sabato 9 marzo 2013
La bontà è la solidarietà fattasi così connaturale a un individuo, da aver quasi perso quella connotazione di fatica che sempre accompagna l’impegno etico, e da lasciar trasparire la gioia e la gloria della sua fonte
C’è un nascondersi della solidarietà nel mondo, una sua segretezza che permane anche negli atti dove più potente e pubblica è la sua efficacia. Ciò che gli occhi umani videro guardando Gesù crocifisso non fu il suo amore ma il suo fallimento. Soltanto gli occhi della fede arrivarono, dopo pentecoste, a vedere in quel corpo esanime e in quella biografia stroncata e stravolta l’atto di una suprema libertà d’amore; soltanto allora lo “è stato consegnato alla morte” si trasfigurò in “ha amato e si è consegnato alla morte” (Gal 2, 20; Ef 5, 2.25). Il nascondimento dell’amore ha però alcuni tratti o momenti manifestativi. Voglio accennare a due di essi: la bontà e la celebrazione. La bontà è la solidarietà fattasi così connaturale a un individuo, da aver quasi perso quella connotazione di fatica che sempre accompagna l’impegno etico, e da lasciar trasparire la gioia e la gloria della sua fonte. Perciò la bontà, epifania minima, è la originaria parola su Dio, è il grande racconto religioso e cristiano in nuce. Essa dice in maniera incontrovertibile, perché trasparenza della realtà detta, che esiste l’amore e dunque la prima parola del mondo non è il destino né l’ultima l’ingiustizia. La bontà è perciò anche la prima evangelizzazione. Accanto a questo segno esistenziale, c’è il segno celebrativo. Tutta la liturgia cristiana non è che una concentrazione del grande racconto in forma dossologica, cioè di ringraziamento e di lode. Essa canta la sostanza trinitaria della solidarietà: l’amore del Padre che la genera, la grazia del Figlio che la incarna, la comunione dello Spirito che la porta a compimento (2Cor 13, 13). (Armido Rizzi, Teologia della Solidarietà).
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