A quali estremi può essere spinto l'uomo da così grave iattura e da così spietata condizione di cose!
Combattere bisognava e camminare, senza tregua e spesso senza speranza. Chi dopo aver lottato per lunghi giorni contro lo sfinimento era costretto a perder terreno, andava insensibilmente ai margini della colonna in marcia e finiva per accasciarsi poi lungo le prode delle piste, rimanendo per terra a seguire con lo sguardo spento il fiume lento dei compagni dilungantesi, guardato esso stesso senza pietà e senza interesse, votato alla morte per assideramento. I muli, uno dopo l'altro si abbattevano estenuati dalla fatica, dalla fame, dal gelo, e così le slitte cariche di feriti e di congelati restavano arenate nell'immensità disperata della steppa. «Non abbandonateci, siamo italiani anche noi!» gemevano quegli infelici, aggrappandosi ai compagni che a mala pena reggevano essi stessi il peso della propria marcia. «Signor Cappellano -implorava un ferito - sparatemi, per amor di Dio, ma non lasciatemi qui».
Può darsi condizione più disperante e più umiliante di quella che viene dall'impossibilità di soccorrere, dal non aver più una benda per un ferito, la forza di stendere la mano a un congelato che si trascina carponi dietro la colonna, un po' d'acqua per un morente (che spesso i pozzi erano suggellati dal ghiaccio), un pezzo di pane per un estenuato - peggio ancora - del non aver neppure la facoltà di commuoversi e di soffrire? Chi può dire, se nella vita non l'abbia provato, il terrore che viene dal veder l'anima propria perdere mano a mano il potere di consentire al dolore, al pericolo e alla morte? Nulla è più agghiacciante di questo impietramento e quasi morte interiore, sotto i colpi troppo gravi e reiterati della sventura, della fame, della stanchezza e del sonno.
Combattere bisognava e camminare, senza tregua e spesso senza speranza. Chi dopo aver lottato per lunghi giorni contro lo sfinimento era costretto a perder terreno, andava insensibilmente ai margini della colonna in marcia e finiva per accasciarsi poi lungo le prode delle piste, rimanendo per terra a seguire con lo sguardo spento il fiume lento dei compagni dilungantesi, guardato esso stesso senza pietà e senza interesse, votato alla morte per assideramento. I muli, uno dopo l'altro si abbattevano estenuati dalla fatica, dalla fame, dal gelo, e così le slitte cariche di feriti e di congelati restavano arenate nell'immensità disperata della steppa. «Non abbandonateci, siamo italiani anche noi!» gemevano quegli infelici, aggrappandosi ai compagni che a mala pena reggevano essi stessi il peso della propria marcia. «Signor Cappellano -implorava un ferito - sparatemi, per amor di Dio, ma non lasciatemi qui».
Può darsi condizione più disperante e più umiliante di quella che viene dall'impossibilità di soccorrere, dal non aver più una benda per un ferito, la forza di stendere la mano a un congelato che si trascina carponi dietro la colonna, un po' d'acqua per un morente (che spesso i pozzi erano suggellati dal ghiaccio), un pezzo di pane per un estenuato - peggio ancora - del non aver neppure la facoltà di commuoversi e di soffrire? Chi può dire, se nella vita non l'abbia provato, il terrore che viene dal veder l'anima propria perdere mano a mano il potere di consentire al dolore, al pericolo e alla morte? Nulla è più agghiacciante di questo impietramento e quasi morte interiore, sotto i colpi troppo gravi e reiterati della sventura, della fame, della stanchezza e del sonno.
don Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, 30-31
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