sabato 26 aprile 2014

La debolezza che li aveva portati in un primo tempo a dubitare e a rifiutare la testimonianza oculare dei loro fratelli, li metterà ora in grado di capire i dubbi e le incertezze di coloro a cui rivolgeranno l’annunzio della salvezza.


Il testo del vangelo racconta le testimonianze, interne alla comunità cristiana, di coloro che hanno visto per primi il Risorto, prima che Egli apparisse a tutti. Le apparizioni di cui si parla nel vangelo odierno sono quelle a Maria di Magdala, a due discepoli sulla via di Emmaus – a cui abbiamo già fatto riferimento - e infine agli undici. C’è un denominatore comune sotteso a queste prime testimonianze date al Risorto, ed è l’incredulità di coloro che ne sono i destinatari. Quando Maria Maddalena incontra il Risorto si dice che “Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere” (vv. 10-11); così avviene anche ai due discepoli che incontrano il Risorto: quando lo dicono agli altri la loro reazione è la stessa: “anche a loro non vollero credere” (v. 13); infine, Cristo apparve agli undici mentre stavano a mensa, “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore” (v. 14). Questa incredulità, di coloro che sono destinatari di una testimonianza, sfocia in un mandato che Cristo affida proprio a loro e che si esprime così: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (v. 15). In sostanza, Cristo affida la testimonianza della sua risurrezione proprio a quei discepoli che non avevano creduto a questo stesso annuncio, quando era stato rivolto a loro. Infatti, la scelta e il mandato di Cristo non avviene in forza di un’umana disposizione positiva, di un merito umano, o di un qualcosa che rende idonei per natura a servire Dio; proprio quelli che si sono manifestati increduli, e perciò umanamente meno idonei, vengono scelti da Cristo, corroborati però dalla sua virtù con lo Spirito Santo e mandati ad annunciare agli altri quella stessa verità che essi non avevano creduto. La debolezza che li aveva portati in un primo tempo a dubitare e a rifiutare la testimonianza oculare dei loro fratelli, li metterà ora in grado di capire i dubbi e le incertezze di coloro a cui rivolgeranno l’annunzio della salvezza. Inoltre, capiranno anche che per il Cristo risorto la debolezza umana non ha nessun peso, quando è accompagnata dalla buona volontà, perché Lui stesso infonde la virtù per essere testimoni credibili. 
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 25 aprile 2014

La Parola del vangelo certamente deve essere annunciata da coloro che vengono chiamati da Dio a compiere quest’opera, tuttavia la sua diffusione nel mondo non dipende solamente dalla predicazione.


Il testo degli Atti vuole sottolineare un aspetto particolare della predicazione apostolica: la parola del vangelo, e la sua forza di trasformazione del mondo, è inarrestabile, e non dipende totalmente dal ministero apostolico. Infatti, è molto significativo come Luca, autore degli Atti, evidenzi intanto il fatto che gli Apostoli Pietro e Giovanni sono stati arrestati, condotti in prigione e resi innocui, impossibilitati perciò ad annunciare il vangelo; nella riga successiva, poi, ci viene detto che credettero in numero di cinquemila, ingrandendo così a dismisura la comunità cristiana. In concomitanza con la prigionia di Pietro e di Giovanni, la Parola di Dio si estende e viene accolta da una moltitudine: e ciò nello stesso giorno in cui vengono arrestati. La coincidenza è troppo precisa per essere casuale. La Parola del vangelo certamente deve essere annunciata da coloro che vengono chiamati da Dio a compiere quest’opera, tuttavia la sua diffusione nel mondo non dipende solamente dalla predicazione. La diffusione del vangelo dipende anche dalla persecuzione subita e dalla sofferenza offerta a Dio da parte dei suoi servi. Più volte Luca negli Atti sottolineerà questa verità: la Parola del vangelo si diffonde nel mondo per la predicazione, ma attinge la sua energia per continuare la sua corsa anche dalla sofferenza della Chiesa, tanto è vero che, tutte le volte che gli Apostoli vengono colpiti o imprigionati, si estende a macchia d’olio la fede in Gesù Cristo; allo stesso modo, la conversione dell’Apostolo Paolo avviene in concomitanza con la morte di Stefano, primo martire della cristianità. Tutte le volte che la Chiesa è colpita, tutte le volte che un Apostolo è soppresso, tutte le volte che un cristiano è visitato dalla sofferenza, la Parola di Dio esplode in tutta la sua potenza e si estende nel mondo, portando frutti in grandissima quantità. 
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 24 aprile 2014

Il vangelo migliora la vita dell’uomo, laddove viene annunciato; e se questo non succede c’è di sicuro qualcosa che non va. Questo qualcosa che non va, e che non permette al vangelo di produrre i suoi effetti benefici, di solito, è la mancanza di fede.


