sabato 20 luglio 2013

Un uomo umile può fare grandi cose con una perfezione non comune, perché non bada più alle cose accidentali, come il suo interesse e la sua reputazione, e quindi non ha più bisogno di consumare i suoi sforzi per difenderle.


Thomas Merton in Semi di contemplazione
così conclude il cap. 25. Umiltà contro disperazione
...Vi è pericolo che
nei monasteri ci si sottoponga a così difficili sforzi,
per essere umili di quell’umiltà che si è appresa da un libro, 
da rendere impossibile la vera umiltà.
Come puoi essere umile se fai sempre attenzione a te stesso?
La vera umiltà esclude la coscienza di sé,
ma la falsa umiltà intensifica la consapevolezza di noi stessi
al punto da irrigidirci,
da non lasciarci più compiere movimento
od eseguire azione senza mettere in moto
un complesso meccanismo di apologie e di formule d’autoaccusa.
Se tu fossi davvero umile non baderesti affatto a te stesso.
E perché dovresti badare a te?
Tu porresti solo mente a Dio,
alla Sua volontà,
all’ordine obiettivo delle cose e
dei valori quali essi sono,
non quali il tuo egoismo vuole che siano.
Di conseguenza non avresti più illusioni da difendere.
I tuoi movimenti sarebbero liberi.
Non avresti più bisogno di impastoiarti in una serie di scuse
che in realtà sono costruite soltanto
per difenderti dall’accusa di orgoglio —
quasi la tua umiltà dipendesse da ciò
che gli altri pensano di te!
Un uomo umile può fare grandi cose
con una perfezione non comune, perché
non bada più alle cose accidentali,
come il suo interesse e la sua reputazione, e
quindi non ha più bisogno di consumare i suoi sforzi per difenderle.
Giacché un uomo simile non ha paura dell’insuccesso.
Non ha paura di nulla, nemmeno di se stesso,
perché la perfetta umiltà implica una perfetta fiducia nella potenza di Dio,
dinanzi al Quale nessun potere umano ha significato e
per il Quale tutto questo non costituisce un ostacolo.
L’umiltà è il segno più sicuro di forza.

venerdì 19 luglio 2013

tener conto della tradizione spirituale già sperimentata, perché solo quella garantisce il cammino verso la maturità spirituale

Oggi la nostra proposta è un po' più impegnativa per la lunghezza e per il contenuto.

In questi giorni sto pubblicando una conferenza di Marina Štremfelj su L’ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE nel mio blog "salmo 46"  http://dioaiutosemprevicino.blogspot.it/. 
In esso si dice dell'importanza di seguire i Padri per un cammino sicuro nella nostra formazione spirituale.

Bisogna necessariamente tener conto della tradizione spirituale già sperimentata,
perché solo quella garantisce il cammino verso la maturità spirituale,
cioè la capacità di prendere le proprie responsabilità nei confronti della vita.
Per questo è indispensabile avere la conoscenza degli antichi Padri, dei Padri della Tradizione. “Seguire la Tradizione viva dei Padri non significa aggrapparsi al passato come tale,
ma aderire con senso di sicurezza e libertà di slancio alla linea della fede,
mantenendo un orientamento costante verso il fondamento:
ciò che è essenziale, ciò che dura e non cambia.
Si tratta di una fedeltà assoluta.”

Oggi è venerdi e la liturgia delle ore, 
ci ripropone il salmo "Pietà di me Signore": 
riscopriamolo con sant'Agostino dove considera 
i versetti 9 e 10 nella sua Esposizione sul salmo 50.
Approfittiamone per fare un esame di coscienza.

Purificami con issopo e sarò mondato; *
    lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia, *
    esulteranno le ossa che hai spezzato.

Sii umile.
12. [v 9.] Continua: Aspergimi con l'issopo e sarò mondo.
Sappiamo che l'issopo è una umile erba, però dotata di poteri medicamentosi;
si dice che abbia le sue radici infisse nella pietra.
Perciò, nel mistero,
è assunta a similitudine della purificazione del cuore.
Poni anche tu le radici dell'amore nella tua pietra:
sii umile nell'umile Dio tuo,
per essere sublime nel Dio tuo glorificato.
Aspergiti di issopo,
e l'umiltà di Cristo ti purificherà.
Non disprezzare l'erba,
stai attento alla potenza del medicamento.
Dirò anche qualcosa che siamo soliti udire dai medici, oppure esperimentare negli ammalati.
Dicono che l'issopo è capace di purificare i polmoni.
Nel polmone di solito si colloca la superbia:
esso infatti si gonfia,
ivi c'è l'anelito.

