sabato 22 marzo 2014

16° giorno Ed è sul tema della misericordia, che ritorna il vangelo di Luca al cap. 15, nella parabola del figliol prodigo; una lunga parabola che rappresenta, anch’essa, un’immagine estremamente efficace della disposizione di Dio verso l’uomo, personificata dal padre dei due figli che compaiono nella parabola. Essa è, intenzionalmente, raccontata ad un uditorio di pubblicani e di peccatori; di gente disprezzata da coloro che si ritenevano depositari della santità, in quanto perfetti osservanti della legge mosaica. E a questo uditorio di gente emarginata, Cristo dedica la parabola più bella del NT, una parabola che entra nelle profondità del cuore di Dio, e ne svela i sentimenti dalla tonalità paterna e materna allo stesso tempo. L’inizio della parabola è comune a tanti altri: “Un uomo aveva due figli”. Cristo, nelle sue parabole, non ci mette dinanzi a delle cose o a delle situazioni. Egli, in primo luogo, ci mette dinanzi una persona, come aveva fatto con il giovane ricco, che gli chiedeva quale cosa buona si debba fare per entrare nel regno di Dio. Cristo gli risponde mettendogli davanti innanzitutto Colui che è buono: “Uno solo è buono”. Dunque, è Lui che bisogna conoscere per entrare nella vita eterna, prima ancora di chiedersi quale cosa buona occorra fare. Con questo esordio la parabola ci mette immediatamente dinanzi alla chiave di comprensione della trama: il vero peccato dei due figli è la non conoscenza della paternità. La situazione che, poi, viene descritta acquista luce e significato, a partire dal punto di vista di questo padre, che rivela, nel modo di comportarsi con i suoi figli, una grande statura morale, e che personifica, al tempo stesso, l’atteggiamento di Dio verso l’uomo. La misericordia, che è il tema centrale di questa liturgia, viene sottolineata dalla parabola in diversi modi.


Ed è sul tema della misericordia, che ritorna il vangelo di Luca al cap. 15, nella parabola del figliol prodigo; una lunga parabola che rappresenta, anch’essa, un’immagine estremamente efficace della disposizione di Dio verso l’uomo, personificata dal padre dei due figli che compaiono nella parabola. Essa è, intenzionalmente, raccontata ad un uditorio di pubblicani e di peccatori; di gente disprezzata da coloro che si ritenevano depositari della santità, in quanto perfetti osservanti della legge mosaica. E a questo uditorio di gente emarginata, Cristo dedica la parabola più bella del NT, una parabola che entra nelle profondità del cuore di Dio, e ne svela i sentimenti dalla tonalità paterna e materna allo stesso tempo.
L’inizio della parabola è comune a tanti altri: “Un uomo aveva due figli”. Cristo, nelle sue parabole, non ci mette dinanzi a delle cose o a delle situazioni. Egli, in primo luogo, ci mette dinanzi una persona, come aveva fatto con il giovane ricco, che gli chiedeva quale cosa buona si debba fare per entrare nel regno di Dio. Cristo gli risponde mettendogli davanti innanzitutto Colui che è buono: c Con questo esordio la parabola ci mette immediatamente dinanzi alla chiave di comprensione della trama: il vero peccato dei due figli è la non conoscenza della paternità. La situazione che, poi, viene descritta acquista luce e significato, a partire dal punto di vista di questo padre, che rivela, nel modo di comportarsi con i suoi figli, una grande statura morale, e che personifica, al tempo stesso, l’atteggiamento di Dio verso l’uomo. La misericordia, che è il tema centrale di questa liturgia, viene sottolineata dalla parabola in diversi modi.  
Don Vincenzo Cuffaro

