sabato 7 luglio 2012

l'esistenza verso i vent'anni diventa complicata


In questa fase di crisi e di fronte a un futuro diventato sempre più incerto i giovani, comprensibilmente, sono coloro che manifestano più paura. Così scrivo pensando a un ragazzo che si accinge o si è accinto pochi giorni fa a svolgere gli esami di maturità. 
          Per prima cosa ti raccomando di seguire con ragione quello che desideri. Ti diranno che servono ingegneri, ma se ti piace la letteratura, scegli pure la facoltà di lettere. Sappi però che in questo caso, ed è vero, farai più fatica a trovare un impiego. Ma è altrettanto vero che non è sicuro che diventando ingegnere sarai più felice, anche se avere uno stipendio a una certa età non è cosa da poco: basta pensare cosa significa non dipendere più economicamente dalla famiglia e alla possibilità di iniziare un proprio percorso di vita. Comunque i propri sogni non si possono barattare con nulla ed è triste vivere pensando che hai rinunciato a qualcosa d'importante. Se poi inizi un percorso universitario e gli esami non vanno bene, la resa all'evidenza non è mai un male, non è mai una sconfitta, sono indizi per capire cosa ci chiede la vita.
          Come vedi, l'esistenza verso i vent'anni diventa complicata. Ciò che si desidera comincia a non coincidere con ciò che la società, o meglio l'economia, richiede, e i tuoi genitori sono per la prima volta più attenti a un calcolo buono che al demone che pulsa in te. Quelli della mia generazione avevano un anno "rubato" dallo Stato: il servizio militare che spesso serviva ad allentare la morsa dei genitori sui figli. Per dodici mesi non eri nemmeno di te stesso, l'unico compito era quello di obbedire e non ti era dato di capire il perché.
          Eppure in quel periodo ci fu la svolta della mia vita: mi convinsi a iscrivermi all'università. Quell'esperienza, dove dovevo fare tutto senza un senso apparente, mi fece capire che le cose che ti accadono nella vita o le abbracci, o diventano motivo di una lotta continua senza alcuna possibilità di vittoria. Quel metodo l'ho applicato successivamente. Ho frequentato l'università dando il massimo a ogni esame, e non solo per ottenere un bel voto, ma perché non intendevo più subire lo studio. Volevo essere io a sfruttare "lui". Ne volevo diventare il protagonista e uscirne arricchito come conoscenza.
          Poi le cose sono andate sempre bene, anche con il lavoro. Ho fatto, come si suol dire, pure carriera. Sono stato fortunato: una buona salute e l'incontro molto casuale con alcuni grandi maestri, di vita e professionali. Così anche nel lavoro non ho mai pensato a quello che veniva dopo, ho vissuto con passione ogni opportunità che mi è stata offerta. L'evidenza che gli anni di studio non erano stati inutili è stata quella di aver imparato a dire sì a tutto quello che mi accadeva. Ebbene, con questo spirito scegli pure qualsiasi facoltà, purché si tratti di cose serie e non di percorsi di studio finti o senza contenuto. La realtà, vedrai, non ti tradirà mai, anche quando magari la avvertirai inizialmente come nemica. E se non avrai successo (non c'è niente di più effimero), non importa, sarai diventato un uomo.
Graziano Tarantini

venerdì 6 luglio 2012

noi non abbiamo più paura di nulla


"Se anche Dio non ci fosse, solo l’amore ha un senso, solo l’amore libera l’uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, solo l’amore fa respirare, crescere, fiorire; solo l’amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di chi ci colpisce, che noi rischiamo la vita per i nostri amici, che tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto speriamo ... Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Ed è allora che la nostra vita diventa bellezza, grazia, benedizione."    
Annalena Tonelli 