A proposito di Saulo persecutore, come di Saulo superbo,
si diceva che andava a catturare i Cristiani spirando strage (Cf. At 9, 1) 
anelava le stragi,
anelava il sangue,
perché il suo polmone non era ancora stato purificato.

Ascolta che cosa dice qui l'umiliato, perché è stato purificato con l'issopo:
Aspergimi con l'issopo e sarò mondo;
mi laverai, cioè mi purificherai, e sarò più bianco della neve.
Dice il profeta:
Anche se i vostri peccati fossero come porpora, come neve li sbiancherò  (Is 1, 18.).
Con chi è purificato,
Cristo prepara per sé una veste senza macchia né ruga  (Ef 5, 27.).
Infatti la sua veste sul monte,
che brillò come neve candida  (Mt 17, 2.),
significava la Chiesa purificata da ogni macchia di peccato.

Riconoscersi per quel che siamo.
13. [v 10.] Ma da dove appare l'umiltà dell'issopo?
Ascolta le parole che seguono:
Darai al mio udito esultanza e letizia, ed esulteranno le ossa umiliate.
Dice: Darai al mio udito esultanza e letizia;
godrò udendoti, non parlando contro di te.
Hai peccato, perché ti difendi? 
Vuoi parlare:
sopporta,
ascolta,
cedi alle divine parole,
se non vuoi essere turbato e non vuoi esser ferito maggiormente;
il peccato è stato commesso, 
non difenderlo,
sia espresso nella confessione,
non nella difesa.
Se ti fai difensore del tuo peccato,
sei vinto;
non è innocente il tuo patrono,
non ti è utile la tua difesa.
Chi sei tu per poterti difendere?
Tu sei capace soltanto ad accusarti.
Non dire:
non ho fatto niente,
oppure:
che cosa di grande ho fatto?
oppure ancora:
ma anche altri lo hanno fatto.
Se, commettendo il peccato,
dici di non aver fatto niente,
non sarai niente, e niente riceverai;
Dio è pronto a darti indulgenza,
ma tu chiudi la porta contro di te;
egli è pronto a dare,
non opporgli l'ostacolo della difesa,
ma apri il seno della confessione.
Darai al mio udito esultanza e letizia. 
Mi dia egli stesso i mezzi per dire ciò che sento.
Sono più felici coloro che ascoltano di coloro che parlano.
Infatti chi apprende, è umile;
chi invece insegna, si affatica per non essere superbo,
per evitare che si insinui il sentimento malvagio di piacere;
si sforza di non dispiacere a Dio
mentre vuole piacere agli uomini.
Grande è il tremito che è nell'insegnante, fratelli miei,
grande è il tremito nostro in queste nostre parole.
Date credito al nostro cuore per ciò che di noi non potete vedere;
sia mite con noi,
sia benigno con noi
colui che sa con quanto grande timore io vi parlo.
Ma quando sentiamo che egli stesso ci suggerisce e
ci insegna nell'intimo qualcosa,
siamo sicuri,
e tranquilli gioiamo;
siamo infatti sotto il maestro,
cerchiamo la gloria di lui,
lodiamo lui che insegna;
la sua verità ci rallegra nell'intimo,
ove nessuno fa o ode strepito;
ivi questi ha detto essere la sua letizia e la sua esultanza.
Dice: Porgerai al mio udito l'esultanza e la letizia.
E proprio perché è umile ode.
Colui che ode, che veramente ode e ode bene,
ascolta umilmente;
perché la gloria risiede in colui dal quale ascolta ciò che ascolta.
Dopo aver detto:
Porgerai al mio udito l'esultanza e la letizia;
subito manifesta che cosa produce tale ascolto;
esulteranno le ossa umiliate.
Sono umiliate le ossa:
le ossa di colui che ascolta non hanno fasto,
non hanno quell'orgoglio che a fatica può vincere colui che parla.
Per questo quel grande umile, di cui nessun nato di donna fu più grande  (Mt 11, 11),
colui che tanto si umiliò da dirsi indegno di sciogliere i lacci dei calzari del suo Signore (Mc 1, 7.), quel Giovanni Battista che dava gloria al suo Maestro e perciò al suo amico,
mentre era ritenuto Cristo e poteva perciò insuperbirsi e inorgoglirsi di ciò
(non certo lui aveva detto di essere Cristo;
ma avrebbe potuto accettare l'errore degli uomini che così credevano,
e volevano attribuirgli tale onore  (Lc 3, 15.);
ma respinse il falso onore per trovare la vera gloria;
ebbene: guarda l'umiltà di colui che ascolta),
 dunque egli dice: 
Chi ha la sposa, è lo sposo; ma l'amico dello sposo sta in piedi e lo ascolta.
Si fa colui che sta in piedi e ascolta,
non colui che cade e parla.
Dice: Sta in piedi e lo ascolta.
Avete udito dell'ascolto;
ma dove sono l'esultanza e la letizia?
Aggiunge subito dopo:
sta in piedi e lo ascolta, e gode e si rallegra per la voce dello sposo (Gv 3, 29.) Darai al mio udito esultanza e letizia, ed esulteranno le ossa umiliate. 