venerdì 21 marzo 2014

15° giorno Questa parabola si conclude poi con l’espulsione dei vignaioli (cioè della classe dirigente) dalla loro posizione e il passaggio dell’affidamento della vigna (cioè il popolo di Dio) ad altri. Anche qui è in gioco il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, ma è anche una descrizione del giudizio di Dio che raggiungerà, all’interno stesso della vita della Chiesa, tutti coloro i quali, soprattutto pastori, non avranno avuto verso la Chiesa di Dio quella sollecitudine che Dio si aspetta, mutando il proprio ministero in un posto di comando, passando da amministratori a padroni, e operando in tal modo una sostituzione di Cristo con se stessi. Il Figlio viene insomma buttato fuori dalla vigna che gli appartiene. In questa linea ci sembra di potere leggere la prospettiva ecclesiale della parabola. Cosa significa avere rifiutato l’ultimo inviato? A livello comunitario può significare forse la costituzione di una pastorale senza Cristo; forse la riduzione dell’attività della Chiesa ad una progettazione assistenziale, abbassando il livello delle mete dall’esperienza proiettata verso il Regno di Dio al semplice sociologismo assistenziale. Buttare fuori il Figlio dalla vigna, per la comunità cristiana può significare impiantare una pastorale senza di Lui, sostituirsi a Lui progettando a tavolino la “propria” pastorale e non nel discernimento comunitario o prescindendo dalla comunione ecclesiale. Anche a livello individuale è possibile respingere fuori dalla vigna l’ultimo inviato, e qui le manifestazioni potrebbero essere molte, come la ricerca di un ministero per innalzare se stessi, afferrando l’eredità al posto dell’erede appropriandosi dei doni di Dio, con tutte le conseguenze di protagonismo che ciò comporta; quest’ultimo inviato, dopo essere stato ucciso in quel lontano Venerdì Santo, non può più morire fisicamente, ma può essere ucciso nei nostri cuori in molte maniere sofisticate e sottili, ed è appunto dietro queste maniere che si nasconde una nuova e diversa crocifissione del Figlio di Dio, che durerà finché dura la storia.


 Questa parabola si conclude poi con l’espulsione dei vignaioli (cioè della classe dirigente) dalla loro posizione e il passaggio dell’affidamento della vigna (cioè il popolo di Dio) ad altri. Anche qui è in gioco il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, ma è anche una descrizione del giudizio di Dio che raggiungerà, all’interno stesso della vita della Chiesa, tutti coloro i quali, soprattutto pastori, non avranno avuto verso la Chiesa di Dio quella sollecitudine che Dio si aspetta, mutando il proprio ministero in un posto di comando, passando da amministratori a padroni, e operando in tal modo una sostituzione di Cristo con se stessi. Il Figlio viene insomma buttato fuori dalla vigna che gli appartiene.
In questa linea ci sembra di potere leggere la prospettiva ecclesiale della parabola. Cosa significa avere rifiutato l’ultimo inviato? A livello comunitario può significare forse la costituzione di una pastorale senza Cristo; forse la riduzione dell’attività della Chiesa ad una progettazione assistenziale, abbassando il livello delle mete dall’esperienza proiettata verso il Regno di Dio al semplice sociologismo assistenziale. c Anche a livello individuale è possibile respingere fuori dalla vigna l’ultimo inviato, e qui le manifestazioni potrebbero essere molte, come la ricerca di un ministero per innalzare se stessi, afferrando l’eredità al posto dell’erede appropriandosi dei doni di Dio, con tutte le conseguenze di protagonismo che ciò comporta; quest’ultimo inviato, dopo essere stato ucciso in quel lontano Venerdì Santo, non può più morire fisicamente, ma può essere ucciso nei nostri cuori in molte maniere sofisticate e sottili, ed è appunto dietro queste maniere che si nasconde una nuova e diversa crocifissione del Figlio di Dio, che durerà finché dura la storia.  
Don Vincenzo Cuffaro

giovedì 20 marzo 2014

14° giorno L’uomo che confida nell’uomo è descritto dal testo odierno come uno che non vede il vero bene, quando lo ha a portata di mano: “Quando viene il bene non lo vede”


La Parola di Dio mette oggi dinanzi ai nostri occhi una situazione spirituale che somiglia a un bivio: si tratta di due possibilità di scelta, dinanzi a cui nessuno di noi si può sottrarre. Il testo del profeta Geremia considera due figure contrapposte: l’uomo che confida nell’uomo, il cui destino è l’inaridimento nel deserto e, dall’altro lato, l’uomo che confida nel Signore, che rimane invece perennemente verde, come un albero piantato lungo corsi d’acqua; anche quando arriva il caldo e la siccità. L’uomo che confida nell’uomo è descritto dal testo odierno come uno che non vede il vero bene, quando lo ha a portata di mano: “Quando viene il bene non lo vede”. Egli è così concentrato sulle aspettative umane, che non si accorge di Dio che gli passa accanto e lo invita a liberarsi dai sostegni che non sostengono.
Si tratta dunque di due figure contrapposte, con due destini completamente diversi; così come la parabola lucana, nel costrutto della sua narrazione, presenta due personaggi, due figure contrapposte, con due destini completamente diversi: l’uomo ricco e il mendicante di nome Lazzaro.
Don Vincenzo Cuffaro

mercoledì 19 marzo 2014

13° giorno il testo del profeta Geremia affronta il tema biblico della sofferenza del giusto, sofferenza che nasce stranamente proprio dalle radici della sua stessa giustizia.