giovedì 5 luglio 2012

possiamo solo aiutarli a trovare il loro maestro interiore


Per dire: il sesso prima del matrimonio è un dato di fatto, "illusioni e divieti non portano a nulla". Non significa che il cardinale approvi. Però "nella Chiesa nessuno è nostro oggetto, un caso o un paziente da curare". Con sant' Agostino dice: "Ai giovani non possiamo insegnare nulla, possiamo solo aiutarli a trovare il loro maestro interiore". Si tratta di dare fiducia, "renderli indipendenti" ("anche i vescovi hanno bisogno di un interlocutore forte e consapevole") e accompagnarli nel loro sviluppo spirituale. Un bellissimo capitolo è dedicato agli esercizi spirituali di Sant' Ignazio di Loyola, "le guide sono amici nel senso evangelico: accompagnano, fanno domande, sostengono, ma non si mettono mai tra il singolo e Gesù, anzi promuovono questo dialogo". Martini offre risposte aperte e mette in gioco se stesso. Perché c' è il dolore? "Se osservo il male del mondo, esso mi toglie il respiro. Capisco chi ne deduce che non esista alcun Dio". Non ci sono risposte facili, bisogna mettersi in cammino: "Qual è la mia parte, e come posso io cambiare la situazione?".
Il rischio è l' indifferenza. "Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Solo allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti". Per questo il fondamento dell' educazione cristiana è la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi". Non si coglie "l' ampiezza della visione di Dio". Perché "l' uomo, e anche la Chiesa, corre sempre il rischio di porsi come un assoluto. Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell' "essere cattolico"". Sapendo che "non puoi rendere Dio cattolico". Gesù tratterebbe la Chiesa attuale come i farisei? "Sì", risponde il cardinale: erano i suoi "amici" e Gesù "li amava". C' è chi nasce postumo, diceva Nietzsche. Di quello che Martini definisce "un piccolo libro" si parlerà per anni. L' importante è capire come la parola "critica", qui, non abbia un senso "politico", negativo: ha il valore essenziale che le può attribuire uno studioso di "critica" testuale delle Scritture. Quando padre Sporschill gli ricorda la storiella ricorrente del Martini "antipapa", lui sorride: "Sono, semmai, un ante-papa, un precursore e preparatore per il Santo Padre".
Vecchi Gian Guido -(21 ottobre 2008) - Corriere della Sera Pagina 40

mercoledì 4 luglio 2012

diamo, diamo generosamente


L’ETICA DELLA GRATUITÀ E DEL RISPETTO

          Omologare gli altri ai nostri schemi è una mancanza fondamentale di rispetto. Pretendere e lamentarsi è segno che il nostro agire non è all’insegna della gratuità e del rispetto. Il credente fa del bene senza aspettarsi necessariamente di essere ricambiato, anzi spesso è chiamato a farlo nel segreto, e solo il Padre che vede nel segreto lo ricompenserà (Mt 6,4). La logica cristiana dell’attesa dagli altri è quella del dono d’amore: diamo, diamo generosamente, seminiamo largamente, consapevoli che se seminiamo il bene presto germoglierà. La logica cristiana dell’attesa è anche quella del rispetto, ad imitazione di quello paziente di Dio, che aspetta anche quando la nostra libertà sceglie diversamente.L’etica della gratuità e del rispetto è un’etica incentrata sul dono. Tutto il cristianesimo è incentrato sull’idea di dono: quello che Dio ci fa, dando suo Figlio in pura gratuità, senza prospettiva di guadagno, contro ogni logica di equivalenza, contro ogni calcolo. Soprattutto, però, esso rimanda a un compimento finale in cui giustizia e dono saranno una cosa sola (G. Savagnone).

martedì 3 luglio 2012

l'interrogativo circa la possibilità stessa della preghiera

            "L'opera più difficile è la preghiera''. Quanti giovani si sono sentiti dare questa risposta dall'anziano. E la difficoltà, come la preghiera, resta nel tempo pur assumendo sfumature differenti. Ogni generazione, e ogni uomo in ogni generazione, ha il compito di raccogliere l'eredità di preghiera che gli viene consegnata e la responsabilità di ridefinirla. E di ridefinirla vivendola! E oggi è difficilmente comprensibile quella definizione della preghiera come "elevazione dell'anima a Dio'' che ha traversato tanto l'Oriente come l'Occidente. Dopo Auschwitz è stato posto l'interrogativo circa la possibilità stessa della preghiera. Ma io penso che la risposta non debba limitarsi a rimpiazzare il titolo di "Onnipotente'' dato da sempre a Dio con quello di "Impotente'' (vi è chi parla dell’ “onnidebolezza” di Dio). Mi sembra che così si resti sempre all'interno di una logica di teodicea. Invece, prendendo sul serio il fatto che molti anche ad Auschwitz, come in tanti altri inferni terreni, sono morti pregando, penso che si possa comprendere la preghiera come cammino del credente verso il suo Dio. O meglio, come coscienza di tale cammino. La preghiera cristiana appare così come lo spazio di purificazione delle immagini di Dio. Dunque come la faticosa e quotidiana lotta per uscire dalle immagini manufatte del divino per andare verso il Dio rivelato nel Cristo crocifisso e risorto, vera immagine di Dio consegnata all'umanità. 
Bianchi Enzo