giovedì 18 luglio 2013

valorizzando ogni istante mediante il compimento della volontà del Padre, sapendo che ogni istante della vita terrena passa e non torna, ma non passa l’impronta d’amore che uno riesce a imprimervi.

Continuando nella lettura del brano proposto (Mt 11,28-30)oggi dalla liturgia eucaristica troviamo numerosi insegnamenti che vengono sotto esplicitati da don Vincenzo Cuffaro nel suo puntuale commento.
Il testo si apre con un invito: “Venite a me” (Mt 11,28). Questa esortazione iniziale sembra contrastare con la logica dell’Incarnazione, nella quale è il Verbo che è venuto fino a noi, fin dentro la nostra natura; questo fatto, però, ci permette di cogliere un altro aspetto della verità dell’Incarnazione: con la sua venuta sulla terra, Cristo non ha colmato totalmente lo spazio che ci separava da Lui. L’esortazione “Venite a me”, implica necessariamente che vi è ancora un tratto di strada per arrivare fino a Lui, e che esso deve essere percorso singolarmente da ciascuno che davvero desideri incontrarlo...
Il fatto che Cristo rivolga il suo invito a coloro che sono affaticati e oppressi
esprime l’idea che
non tutti gli uomini sono capaci di attendersi qualcosa da Lui.
In particolare, quelli che non ritengono di essere bisognosi di guarigione e di liberazione, che pensano di non essere affaticati e oppressi – perché spesso sono proprio loro che affaticano e opprimono -, tutti coloro che pensano di essere così bravi da potersela cavare da soli, non possono entrare in questa categoria dell’invito di Gesù.
A essi la Parola di Dio potrebbe non dire nulla.
Vi sono taluni che vivono in una completa autosufficienza e non capiscono quale necessità l’uomo abbia di un redentore.
Essi negano il Cristo, perché negano che l’uomo ne abbia bisogno.
L’Apostolo Giovanni spiega questo fenomeno come il risultato dell’operazione dello  spirito dell’anticristo, che nega appunto il Cristo venuto nella carne (cfr. 2 Gv 7-6). La convinzione suscitata dallo spirito dell’anticristo
si basa sul dogma che
la natura umana possa farcela da sola
a trovare la risposta alle proprie domande e
a giungere al massimo livello di pace e di benessere.
E tutto ciò senza Cristo, ritenendo che essa abbia in sé tutte le energie di salvezza.
Si tratta, com’è ovvio, di concezioni panteiste, del tutto estranee alla vera natura del vangelo.
Il versetto successivo esprime una condizione ben precisa come fondamento della pace offerta da Gesù, che non è una pace costruita dal basso, come quella proposta dal panteismo, ma è la riconciliazione con Dio verificatasi una volta per tutte sulla croce.
L’invito è accompagnato perciò da una richiesta:
“Prendete il mio giogo sopra di voi” (Mt 11,29).
Occorre notare come Cristo dica: “il mio giogo”, 
e non parli di un giogo qualunque,
e neppure, come taluni pensano,