La Parola odierna anticipa già i temi della Settimana Santa, attraverso il brano evangelico di Matteo, dove Cristo fa esplicito riferimento al calice che dovrà bere; l’immagine del calice è ovviamente simbolo del destino della persona, ciò che è scritto e che deve compiersi. Anche il testo del profeta Geremia affronta il tema biblico della sofferenza del giusto, sofferenza che nasce stranamente proprio dalle radici della sua stessa giustizia. I nemici del profeta complottano contro di lui, a motivo delle sue parole, vale a dire, a motivo del messaggio che la sua vita trasmette, un messaggio impregnato di fedeltà alla Parola di Dio, annunciata ma soprattutto personificata, testimoniata fino in fondo con la propria vita. La sofferenza del giusto è un mistero più volte sottolineato nell’esperienza dei profeti, i quali si trovano dinanzi alla imprevedibile chiusura di Israele, quando essi trasmettono fedelmente la Parola di Dio, pagando di persona. Altrettanto imprevedibilmente trovano maggiore ascolto i falsi profeti, che di solito annunciano cose gradevoli. Il tema del giusto sofferente viene poi ampiamente sviluppato dalla letteratura sapienziale. Questo mistero del dolore che colpisce l’uomo giusto, in Cristo si compie totalmente, giungendo all’ultimo confine possibile: la soppressione dell’unico Giusto; i profeti perseguitati sono soltanto delle figure del Cristo perseguitato e colpito dall’iniquità umana. Il profeta Geremia, nel testo della prima lettura odierna, assume perciò i tratti anticipati del Messia sofferente. Come Cristo, anche se in modo meno perfetto e con un animo non esente da un certo quale desiderio di vendetta (come si vede dai versetti successivi che i liturgisti hanno tralasciato), Geremia rimette a Dio la propria causa e attende da Lui il soccorso. Dall’altro lato, i nemici del profeta si illudono che sopprimendo un giusto non debba cambiare nulla: “la legge non verrà meno ai sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né l’oracolo ai profeti”. In realtà, come viene chiarito dall’insegnamento evangelico, chi espelle dalla propria vita l’uomo di Dio, espelle Dio stesso, col rischio di sperimentare la più totale solitudine. Infatti non esiste solitudine peggiore di quella di chi non ha Dio come amico.
 Don Vincenzo Cuffaro

martedì 18 marzo 2014

12° giorno Essa è esclusivamente un’esperienza legata alla conversione, che potrebbe non esserci, nonostante i lunghi anni di servizio ministeriale.