lunedì 2 luglio 2012

si può solo misurare in base alla carità


 “frutti” della preghiera da cosa si misurano? Uno degli indicatori può essere la “pace del cuore”? 
          So che nella tradizione spirituale cristiana, in particolare quella monastica, uno dei grandi frutti della preghiera è la pace del cuore. Credo a questa verità, e non voglio contraddire una risposta data dall’epoca dei padri della chiesa fino a oggi. Tuttavia mi sento di dire che il vero frutto della preghiera si può solo misurare in base alla carità, all’amore verso i nostri fratelli e verso Dio che la preghiera suscita in noi. Quando penso alla preghiera mia e di tanti monaci che per numerose ore del giorno pregano, nella lectio divina, nel nascondimento della propria cella, nella liturgia delle Ore celebrata comunitariamente, mi viene spontaneo chiedermi: “Tutta questa preghiera che frutto darà?”. 
          Poi talvolta trovo nel mio cuore qualche pepita di amore, e allora mi rispondo: “Per giungere a questo è stato necessario quell’immenso mucchio di sabbia costituito dalla preghiera”. Ripeto, il frutto della preghiera è l’agápe, è l’amore, che poi è Dio stesso. E quando Dio dimora in noi, siamo più saldi di fronte agli assalti del diavolo, siamo più forti nelle prove. E proprio perché osiamo gridare: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35), siamo anche capaci di trovare pace. 
Bianchi Enzo

domenica 1 luglio 2012

una vita intensa non si­gnifica una vita agitata


L'arte di riposarsi 
          Siamo molti a vivere sottoposti a un duro ritmo di lavoro che ci va logorando con l'andare dei mesi. Per questo, all'ar­rivo dell'estate, tutti cerchiamo in un modo o in un altro un tempo di riposo che ci aiuti a liberarci dalla tensione, dalla fatica e dal logorio che abbiamo accumulato nel cor­so dei giorni.
          Ma che significa riposare? È sufficiente recuperare le no­stre forze fisiche, prendendo il sole per ore e ore su qual­che spiaggia? È sufficiente dimenticare i nostri problemi e conflitti sommergendoci nel fracasso delle nostre feste e sagre? Al ritorno dalle vacanze, più di uno avverte inte­riormente di averle perse. Il fatto è che anche nelle vacan­ze possiamo cadere nella tirannia dell'agitazione, del chias­so, della superficialità e dell'ansia del godimento facile ed estenuante. Non tutti sanno riposare. E forse l'uomo mo­derno ha urgente bisogno di essere iniziato all'arte del ve­ro riposo.
          Abbiamo bisogno, anzitutto, di incontrarci in modo più profondo con noi stessi e di cercare quel silenzio, quella calma e quella serenità che tante volte ci mancano duran­te l'anno, per ascoltare il meglio che si trova in noi e in­torno a noi.
          Abbiamo bisogno di ricordare che una vita intensa non si­gnifica una vita agitata. Vogliamo avere tutto, accaparrar­ci e godere tutto. E ci circondiamo di mille cose superflue e inutili che soffocano la nostra libertà e spontaneità.
          Dobbiamo riscoprire la natura, contemplare la vita che pro­rompe accanto a noi, fermarci davanti alle piccole cose e alle persone semplici e buone. Sperimentare che la felicità ha poco a che fare con la ricchezza, i successi e il piacere facile.
          Abbiamo bisogno di ricordare che il senso ultimo della vi­ta non si esaurisce nello sforzo, nel lavoro e nella lotta. Al contrario, si rivela più chiaramente nella festa, nella gioia condivisa, nell'amicizia e nella convivenza fraterna.
          Abbiamo però bisogno, inoltre, di radicare la nostra vita in questo Dio «amico della vita», fonte del vero e definiti­vo riposo. Può riposare il cuore dell'essere umano senza incontrarsi con Dio? Ascoltiamo con fede le parole di Ge­sù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». 
José Antonio Pagola