di un giogo posto arbitrariamente da Dio sulle nostre spalle,
come se la nostra sofferenza fosse dettata da una mancanza di criterio,
o come se addirittura Dio se ne compiacesse.
Il giogo, a cui il Maestro si riferisce,
non è quello che Dio pone su di noi,
ma quello che Egli ha preso su se stesso.
Sono quindi in errore quelli che ritengono che il concetto cristiano di sofferenza
consista nell’accogliere il peso che Dio mette sulle nostre spalle.
Piuttosto:
Noi siamo invitati ad accogliere quello stesso giogo che Cristo ha preso già, divenendo, in un certo senso, compartecipi della sua missione di Redentore. 
L’esortazione prosegue:
“E imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29):
essere miti e umili di cuore non è tanto un problema caratteriale,
non è una questione di atteggiamento remissivo,
in contrasto con chi suole ribellarsi per ogni cosa,
ma significa semplicemente sottomettersi con fiducia al divino progetto,
come i bambini,
senza sottoporlo al tribunale della ragione.
Il giogo di Cristo è la sua sottomissione al Padre,
è il suo vivere la vita quotidiana
valorizzando ogni istante mediante il compimento della volontà del Padre,
sapendo che ogni istante della vita terrena passa e non torna,
ma non passa l’impronta d’amore che uno riesce a imprimervi.
Ogni atto d’amore si ritrova nell’eternità,
anche se passa irreversibilmente il tempo fuggevole in cui è stato compiuto.
Prendere il giogo di Cristo significa quindi entrare nella sua sottomissione al Padre e con la sua stessa fiducia filiale dare un valore eterno a ogni istante del tempo che trascorre, riempiendolo d’amore.
La promessa, infine, è questa: “E troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,29),
perché fare la volontà di Dio è dolce, anche se sembra ardua a chi la osserva prima di compierla.
Ma non c’è altra possibilità di trovare ristoro.
Anzi, il vero dolore radicale e inconsolabile 
è proprio 
la disarmonia tra la nostra vita quotidiana e la volontà del Padre, 
perché inchioda l’uomo in una tremenda orfananza.
Il giogo di Cristo, guardato da lontano fa paura,
ma assunto su di noi, e portato con Lui nella fede e nella pietà filiale,
diventa misteriosamente una sorgente inesauribile di consolazione:
“Il mio giogo infatti è dolce, il mio carico leggero” (Mt 11,30).
Ancora una volta, Cristo insiste sugli aggettivi possessivi “il mio giogo, il mio carico”,
il Padre non impone su noi la sofferenza in modo arbitrario,
ci invita piuttosto a
camminare insieme a Cristo sulla stessa strada
che Lui ha scelto di percorrere come uomo.
E’ l’unica dove non si inciampa.

mercoledì 17 luglio 2013

Anzi, per essere più esatti, è lo Spirito che prega in noi

Nel vangelo di oggi (Mt 11,25-27) troviamo la frase riportata che da origine al bel commento di Don Vincenzo Cuffaro sulla preghiera

