o Signore tuo servo perchè possa chiederti: lasciami andare in pace

L'episodio (di Simeone - cfr Lc 2,25-35) ha in sé qualcosa di profondamente umano: l'uomo che gioisce del fatto che altri continuino la propria opera; l'uomo che gioisce del fatto che, pure nella propria decadenza, vi sia un risveglio, un rinnovo, qualcosa che vada avanti. Se il brano ci insegnasse anche soltanto questo, sarebbe già molto valido per la nostra vita. Non è facile infatti che il vecchio che è in noi accolga il bambino, il nuovo. C'è piuttosto il timore che il bambino non potrà continuare, che non vorrà seguire lo stesso ideale, che prenderà il suo posto mettendo da parte il vecchio, e addirittura che tradirà.
Il vecchio Simeone che abbraccia un bambino è una realtà molto importante, perché rappresenta ciascuno di noi di fronte alla novità di Dio. La novità di Dio si presenta come un bambino e noi, con tutte le nostre abitudini, paure, timori, invidie, preoccupazioni, siamo di fronte a questo bambino. Lo abbracceremo, lo accoglieremo, gli faremo spazio? Questa novità entrerà davvero nella nostra vita o piuttosto tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo cercando di lasciarci disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?
Ecco un primo momento di preghiera: «Signore, fa' che ti accolga come il nuovo nella mia vita, che non abbia paura di te, che non ti misuri con i miei schemi, che non ti voglia incasellare nelle mie abitudini mentali. Fa' che io mi lasci trasformare dalla novità della tua presenza. Fa', o Signore, che, come Simeone, io ti accolga nella tua novità, in ogni cosa che, intorno a me, è vera, nuova e buona. Che io ti accolga in tutti i bambini di questo mondo, in ogni vita, in ogni fermento di novità che tu metti intorno a noi, nella nostra società, nel mio cuore».

card. Carlo Maria Martini, Qualcosa di così personale, 32-33

lunedì 10 gennaio 2011

Rendimi fedele

la preghiera di Sr.Marie-Pierre di Chambrand
Rendimi fedele, Signore,
a questo filo di speranza
e a questo minimo di luce
sufficienti per cercare.
Rendimi fedele, Signore,
a questo vino del tuo calice
e a questo pane quotidiano
sufficienti per campare.
Rendimi fedele, Signore,
a questo briciolo di allegria
e a questo assaggio di felicità
sufficienti per cantare.
Rendimi fedele, Signore,
al tuo Nome sulle labbra,
a questo grido della fede
sufficienti per vegliare.
Rendimi fedele, Signore,
all'accoglienza del tuo Soffio,
a questo dono senza ritorno,
sufficienti per amare.

domenica 9 gennaio 2011

chiuso coi miei libri in questa stanza come un vigliacco ozioso, sordo ad ogni sofferenza




Francesco Guccini, Album "Stagioni" - anno 2000
Chisciotte
[ Don Chisciotte ]: Ho letto millanta storie di cavalieri erranti,
di imprese e di vittorie dei giusti sui prepotenti
per starmene ancora chiuso coi miei libri in questa stanza
come un vigliacco ozioso, sordo ad ogni sofferenza.
Nel mondo oggi più di ieri domina l'ingiustizia
,
ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia;
proprio per questo, Sancho,
c'è bisogno soprattutto
d'uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto
:
vammi a prendere la sella, che il mio impegno ardimentoso
l'ho promesso alla mia bella, Dulcinea del Toboso,
e a te Sancho io prometto che guadagnerai un castello,
ma un rifiuto non l'accetto, forza sellami il cavallo !
Tu sarai il mio scudiero, la mia ombra confortante
e con questo cuore puro, col mio scudo e Ronzinante,
colpirò con la mia lancia l'ingiustizia giorno e notte,
com'è vero nella Mancha che mi chiamo Don Chisciotte...