Le due letture della liturgia della Parola di oggi sono la prosecuzione dei due brani di ieri, quello degli Atti degli Apostoli e quello del vangelo di Luca, ossia il resoconto di ciò che accade dopo la guarigione dello storpio e gli eventi successivi all’incontro dei due discepoli di Emmaus con il Cristo risorto. Nei versetti chiave di questi testi troviamo ancora delle verità che rappresentano, per la vita della Chiesa e per la vita cristiana, dei punti di riferimento obbligatori.
Innanzitutto, il testo degli Atti, presentando l’incontro tra Pietro e il paralitico, attribuisce all’azione del ministero apostolico - che prolunga nella storia lo stesso ministero di Gesù - la guarigione di quest’uomo infermo. 
Tale guarigione riveste diversi significati: 
rappresenta in primo luogo una conferma della Parola del vangelo attraverso il segno operato dagli Apostoli; infatti, questo storpio guarisce, come Pietro sottolinea, mediante la fede da lui riposta in Gesù Cristo. Quindi la guarigione dello storpio contiene qualcosa di più che non semplicemente un beneficio arrecato a un uomo bisognoso. 
E’ un segnale: il vangelo, tutte le volte che viene predicato autenticamente, viene anche confermato dai segni che l’accompagnano. 
Il primo e più fondamentale segno è che il vangelo, laddove viene accolto con fede, migliora la vita dell’uomo. La paralisi del personaggio dello storpio rappresenta una forma di diminuzione della pienezza della vita: l’incapacità di movimento indica la privazione della libertà. L’incontro con Pietro restituisce a quest’uomo la piena libertà di movimento; in altre parole, gli permette di recuperare la sua dignità di uomo libero. La libertà di movimento è simbolo del recupero della dignità della persona. 
Il vangelo migliora la vita dell’uomo, laddove viene annunciato; e se questo non succede c’è di sicuro qualcosa che non va. Questo qualcosa che non va, e che non permette al vangelo di produrre i suoi effetti benefici, di solito, è la mancanza di fede
Le parole di Pietro su questo punto sono molto chiare: 
da un lato, rivolgendosi all’assemblea riunita presso il portico di Salomone, e a coloro che lo guardano meravigliati a motivo della guarigione dello storpio, egli dice così: “Uomini di Israele, perché vi meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e nostra pietà avessimo fatto camminare quest’uomo?” (v. 12). Come se per nostro potere e nostra pietà! La parola “pietà” indica qui l’atteggiamento religioso di sottomissione a Dio; 
l’Apostolo Pietro non attribuisce alla propria fede, alla propria pietà e alla propria sottomissione alla volontà di Dio la forza di guarigione che ha confermato la verità della Parola del vangelo, bensì alla fede dell’uomo che è stato guarito. Dopo avere annunciato la risurrezione di Cristo, di cui essi sono testimoni oculari, aggiunge: “Proprio per la fede riposta in Lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi” (v. 16). 
Se l’Apostolo ha già negato che tutto questo potesse avvenire per la sua personale pietà, è chiaro che la fede che ha guarito lo storpio non può essere che la fede soggettiva di colui che è stato guarito. In altre parole, il ministero dell’Apostolo Pietro prende vita, con tutta la sua potenza di guarigione, come segno dell’opera di Cristo vivo e presente, quando si incontra con la fede della comunità cristiana
Questo particolare è di grande importanza, perché in esso si cela una verità perenne della vita della Chiesa: d’ora in poi Cristo si rende presente nei segni della Parola, dei sacramenti e del ministero apostolico. Il ministero apostolico può essere vissuto ed esercitato con grande fede dagli stessi pastori della Chiesa, ma questo non basterebbe ancora a santificare il popolo; il ministero apostolico, infatti, prende vita quando si incontra con la fede del popolo
E’ la fede della Chiesa il luogo in cui il Cristo risorto agisce mediante i suoi segni efficaci; 
se, da un lato, Pietro non attribuisce alla propria fede il ministero di guarigione che ha operato questo miracolo, 
dall’altro lato, la fede dei destinatari appare come la base necessaria e indispensabile perché tale ministero possa portare frutti di guarigione e di santità. 
Non è un caso che per ben due volte Pietro faccia riferimento alla fede, non propria, ma dell’uomo che è stato guarito. Questa ripetizione fa capire come sia indispensabile l’incontro del ministero apostolico con la fede del popolo cristiano: “Proprio per la fede riposta in Lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo”; e subito dopo: “la fede in Lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi”. 
Il ministero apostolico prende dunque vita nella fede della Chiesa e i segni del Risorto si manifestano laddove c’è una fede viva. 

mercoledì 23 aprile 2014

Di solito, si chiede tutt’altro, si chiede un quintale di cose secondarie.