L’evangelista Matteo introduce tale preghiera di lode con le seguenti parole:
“In  quel tempo, Gesù disse” (Mt 11,25).
Nel passo parallelo di Luca si ha, però, un’introduzione abbastanza diversa e, diciamo, teologicamente più pregnante:
“In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse” (Lc 10,21).
Questa seconda introduzione sottolinea
come la preghiera non possa nascere,
se non dall’azione dello Spirito Santo.
Anzi, per essere più esatti, è lo Spirito che prega in noi.
Anche la preghiera personale di Gesù, in quanto uomo,
è una preghiera suscitata dallo Spirito Santo
che dimora in Lui in assoluta pienezza.
Esso si effonderà sulla Chiesa,
quando il corpo umano di Cristo sarà distrutto nella morte;
da quel momento in poi anche il nostro corpo acquista la straordinaria dignità 
di essere abitato dallo Spirito di Dio.
Tale inabitazione dello Spirito nel nostro corpo, 
ci guida nelle scelte e 
ci dà l’esperienza beatificante dell’esultanza e della lode.
I servi di Dio hanno sempre un animo pieno di gioia e di pace,
anche nelle prove,
perché l’esultanza dello Spirito è perennemente in loro.
La preghiera sgorga dalla pace interiore, cioè dall’esychia1, e dall’assenza di sentimenti negativi e oscuri.
Il contenuto della preghiera di lode di Gesù, ci suggerisce un’altra riflessione.
Il Cristo storico, che come pio israelita si mette in relazione con Dio,
non esaurisce il suo dialogo col Padre nell’atto del chiedere.
La preghiera non può essere fatta solo di domande.
I sentimenti filiali, che devono caratterizzare la preghiera del cristiano,
spingono la persona a porre
la gratuità
al di sopra delle aspettative,
e la lode
al di sopra della domanda.
Ciò però non significa che Cristo non chieda.
Il vangelo di Giovanni riporta un episodio in cui Gesù chiede qualcosa al Padre: la risurrezione di Lazzaro (cfr. Gv 11,41).
Ma il fatto che il vangelo - e precisamente nel brano odierno - riporti anche una preghiera
in cui Gesù non chiede nulla al Padre,
ma semplicemente lo loda,
significa che
la preghiera cristiana deve imparare innanzitutto la gratuità, che è più nobile della domanda.
In altre parole:
non è solo il bisogno che deve spingerci ad entrare in contatto con Dio,
perché l’amore non deve avere nessuna ragione o scopo, all’infuori di se stesso.
Nella lode non si chiede nulla, ma semplicemente
si riconosce la grandezza di Dio e la meraviglia dei suoi decreti,
guardandoli con gli occhi stupiti dell’innamorato.
...Tutto dipende da ciò che guardano i nostri occhi.
Il nostro animo si riempie di luce, o di tenebre,
proprio in base a ciò che noi liberamente scegliamo come abituale oggetto
per fissarvi gli occhi della nostra mente.

martedì 16 luglio 2013

Soltanto sulle strade del mondo lo puoi cercare - lo puoi incontrare...

E se tu vuoi incontrare Dio devi uscire dalla tua casa. Metterti in viaggio. Migrare. Soltanto sulle strade del mondo lo puoi cercare - lo puoi incontrare...

Ricorda Abramo. Già vecchio, uscì da Carran, movendo i passi verso una terra che non conosceva. Si mise in viaggio per andare verso se stesso. E visse da straniero, sotto le tende, fino all’ultimo dei suoi giorni.

Ricorda Mosè. In fuga nel deserto, dopo aver ucciso un sorvegliante egiziano. Ma che ritornò sui suoi passi, per condurre un intero popolo verso la liberazione. Egli voleva vedere Dio, ma ebbe in dono solo l’esile traccia delle orme sulla sabbia, presto polite dal soffio del vento.

Ricorda Elia. Impaurito, si alzò e se n’andò per salvarsi. Camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?».

Ricorda l’Arca. Un segno della presenza di Dio - posta nel tempio, all’interno di una tenda, ma sempre pronta per essere trasportata altrove.

Ricorda l’esilio. Quando i figli d’Israele furono condotti sui fiumi di Babilonia. E Dio era già con loro. Di qualche passo un po’ più avanti nel loro triste cammino.

Ricorda la mangiatoia. Dio è nato lontano da una casa. E già nei suoi primi giorni è costretto alla fuga, all’esilio in una terra straniera.

Ricorda le volpi. Hanno le loro tane. E gli uccelli del cielo hanno i loro nidi. Ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo. Poiché Dio è il costante migrante.