 In questi testi si viene messi in guardia dinanzi ad un primo possibile fraintendimento, che è quello di ritenere il numero degli anni di cammino, o l’esercizio dei ministeri, come un segno di maturazione e di santità cristiana. La parola che è rivolta alle guide del popolo, sia nel profeta Isaia che nel brano evangelico odierno, intende appunto demolire questo pregiudizio: non è la posizione che si occupa nella Chiesa, non è l’autorità religiosa che si riveste, non sono gli anni di cammino che garantiscono la santità. Essa è esclusivamente un’esperienza legata alla conversione, che potrebbe non esserci, nonostante i lunghi anni di servizio ministeriale. Tale via di conversione, tanto per coloro che esercitano dei ministeri o rivestono una posizione di autorità, quanto per coloro che non li rivestono, è definita da Isaia come una via di ascolto e di dialogo con Dio. L’esortazione rivolta ai capi: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista”, a cui segue una serie di esortazioni alla giustizia sociale, approda infine a un punto cruciale: “Su, venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve”. Dinanzi alla descrizione del peccato: “Cessate di fare il male, … ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso”, si ha l’impressione di un cumulo di mancanze e di omissioni di grande portata; sembrerebbe quasi che occorra compiere chissà quale dolorosa purificazione o espiazione, per superare l’ostacolo del peccato. Invece, la Parola del profeta indica un superamento del peccato che si compie mediante un gesto dalla sconcertante semplicità: l’atto di avvicinarsi al Signore e di parlare con Lui è tutto ciò che l’uomo deve fare, perché in definitiva è Dio stesso che ci lava dalla macchia del peccato. Ne consegue una verità dalla logica stringente: nessuno può essere deterso, se non si accosta a Dio in un rapporto personale, che si concretizza nel dialogo. Tutto quel male che sta sotto gli occhi di Dio, e che ha indubbiamente bisogno di una radicale purificazione, non viene lavato da olocausti o sacrifici, né da macerazioni personali per quanto eroiche, ma viene purificato dall’accoglienza di Dio da parte dell’uomo peccatore, e dalla disponibilità ad accettare il suo invito di dialogare con Lui: “Su, venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve”. Sotto un certo aspetto, torna qui il tema della lettura di ieri, dove il peccato fondamentale era proprio questo: quello, cioè, di non avvicinarsi a Dio per discutere con Lui, accogliendo la sua Parola e confrontandosi con Essa. Non è una via difficile quella indicata dal profeta Isaia, eppure non è possibile alcun superamento di se stessi senza questo momento di confronto e di dialogo con il Signore, che rivolge a noi la sua Parola. Essa stessa, per chi crede, è la forza di purificazione che agisce nella coscienza.
Don Vincenzo Cuffaro

lunedì 17 marzo 2014

11° giorno Anche nelle cose umane avviene lo stesso: l’ascolto è amore; le parole pronunciate da coloro che amiamo hanno sempre un particolare peso per noi, e vengono ascoltate anche quando sono banali.


Nel testo di Daniele osserviamo un elemento piuttosto singolare: a proposito della colpevolezza di Israele davanti a Dio, non viene fatta una lista dei peccati compiuti dal popolo; si dice piuttosto, semplicemente, che Israele ha commesso dei misfatti; l’autore non precisa di cosa si tratta, perché egli intende sottolineare la causa remota del peccato, più che le sue singole manifestazioni, ovvero l’origine di tutte le forme di peccato che l’uomo può commettere. E questa origine viene presentata nei termini del peccato del non–ascolto. Nelle parole della preghiera penitenziale di Daniele, Israele non sembra colpevole di particolari gesti di ribellione contro Dio, o di particolari peccati che possano essere enumerati; esso è colpevole di quel peccato fondamentale che fa scaturire da sé tutti gli altri peccati possibili come da una sorgente: ed è il non–Amore verso Dio, la cui manifestazione più concreta è l’indifferenza verso la sua Parola. Questo ci dà molto da pensare, specialmente rispetto alla visione delle cose del cristiano medio, dove molto spesso la nostra coscienza è pacificata dall’idea di non avere commesso delle colpe particolarmente gravi, senza riflettere che, a conti fatti, la Parola della Scrittura non ha alcuna rilevanza nella nostra vita, e che questo, agli occhi di Dio, equivale a negargli il suo primato. Anche nelle cose umane avviene lo stesso: l’ascolto è amore; le parole pronunciate da coloro che amiamo hanno sempre un particolare peso per noi, e vengono ascoltate anche quando sono banali. Parimenti siamo spesso incapaci di prestare attenzione alle parole, anche sapienti, di chi non è amato. Sul piano della vita cristiana, si replica lo stesso fenomeno: la scarsa attenzione alla Parola di Dio è il segno più sicuro che la sua divina Persona non ha alcuna rilevanza nella nostra vita, e questo è un peccato di empietà. Il testo di Daniele, infatti, nella sua preghiera penitenziale, chiede perdono a Dio per non aver ascoltato coloro che Dio ha mandato per trasmettere a Israele la sua Parola.  
Don Vincenzo Cuffaro

domenica 16 marzo 2014

Nel brano odierno viene descritto ciò che può considerarsi come il modello tipologico di ogni cammino di fede, cioè lo schema di riferimento per ogni vera esperienza di Dio