[ Sancho Panza ]: Questo folle non sta bene, ha bisogno di un dottore,
contraddirlo non conviene, non è mai di buon umore...
E' la più triste figura che sia apparsa sulla Terra,
cavalier senza paura di una solitaria guerra
cominciata per amore di una donna conosciuta
dentro a una locanda a ore dove fa la prostituta,
ma credendo di aver visto una vera principessa,
lui ha voluto ad ogni costo farle quella sua promessa.
E così da giorni abbiamo solo calci nel sedere,
non sappiamo dove siamo, senza pane e senza bere
e
questo pazzo scatenato che è il più ingenuo dei bambini
proprio ieri si è stroncato fra le pale dei mulini...
E' un testardo, un idealista, troppi sogni ha nel cervello:
io che sono più realista mi accontento di un castello.
Mi farà Governatore e avrò terre in abbondanza,
quant'è vero che anch'io ho un cuore e che mi chiamo Sancho Panza...

[ Don Chisciotte ]: Salta in piedi, Sancho, è tardi, non vorrai dormire ancora,
solo i cinici e i codardi non si svegliano all'aurora:
per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri !
L'ingiustizia non è il solo male che divora il mondo, anche l'anima dell'uomo ha toccato spesso il fondo,
ma dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa
il nemico si fà d'ombra e s'ingarbuglia la matassa...

[ Sancho Panza ]: A proposito di questo farsi d'ombra delle cose,
l'altro giorno quando ha visto quelle pecore indifese
le ha attaccate come fossero un esercito di Mori,
ma che alla fine ci mordessero oltre i cani anche i pastori
era chiaro come il giorno, non è vero, mio Signore ?
Io sarò un codardo e dormo, ma non sono un traditore,
credo solo in quel che vedo e la realtà per me rimane
il solo metro che possiedo, com'è vero... che ora ho fame !

[ Don Chisciotte ]: Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch'io un realista,
ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista,
l'apparenza delle cose come vedi non m'inganna,
preferisco le sorprese di quest'anima tiranna
che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti,
ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Prima d'oggi mi annoiavo e volevo anche morire,
ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire...

[ Sancho Panza ]: Mio Signore, io purtoppo sono un povero ignorante
e del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente,
ma anche ammesso che il coraggio mi cancelli la pigrizia,
riusciremo noi da soli a riportare la giustizia ?
In un mondo dove il male è di casa e ha vinto sempre,
dove regna il "capitale", oggi più spietatamente,
riuscirà con questo brocco e questo inutile scudiero
al "potere" dare scacco e salvare il mondo intero ?

[ Don Chisciotte ]: Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro ?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà ?

[ Insieme ]: Il "potere" è l'immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte:
siamo i "Grandi della Mancha",
Sancho Panza... e Don Chisciotte !

felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce,

Come potremmo essere in grado di descrivere la felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce, il sacrificio conferma, la benedizione consacra, gli angeli annunciano, il Padre ratifica? Infatti nemmeno in terra i figli si sposano in modo legittimo e valido senza il consenso dei padri.
È come un giogo di due fedeli che condividono una sola speranza, un comune desiderio, un'unica norma di vita, una medesima servitù. Entrambi fratelli, entrambi compagni di servizio; nessuna differenza nello spirito e nella carne, piuttosto veramente «due esseri in una sola carne» (cfr. Gn 2,24). Dove una è la carne, è uno anche lo spirito: insieme pregano, insieme si amano, insieme trascorrono i tempi di digiuno, insegnandosi l'un l'altro, l'un l'altro esortandosi, l'un l'altro offrendosi sostegno.
Entrambi ugualmente stanno nella Chiesa di Dio, ugualmente nel divino banchetto, ugualmente nelle angustie, nelle persecuzioni, nei momenti di sollievo.
Nessuno dei due nasconde qualcosa all'altro, nessuno evita l'altro, nessuno gli è molesto. Spontaneamente, se infermo, è visitato, se povero, soccorso. Le elemosine si fanno senza costrizione, i sacrifici senza difficoltà, la diligenza quotidiana si esercita senza impaccio, il segno di croce non è furtivo, il ringraziamento non è timoroso, la benedizione non è silenziosa. Tra i due risuonano salmi e inni, e reciprocamente fanno a gara per vedere chi canti meglio per il suo Signore. Cristo vedendo e udendo questo, si rallegra. A questi manda la sua pace. Dove ci sono due, anch'egli è presente, dove egli è presente, non si trova nessun malvagio. Questi sono i precetti che la voce dell'Apostolo ci ha lasciato ben comprensibili nella loro concisione. Se sarà necessario, richiamali alla tua mente.

Tertulliano, Alla sposa, II, 3-9