Ricorda il samaritano. Era in viaggio ed incontrò il viandante incappato nei briganti. Il figlio che vuole la sua parte - lascia la casa e va per il mondo. Il buon pastore in cerca della pecora smarrita…

Ricorda le strade. Le polverose strade di Palestina. Percorse per tre anni dal Figlio dell’uomo. In riva al lago o sulla cima del monte, alla festa di nozze e sul bordo del pozzo di Giacobbe, nella Decapoli e verso Tiro e Sidone, alla Piscina di Betzaeta - a Gerusalemme, per la festa della pasqua. E poi ancora in cammino, verso il villaggio d’Emmaus, precedendoli nelle contrade di Galilea…

E se tu vuoi incontrare Dio devi uscire dalla tua casa. Metterti in viaggio. Migrare. Soltanto sulle strade del mondo lo puoi cercare - lo puoi incontrare. Nel farti viandante con l’eterno Viandante.

Fausto Ferrari

lunedì 15 luglio 2013

Solo nei tempi di grande crisi si fa palese la segreta lacerazione di un popolo

Il salmista descrive Israele, lacerato in due:
di qua gli oppressori, di là gli oppressi; 
di qua coloro che s’innalzano, di là gli umilati. 
I primi dicono in cuor loro: “Non c’è Dio!”. 
Non lo dicono a voce alta, 
l’affermazione non sale dal cuore alle labbra, 
con le labbra professano di credere in lui. 
A dire il vero, neanche in cuor loro intendono negarne l’esistenza: 
è anche possibile che esista, un Dio, perché no? 
Ma di certo non si cura di quel che fanno gli uomini sulla terra! 
La realtà, però, è che Dio scruta ciò che fanno le sue creature. 
Vede come gli uomini “divorano” gli uomini; 
e (secondo l’interpretazione più immediata della lectio difficilior del versetto 4), 
a differenza dell’animale sacrificale definito “pane di Dio” (cf Lv 21,6), 
questo non è un cibo su cui si possa invocare il Nome di Dio. 
Il salmista contempla allora in visione profetica ciò che accadrà: 
ecco, di nuovo i corrotti si gettano sulla loro preda, 
ma là sono atterriti insieme da spavento, uno spavento 
– così è scritto nella lezione più prolissa del Salmo 53 – 
come non vi è mai stato: 
là, in mezzo a coloro che essi credevano in balia del loro arbitrio, 
appare la Presenza di Dio, 
di quel Dio che essi credevano non si curasse delle faccende umane 
e invece è il rifugio degli oppressi. 
E la sentenza di Dio tuona contro di loro. [...] 
Un interprete più tardo dei Salmi quale io sono, non può, come il salmista, 
appagarsi di una mera bipartizione di Israele o del mondo degli uomini. 
La lacerazione fra chi fa violenza e chi la subisce, 
fra l’elemento fedele e quello ribelle, 
egli la vede correre non solo attraverso ciascun popolo, 
ma attraverso ciascun gruppo di un popolo, anzi: 
ciascuna anima. 
Solo nei tempi di grande crisi si fa palese la segreta lacerazione di un popolo. 
(Martin Buber, Il cammino del giusto).

domenica 14 luglio 2013

E racconta una parabola da anticlericale. A volte mi viene fatto di pensare che se noi non conoscessimo da piccoli questa parabola, se nessuno ci avesse detto che è di Gesù e che è scritta nei vangeli, quelli canonici, qualcuno di noi griderebbe, ascoltandola, all'anticlericalismo.


Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella 15ª Domenica del Tempo Ordinario
secondo il rito romano
Dt 30, 10-14 
Sal 18
Col 1, 15-20 
Lc 10, 25-37

Potremmo leggere l'episodio del Vangelo che ci racconta 
l dialogo tra Gesù e il dottore della legge e 
la conseguente parabola del buon samaritano 
svestendoli della forza di provocazione 
che li contrassegna, snervandoli da ogni vis polemica; 
ma snatureremmo il racconto e la parabola.

L'episodio nasce in un contesto di parole
il dottore della legge -il "teologo" diremmo noi oggi- 
ha di mira il mondo delle parole, 
e lasciandosi sedurre dal mondo delle parole, 
non può non arrivare al dibattito teologico, 
alle disquisizioni dottrinali, 
al tranello delle parole:
"trarre in inganno", "giustificarsi": è scritto.

Le domande possono essere anche legittime, 
giuste possono essere anche le risposte 
-come nel nostro caso- 
ma il problema non è nelle parole.

"Hai risposto bene" dice Gesù al "teologo" 
che ha citato alla perfezione la Bibbia: Deuteronomio e Levitico insieme.