 Il testo di Genesi costituisce l’inizio della storia di Abramo, 
una storia che comincia con una vocazione: 
In quei giorni, il Signore disse ad Abram: 
<<Vattene dalla tua terra, 
dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, 
verso la terra che io ti indicherò […]>>” (v. 1). 
Significativamente prima di questo momento non si sa nulla di Abramo; 
la sua storia, infatti, non comincia con la sua nascita 
ma con la sua vocazione e il suo incontro con il Signore. 
Anzi, dovremmo più precisamente dire che è Dio a incontrarlo, 
perché Abramo non è capace di rivolgersi a Dio per primo, come del resto nessun uomo: 
l’iniziativa è sempre del Signore. 
In termini un po’ ermetici 
lo stesso concetto ci viene presentato dall’Apocalisse, 
quando parla di Cristo 
come “Colui che è, che era e che viene” (1,8); 
non dice “Colui che è, che era e che sarà”, 
proprio perché Dio è continuamente proiettato verso di noi per incontrarci. 
E quando Lui ci incontra, 
comincia la nostra storia. 
La storia personale di Abramo, nella fase anteriore al momento della sua vocazione, 
non ha nessun valore per la Bibbia. 
Quando il Signore si svela ad Abramo, 
per invitarlo a iniziare una nuova fase della sua vita, 
egli ha già settantacinque anni e si può dire che è passata una vita. 
Eppure di essa la Bibbia non ci dice nulla, 
come se non avesse alcun interesse per quegli anni 
che erano trascorsi fuori dall’alleanza con Dio, 
e perciò vissuti nella non conoscenza di Lui.
Nel brano odierno viene descritto ciò che può considerarsi 
come il modello tipologico di ogni cammino di fede, 
cioè lo schema di riferimento per ogni vera esperienza di Dio. 
Il Signore, rivolgendosi ad Abramo, per prima cosa, 
gli impedisce di rimanere in una posizione statica, 
vincolato al proprio passato: 
Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre”. 
Se Dio è continuamente proiettato verso di noi in un movimento perenne d’amore, anche l’uomo è invitato a fare altrettanto, perché nessuno può incontrare Dio stando fermo. Ad Abramo viene chiesto un dinamismo di ubbidienza, un movimento interiore ed esteriore che somiglia a una condizione perenne di pellegrinaggio. Abramo è infatti figura di colui che è “straniero” in questo mondo. Per incontrare Dio, egli deve muoversi, camminare senza fermarsi; non, però, sulla base di una mappa ragionevole e chiara in tutti i suoi passaggi, bensì su una parola che è una promessa: 
verso la terra che io ti indicherò”. Il Signore non gli dice quale sia questa terra, o dove si trovi, né quando ci arriverà. Gli dice soltanto che, a suo tempo, gliela indicherà. Un movimento di ubbidienza e una fiducia incondizionata nella parola della promessa, sono quindi le prime cose che Dio gli chiede; 
Abramo di fatto risponde a Dio con una ubbidienza pronta, 
senza sovrapporre le sue riflessioni umane: 
Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore” (v. 4).
Ma c’è ancora un altro elemento senza il quale non può esistere alcun cammino di fede, 
e che gli è ugualmente richiesto, ed è la presa di distanza dal suo passato
Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre”. Non è possibile camminare liberi con Dio, se si rimane legati al proprio passato, alla propria casa, alla propria storia. 
La nostalgia è il sentimento più ostile e più contrario ad una vita vissuta nello Spirito: 
impedisce di apprezzare le cose nuove che Dio fa nascere ogni giorno sotto i nostri occhi. 
Essa suscita anche la sensazione falsa, e gravemente ingannevole, 
che il passato, o alcuni momenti particolari di esso, sia stato migliore del presente. 
Il libro di Qoelet afferma giustamente che chi ragiona così è uno stolto (cfr. 7,10). 
Chi ritiene che il passato sia stato migliore del presente, 
accusa Dio di essere un cattivo regista della nostra vita, 
e non capisce che ogni giorno che trascorre 
è ricco di una grazia in più che il giorno prima non aveva. 
Ogni giorno, 
infatti, lo Spirito aggiunge una pennellata di perfezione alla sua opera e un maggiore ingresso nella sua intimità, se non ci si irrigidisce con l’atteggiamento del giudizio, della sfiducia e del ripiegamento. 
Semmai, si dovrebbe accusare se stessi di avere sciupato il tempo presente 
e la grazia di santità in esso elargita. 
