ELENA LOEWENTHAL. «Ogni cosa alla sua stagione è un titolo forte, pregnante. Non porta il verbo avere che nell’ebraico della Bibbia non esiste – «ogni cosa ha la sua stagione» – e richiama invece quell’atteggiamento “dativo” che in questa lingua sostituisce il possesso. Così, ci invita a un senso della lettura diverso, più partecipato. Quel viale di tigli di cui si parla alla fine, ad esempio, pare di sentire il profumo pagina dopo pagina…».
ENZO BIANCHI. «Ho deciso di piantare un viale di tigli, perché sono anziano. Alla mia età, credo sia necessario fare atti di fiducia nel futuro su questa terra. Sono sotto il mio eremo: non so per quanti anni potrò sentire il profumo strabiliante che emanano in maggio, soprattutto la mattina presto e nelle lunghe serate piene di luce. Quel profumo che sale dalla terra della collina, sarà soprattutto per gli altri che verranno dopo di me. Quando siamo colti dall’anzianità, è importante pensare non soltanto a noi e ravvivare invece il nostro rapporto con quel che ci circonda, esprimere rispetto per la vita che abbiamo vissuto e gratitudine per questa terra così bella. Anche se dovremo lasciarla».
LOEWENTHAL. «C’è un nodo che tiene insieme queste riflessioni, in parte svelando in parte racchiudendo: è la questione del tempo, inteso come un valore, e non un possesso. I padri antichi dicevano che il tempo è di Dio, non nostro. Noi lo abitiamo, ma non ne disponiamo perché ci sfugge ogni volta che proviamo ad afferrarlo. L’impressione è che stiamo perdendo questo senso del tempo come territorio su cui vivere e non come oggetto da possedere. Non abbiamo più la nozione della stagionalità fatta di passaggi e ritorni: a incominciare da quando si fa la spesa e tutto sembra sempre disponibile, in ogni momento dell’anno».
BIANCHI. «Viviamo un mondo in fuga. Abbiamo lasciato che il tempo diventasse una dimensione estranea: siamo la “generazione post-mortale”, perché non abbiamo più la percezione del nostro limite. Ascolto spesso la gente usare il futuro anteriore, “quando avrò fatto…”: significa non vivere né il presente né il futuro! Il distacco dal tempo è poi da se stessi, dalla relazione con gli altri. Pensare che tutto questo è stato il fermento della nostra cultura. Noi in Occidente abbiamo le stagioni, che hanno ritmato la civiltà e la cultura in una continua dinamica tra la pienezza estiva della vita e l’inverno in cui tutto dorme. E poi siamo per definizione la gente delle terre dove “cade il sole”, l’ Occasum . La perdita di queste nozioni ci rende molto poveri, incapaci di abitare il tempo».
LOEWENTHAL. «E anche fragili, soprattutto in rapporto al tempo della nostra vita. Questo libro non è un senectute, un viatico per la vecchiaia, ma certo qui si riflette sull’ultima età. Una grande fragilità del nostro tempo, credo, è il rifiuto della vecchiaia e in fondo anche di quella morte con cui prima o poi dovremo fare i conti. È illuminante, poi, quel che ci rivela. Lo sapevamo già, senza sapere di saperlo…: il vecchio ha esperienza, però è anche vero che la vecchiaia è un unicum , che quando la vivi è irrimediabilmente una prima volta. E bisogna pur prepararsi».
BIANCHI. «La vecchiaia è ancora un tempo da vivere, non da negare. E nemmeno di cui avere paura. Bisogna cercare di attraversarlo in modo consapevole, secondo canoni di vera e propria arte. La vecchiaia si allunga, ma non ha più quel carisma di esperienza e saggezza impressole un tempo. Si tratta di viverla in sintonia con le nuove generazioni, senza ghettizzarsi. Imparare una grammatica del vecchio che non sia “finora ho vissuto per gli altri, ora mi dedico a me”. Una grande lezione che mi ha insegnato la Bibbia è che la vita non è un feticcio. La vita è tale finché c’è relazione, la morte è assenza di relazione: i Salmi ci dicono che i morti neanche lodano Iddio. Se la vita è relazione, anche la vecchiaia deve adeguarsi, pur con la sua lentezza e fatica. Ciò che più fa paura ai vecchi non è il dolore o la morte, ma la solitudine. L’esclusione dal ciclo della vita. Per guarirla ci vogliono impegno culturale e politiche lungimiranti. Bisogna soprattutto prepararsi una vecchiaia in cui la relazione continui».
LOEWENTHAL. «La vita come relazione. Certo. Ancora una volta, la Bibbia chiama la vita con una parola plurale, hayyim . Se c’è un dono che ha la vecchiaia, è quello di saper tornare al passato con una lucidità e un senso di presenza. Paradossalmente, quel che è stato per noi in lontananza ditempo, ci sembra più vicino man mano che invecchiamo. I ricordi diventano più nitidi. È una specie di ritorno, vero?».
BIANCHI. «È un ritorno, sì, e molto importante. Non solo vediamo meglio contorni e figure, addirittura le facciamo resuscitare. Di recente mi sono ritrovato capace di pensare a una persona che non evocavo da almeno trent’anni. Si acquisisce una specie di chiaroveggenza, insomma. Che è poi frutto della gratitudine. Da giovani siamo creditori: la vita ci deve dare! Poi viene l’ora in cui sentiamo di avere dei debiti da pagare: alla terra, alle persone. In questo libro ho voluto saldare dei debiti con amici d’infanzia che hanno significato tanto, anche se non li ho mai più visti. Con le persone grazie alle quali sono quello che sono».
LOEWENTHAL. «E ci vuole molta generosità, per condividere con il lettore questi debiti di riconoscenza. Che qui affiorano in forma di figure umane, forti e dolci al tempo stesso. Come Etta e Cocco, ad esempio».
BIANCHI. «La mia vita è segnata da queste due donne, che dopo la morte di mia madre - avevo otto anni - mi hanno spiritualmente adottato. Una era postina, l’altra la maestra del mio paese. Una maestra straordinaria, che metteva i meno bravi nei primi banchi per dare loro un’opportunità. Loro due mi hanno dato la libertà, una biblioteca, invogliato a girare il mondo. Mi hanno insegnato il rispetto per gli altri. Anche mio padre mi ha costruito: da lui ho preso quel senso di giustizia che deve regnare sul mondo. E che si manifestava quotidianamente, quando girovaghi e mendicanti entravano e mangiavano alla nostra tavola. Sembrava strano, ma era così, a casa. È la cosa più bella che mi porto dietro».
in “La Stampa” del 1 dicembre 2010
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