"Hai risposto bene; fa' questo e vivrai". 
Non bastano le risposte teologiche, fa' questo.

E ancora alla fine, a conclusione della parabola: 
hai detto bene che prossimo è stato colui che ha avuto compassione, 
"va' e anche tu fa' lo stesso".

È come se Gesù polemicamente richiamasse 
gli uomini delle parole, delle parole "teologiche", 
alla concretezza dell'agire. 
Anche tu fa' questo.

Ma il "teologo" - l'uomo delle parole - si trova a disagio 
davanti a un Maestro, che parla il linguaggio della semplicità.

In un mondo come il suo, 
dove più si parla complicato, 
più si ha l'aria di essere superdotati e intelligenti, uno che ti dice: 
"Ama Dio, amalo con tutte le tue forze, con tutta la tua anima e ama il prossimo come te stesso",
sembra dire cose ovvie, cose da poco
E allora vediamo di innescare una dissertazione teologica sul concetto di prossimo: 
"Chi è il mio prossimo?".

E Gesù raccontando la parabola del samaritano sembra dire: 
...ma, ragazzi. guardate la vita e capirete
Ve lo farà capire la vita il problema del prossimo.

E racconta una parabola da anticlericale.
A volte mi viene fatto di pensare che se noi non conoscessimo da piccoli questa parabola, se nessuno ci avesse detto che è di Gesù e che è scritta nei vangeli, quelli canonici, qualcuno di noi griderebbe, ascoltandola, all'anticlericalismo.

Diremmo: 
"Ecco il solito anticlericale. Deve parlare male dei sacerdoti, deve parlare male dei leviti, deve parlare bene del lontano, poco ortodosso o niente ortodosso, del samaritano".
Ma la parabola è di Gesù
Sì, è di Gesù.

Che cosa fa la differenza tra sacerdote e levita da una parte e il samaritano dall'altra? 
Non la fa, secondo Gesù, la lettura dei libri religiosi -non dico che non sia importante- e nemmeno l'aggiornamento sulla realtà, perché la realtà di un uomo ferito, spogliato, mezzo morto, nel nostro caso, è sotto gli occhi di tutti: sacerdote, levita, samaritano.

Che cosa fa la differenza? 
Il testo lo dice: 
"Lo vide e girò dall'altra parte": è detto del sacerdote. 
"Lo vide e girò dall'altra parte": è detto del levita.
"Lo vide e ne ebbe compassione": è detto del samaritano.

C'è uno scarto, come un salto nel racconto ed è in questo "ne ebbe compassione", che è un verbo -scusate la parola- un verbo "viscerale". Sì, nel significato greco è un verbo che riguarda le viscere: o le hai o non le hai. "È un fatto di viscere" sembra dire Gesù.

E cioè la mia parabola viene a svelare, a sottolineare una dimensione, 
quella della "compassione" che è scritta nel più profondo delle vostre viscere, del cuore.

Ascolta le viscere, ascolta il cuore, ascolta la compassione.

Oggi ci si incanta davanti alla "saggezza della compassione" predicata dal Buddismo. 
Non sarà anche perché si è sorvolato sull'invito alla compassione di cui è segnato tutto il Vangelo? "Ebbe compassione": dice Gesù.

Ascolta le viscere, ascolta il cuore, il comando è scritto dentro di te, non è un comando lontano.

Quando Mosè nella grande omelia della steppa parlava a nome di Dio, diceva: 
"Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te".

Anzi questa parola -anche la parola "compassione", aggiungiamo noi- 
questa parola 
è molto vicina a te, 
è nella tua bocca, 
è nel tuo cuore, 
perché tu la metta in pratica.

Patente della vicinanza al regno, secondo la parabola, non è la frequentazione del tempio: 
chi più frequentatore del tempio del sacerdote e del levita che vedono e passano oltre?

Si può essere invece eterodossi, irregolari - tali erano considerati i samaritani - ed essere vicini al regno.

I veri vicini, secondo Martin Luther King, non sono quelli che pensano: 
"che ne sarà di me, se mi fermo?", 
ma coloro che pensano: 
"che ne sarà di lui, se non mi fermo?".