La liturgia odierna pone in parallelo i discepoli di Emmaus, che incontrando il Risorto guariscono dalla loro incredulità, e lo storpio del Tempio, che incontrando gli Apostoli guarisce dalla sua paralisi. Si tratta di due guarigioni che alludono alla vita piena che Dio offre in Cristo all’uomo di ogni luogo e di ogni tempo.
Lo storpio della Porta Bella è una figura ricca di significati relativi alla vita cristiana. I versetti chiave della pericope sono di grande valore per le allusioni a cui rimandano. La descrizione dell’incontro tra lo storpio e gli Apostoli colpisce il lettore per il fatto che il mendicante chiede molto meno di quanto gli Apostoli gli possano dare. Ricorda quel contadino di una storia che ho udito qualche tempo fa, il quale ebbe il privilegio raro, peraltro atteso a lungo, di essere ricevuto in udienza dal suo re. E cosa gli chiese, quando fu davanti al trono? Un quintale di letame per i suoi campi. Anche lo storpio della Porta Bella sembra un contadino alla corte di un re: potendo chiedere grandi ricchezze, si limita a chiedere solo del letame: “Vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel Tempio, domandò loro l’elemosina” (v. 3). Pietro gli risponde immediatamente, dandogli il bene prezioso della salute, che lo storpio non si attendeva, attendendosi invece pochi spiccioli: “Non posseggo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (v. 6). Dietro l’immagine di questo storpio è possibile intravedere l’interiore paralisi di coloro i quali, al loro parroco, chiedono solo certificati e timbri, oppure messe di suffragio e sacramenti vari. Ma la cosa più importante, quella per la quale i sacerdoti esistono, non viene chiesta; pochi vanno dal loro parroco a dire: “Mostrami la via che Dio ha stabilito per me, aiutami a scoprirla e a percorrerla”. Di solito, si chiede tutt’altro, si chiede un quintale di cose secondarie. 
Don Vincenzo Cuffaro

martedì 22 aprile 2014

Tale forza operante nella parola di Pietro è determinata dal fatto che egli annuncia con fedeltà e con precisione quello che riguarda Gesù Cristo, senza perdersi in argomenti buoni ma collaterali o in moralismi senza consistenza.


Nel brano degli Atti è la figura di Pietro l’immagine corporativa che personifica l’azione della Chiesa come prolungamento dell’opera del Messia. In questa figura rappresentativa cogliamo innanzitutto la necessità del ministero della Parola, che è fondamentale per la vita della Chiesa. Il modo ordinario con cui la Chiesa prolunga nel tempo l’azione salvifica di Cristo è l’annuncio del vangelo. Tutte le altre azioni pastorali arrivano dopo e acquistano senso e validità in forza dell’evangelizzazione; tolta l’evangelizzazione, la vita cristiana si muterebbe in un cumulo di consuetudini e di riti di tipo meccanico. Infatti, non a caso il testo odierno comincia con un annuncio e si conclude con il battesimo, non il contrario: Pietro non inizia battezzando per poi concludere evangelizzando. Non c’è dubbio che la posizione degli elementi abbia un valore pastorale di estremo significato per l’azione della Chiesa. Ci chiediamo perciò: in che modo l’evangelizzazione viene presentata nel brano odierno? Rispondiamo così: l’evangelizzazione è presentata qui come un servizio alla Parola, compiuto nella più totale fedeltà a Cristo crocifisso e risorto. Il discorso di Pietro non si perde in una serie di osservazioni moraleggianti o esortative ma va direttamente al centro della fede cristiana: “Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” (v. 36). E poco più avanti: “All’udire tutto questo si sentirono trafiggere il cuore” (v. 37). La Parola annunciata da Pietro ha dunque una particolare forza di penetrare le coscienze come una spada che trafigge. Tale forza operante nella parola di Pietro è determinata dal fatto che egli annuncia con fedeltà e con precisione quello che riguarda Gesù Cristo, senza perdersi in argomenti buoni ma collaterali o in moralismi senza consistenza. 
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 21 aprile 2014

Comprendiamo da questa figura come siano incompatibili stati d’animo quali la timidezza, la paura, il senso di inutilità e di insufficienza, con una vita vissuta nella pienezza dello Spirito, che infatti non è Spirito di timidezza ma di forza.


