ALESSANDRO D’AVENIA
« Mi manca qualcuno che mi ricordi in cosa credere, mi manca sentire qualcuno che creda nel bene ed è così triste non riuscire a credere nel bene a sedici anni». Così una lettrice del mio romanzo in una delle tante lettere che urlano: a sedici anni si può ancora credere in ciò che serve a vivere felici?
C’è una stagione dell’esistenza che chiamiamo gioventù: una volta fuggita la rimpiangiamo come età dell’oro perduta e ritrovata solo nel ricordo opportunamente edulcorato dalla memoria. I Greci lo avevano intuito drammaticamente con Titone, mortale, che per unirsi alla dea Aurora riceve il dono dell’immortalità, ma dimentica di chiedere quello dell’eterna giovinezza, sicché il dono ricevuto si trasforma in beffa e condanna: una vecchiaia prolungata all’infinito.
Il dono da chiedere agli dei non è quello dell’immortalità, ma quello della giovinezza. Molte icone del nostro tempo hanno qualcosa in comune con Titone, nel disperato tentativo di fermare il tempo cercano l’immortalità dietro un’apparente eterna giovinezza. Ma è solo questione di maquillage e le maschere prima o poi si staccano, lasciando la vita nuda e cruda a fare i conti con se stessa.
Troppo provvisoria è l’eterna giovinezza di una cultura dimentica del fatto che l’uomo è spirito incarnato e si costringe a strappare in modo goffo i doni degli dei. Solo lo spirito ha la capacità di rimanere giovane, perché in quanto tale non può invecchiare. Di alcuni 'vecchi' diciamo che sono giovani: qualcosa brilla nei loro occhi nonostante l’età anagrafica; di alcuni 'giovani' diciamo che sembrano vecchi, perché qualcosa in loro si è spento. Non è certo l’aspetto fisico o il giovanilismo peterpanesco a dare fondamento a questa impressione, ma lo spirito di queste persone. Cosa è allora questa giovinezza, vera immortalità, che tutti andiamo cercando e che lifting e chirurgia non sono capaci di restituirci? La giovinezza è – paradossalmente – stabilità. È il periodo in cui cercare ciò che rimane stabile quando essa passa, in cui fondare la propria vita su ciò per cui vale la pena spenderla. Solo la scoperta di questo fondamento stabile rende il giovane veramente tale e l’uomo eternamente giovane. Non sarà più una qualità della pelle, ma una qualità del cuore difficilmente estirpabile, a 20 come a 80 anni.
Per questo sono nate le Giornate della gioventù: per aiutare i 'giovani' a scovare ciò che passa della loro età e ciò che invece resta stabile, e che in gioventù è cercato con slancio irripetibile, come una ferita aperta, una domanda vissuta nella carne, con tutti gli errori e i dubbi che la ricerca comporta.
Occorre quindi rivedere un concetto connesso: 'il nuovo'. I ragazzi cercano il nuovo. Ma il nuovo è ridotto a sinonimo di 'più recente', 'ultimo', parole che tradiscono la vecchiaia di ciò a cui ci si riferisce, infatti presto arriverà qualcos’altro a cui aggrapparsi, perché meno vecchio. Il nuovo invece non è il meno vecchio, ma il più ricco e pieno: ciò che non smette di dare qualcosa di sé. Solo ciò che dà più di sé a ogni incontro è sempre nuovo: spirito inesauribile. Omero, Dante, Shakespeare sono nuovi perché hanno sempre qualcosa da dare. L’amore è nuovo perché l’amato è inesauribile. La verità è nuova perché si scopre a poco a poco e brilla in modo sempre diverso.
Agli dei occorre chiedere il dono giusto. I ragazzi che si affollano attorno al 'vecchio' Papa cristiano, in una sintonia tra generazioni più unica che rara, non cercano la cosa all’ultimo grido, ma la risposta definitiva al grido ultimo del cuore: per cosa posso io vivere per essere felice? Esistono un amore, una bellezza, una verità stabili e sempre nuovi? Capaci di rendere giovane, eternamente giovane e piena, la mia vita a qualunque età?
Alla sete inestinguibile di immortalità, non lenita da ciò che è più nuovo e recente, rispondono parole vecchie e misteriose che difficilmente uomini o dei provvisori possono pronunciare: «Ecco vedi io faccio nuove tutte le cose» (Ap. 21,5).
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