Ma il passato non potrebbe essere considerato migliore del presente neppure nell’ipotesi che uno abbia valorizzato il dono di grazia nel passato e lo abbia sciupato nel presente. In realtà, chi sciupa la grazia del presente perde anche quella del passato, perché il demonio agisce come un ladro: quando entra in casa, non ruba solo i mobili acquistati di recente, ma può mettere le mani anche su quelli acquistati molti anni or sono. Contestualmente, va detto pure che è vero anche il contrario: chi dice “sì” al Signore oggi, e si converte a Lui, recupera tutti i doni di grazia che la divina condiscendenza gli aveva preparato, anche quelli ricevuti e non accolti nel passato. Insomma, l’idea teologica che ci sta dietro è che il peccato grave può far perdere in un solo atto lo stato di grazia, e che la sottomissione a Dio, compiuta con un atto irrevocabile, restituisce la grazia a chi l’aveva perduta.
Tornando ad Abramo, i settantacinque anni vissuti nella non conoscenza di Dio non sono degni di essere narrati dalla Bibbia. 
Nel momento della vocazione, anche lui è invitato a dimenticare tutte le esperienze vissute senza Dio. Va notato che, prima ancora di dirgli che c’è una meta e un paese che gli verrà indicato, Dio lo invita a prendere le distanze dalle proprie origini e dal proprio passato: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre”. E solo dopo aggiunge: “verso la terra che io ti indicherò”. Ciò vuol dire che si cammina verso le promesse di Dio, se si diventa liberi da ogni altra realtà, e soprattutto se si rinuncia ai progetti personali per ricevere da Dio un’altra famiglia e un’altra città. Se l’uomo è capace di vivere così, diventa una benedizione, con effetti benefici che si estendono ben aldilà della nostra immaginazione: “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione” (v. 2). Tutti coloro che sanno superare i confini ristretti del proprio mondo, e sulla parola delle promesse divine si mettono in cammino verso una meta sconosciuta, diventano una benedizione, destinata a raggiungere l’umanità intera: “in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (v. 3). Sembra di sentire l’eco delle parole rivolte dal Signore a Santa Faustina, che contengono un significativo insegnamento valido per tutti i battezzati: “Sappi, figlia Mia, che se tendi alla perfezione, porterai alla santità molte anime, ma se non tendessi alla santità, per ciò stesso molte anime rimarrebbero imperfette. Sappi che la loro perfezione dipenderà dalla tua perfezione e la maggior parte della loro responsabilità ricadrà sopra di te”.“diventerai una benedizione”: 
vale a dire che la persona stessa di Abramo diventa un canale di grazia, non tanto le sue singole opere. Così la benedizione divina passa attraverso Abramo non tanto in base a ciò che lui fa, bensì in base a ciò che lui è. È insomma la crescita personale nello Spirito, e non le iniziative dei singoli battezzati, ciò che rende la Chiesa più bella e più ricca.
In forza della fede, Abramo acquista un duplice livello di fecondità. Ci sono infatti due discendenze che prendono vita da lui: la discendenza fisica, da cui nascerà il popolo di Israele secondo la carne, e la discendenza spirituale, da cui nascerà il nuovo Israele secondo lo Spirito: una moltitudine di figli che, come lui, vivono lasciandosi guidare dalla fede. Il Signore non vuole la sterilità dell’uomo, ma si può essere fecondi solo se si riceve la sua benedizione. Essa è collegata alla fondamentale disponibilità a uscire dal proprio paese, tagliare i ponti con le proprie radici genealogiche, prendere le distanze dal proprio passato e dalla propria storia, e proiettarsi fiduciosi verso il futuro, in un dinamismo di ubbidienza ininterrotto, in cui si ha non un progetto chiaro e definito, ma semplicemente una promessa, di cui solo Dio conosce in anticipo tutti i particolari: “verso la terra che io ti indicherò”.
Infine, vi sono altri due versetti chiave da mettere in evidenza, ma lo faremo in modo sobrio, senza commentarli per esteso, lasciando al lettore di farlo per conto proprio. La benedizione di Dio è sufficiente a proteggere l’uomo da ogni male: “Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò” (v. 3). Vale a dire: il cammino di fede, che è un pellegrinaggio verso il conseguimento delle promesse di Dio, non è mai esente da pericoli e combattimenti. Il Signore dice ad Abramo di non cercare altre difese, perché la sua difesa è Dio stesso, e la divina benedizione è il suo scudo (cfr. anche Gen 15,1).
Don Vincenzo Cuffaro