Il testo odierno della prima lettura presenta la figura di Pietro immediatamente dopo l’effusione dello Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste, e descrive al contempo quali debbano essere le caratteristiche fondamentali della maturità della comunità cristiana. La figura di Pietro è infatti l’immagine del cristiano che ha raggiunto la pienezza dello Spirito: “Pietro, levatosi in piedi, parlò a voce alta” (v. 14). A differenza del passato, e specialmente durante gli eventi della Passione, quando lo stesso Pietro aveva cercato di nascondersi e aveva sperimentato la paura e il rinnegamento del Maestro, ora, dinanzi a un’assemblea radunata, è capace di esprimersi con la chiarezza e con la fermezza tipiche dell’uomo corroborato dallo Spirito. Comprendiamo da questa figura come siano incompatibili stati d’animo quali la timidezza, la paura, il senso di inutilità e di insufficienza, con una vita vissuta nella pienezza dello Spirito, che infatti non è Spirito di timidezza ma di forza. La paura è il fenomeno interiore che indica il grado di immaturità cristiana. Il cristiano maturo sa di avere dinanzi a sé la verità di Cristo, di cui essere testimone, e di tutto il resto non si cura; perfino della propria stessa vita il cristiano maturo si cura poco, essendo uno che ha rinunciato a se stesso. L’Apostolo Paolo, prima di partire da Efeso, conoscendo per via di cognizione profetica che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio, si rivolge agli anziani di Efeso dicendo: “Io non reputo la mia vita meritevole di nulla” (At 20,24). Il totale decentramento della propria personalità è la tappa più fondamentale della maturazione cristiana. Un eccessivo riferimento a se stessi e un’eccessiva preoccupazione per la propria vita sono segni inequivocabili che la maturità della fede è ancora lontana.
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 20 aprile 2014

“non avevano ancora compreso la Scrittura” (v. 9), il che sottolinea come non basti la constatazione della risurrezione di Gesù, senza la fede e l’intelligenza della parola di Dio


 La liturgia della messa del giorno è caratterizzata dal racconto evangelico della tomba vuota, secondo Giovanni (cfr. 20,1-9), a cui si affianca di regola il brano degli Atti (cfr. 10,34.37-43) in cui Pietro testimonia solennemente, in casa di Cornelio, che Cristo è risorto dai morti e che chiunque crede in Lui ottiene la remissione dei peccati. Alla messa vespertina può essere letto anche il vangelo dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-15). Anche la seconda lettura ammette una possibilità di scelta: o Col 3,1-4, dove l’Apostolo esorta i cristiani ad attaccare il cuore alle cose di lassù, essendo risorti con Cristo, e quindi fin da adesso cittadini del cielo; oppure 1 Cor 5,6-8, dove siamo invitati a celebrare la Pasqua con gli azzimi, cioè eliminando dal cuore il lievito di malizia e di perversità. La prima lettura e il vangelo sono accomunati dalla figura di Pietro col suo carattere di testimone oculare della risurrezione di Gesù. Nel brano evangelico di Giovanni, Pietro, dopo l’annuncio della Maddalena, corre fino al sepolcro, insieme a Giovanni, e trova la tomba vuota e il sudario ben piegato e messo da parte; sembra che Gesù si sia svegliato dalla morte con estrema naturalezza e, come se si alzasse dal letto, piega il lenzuolo che lo avvolgeva. In questo brano, Pietro e Giovanni si trovano per la prima volta dinanzi al fatto straordinario del ritorno dai morti del Maestro. L’evangelista annota che “non avevano ancora compreso la Scrittura” (v. 9), il che sottolinea come non basti la constatazione della risurrezione di Gesù, senza la fede e l’intelligenza della parola di Dio. Anche gli Apostoli hanno dunque percorso il loro itinerario di maturazione, fino a divenire testimoni accreditati della vittoria sulla morte, avvenuta in quella Pasqua memorabile. Alla Messa vespertina, se si sceglie di leggere il vangelo dei discepoli di Emmaus, il tema dell’itinerario di fede, necessario per giungere alla conoscenza del Risorto, viene concretizzato nel cammino verso Emmaus: è possibile perfino incontrare personalmente il Risorto senza riconoscerlo. Questa incapacità di riconoscere il Cristo, che si fa vicino a noi nei suoi segni, va attribuita ancora una volta a un rapporto sbagliato con le Scritture e a una comprensione insufficiente di esse: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!” (v. 25). L’incontro col Cristo risorto non si può insomma separare da un ingresso del cuore nella profondità delle Scritture.
Don Vincenzo Cuffaro