lunedì 8 ottobre 2012

una grande confusione, dall’aver dato alla realizzazione umana il significato della realizzazione sociale


Alla domanda si può fuggire. Si tratta di una scappatoia forse poco onorevole per la nostra dignità di uomini, ma chi può dire di non averla mai percorsa? La domanda inquieta e se è vero che possiamo permetterci la sincerità, è altrettanto vero che il più delle volte preferiamo la menzogna, perché il ponte tra sincerità e felicità ci sembra traballante e così preferiamo sostare nelle acque quiete del piacere.
La via di fuga dinnanzi alla domanda radicale su noi stessi si chiama nascondimento.  Torniamo all’immagine biblica: “Il signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: <<Dove sei?>>. Rispose: <<Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto>>” (Gn 3,9-10). Paura e nascondimento. Attenti bene: paura della propria nudità, paura di sé. Conseguenza? Il nascondimento. Dove? Vediamo.
Sono diversi i luoghi protetti nei quali possiamo nasconderci dalla domanda su noi stessi.  Ne prendo in esame tre rifacendomi a due giganti del pensiero contemporaneo.
Kierkegaard individua e descrive due di questi luoghi: il piacere e il dovere.  InDiario di un seduttore, così descrive la figura di don Giovanni : “Egli desidera e continua sempre a desiderare, e continua a godere il soddisfacimento del desiderio, senza esserne mai sazio. Per essere un vero seduttore  gli manca il tempo. Non ha tempo prima, per fare il suo progetto, non ha tempo dopo per divenire cosciente della sua azione”. Don Giovanni è disperato perché,  in balia del piacere, dimentica se stesso, certamente fuggendo l’angoscia derivante dalla scelta, ma incamminandosi verso la disperazione frutto dell’inautenticità del vivere.
 Il secondo luogo di nascondimento è dato dai doveri, dalla vita etica. Se essa prende avvio da una giusta riappropriazione di sé e del proprio ruolo socialepuò però sfociare in una sorta di sopravvalutazione di questo ruolo fino a far dimenticare la ineludibile fragilità della condizione umana, a tal punto da far precipitare la vita in una costante azione di pentimento.
Bisogna considerare che il confine tra le due  condizioni di nascondimento è più labile di quel che appare ad una prima considerazione. Spesso il pentimento nasce dall’ipertrofia dell’io, da una concezione di sé del tutto smisurata unita ad una sorta di atteggiamento masochistico.
La terza via di fuga ce la indica Heidegger quando parla di pensiero impersonale. Così scrive in Essere e tempo: “In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua tipica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica” . La grande casa del pensiero comune è deresponsabilizzante. Si tratta di una direzione segnata, una sorta di rotaia sulla quale viaggiare evitando di chiedersi perché si scelga una determinata direzione.   
Ma perché ci si nasconde di fronte alla domanda, di cosa abbiamo paura? La risposta è semplice e, al tempo stesso drammatica: abbiamo paura di aver fallito, di aver sprecato l’unica buona occasione che avevamo: la vita.  Questa sorta di terrore nasce, in fondo, da una grande confusione, dall’aver dato alla realizzazione umana il significato della realizzazione sociale. Ecco perché la sconfitta è vista come male. Siamo in un pensiero  retto da standard sociali. Se tornassimo a dare alla realizzazione la sua accezione personale, ci troveremmo a riflettere sul’autenticità del vivere, e autentica può essere anche una sconfitta.

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