Essere disponibili per ogni esperienza,
giudicandola esclusivamente in base
alle sensazioni più o meno forti che ne derivano,
magari per dimostrare a se stessi
e agli altri una spregiudicata signoria del proprio tempo;
osare fino al limite per il discutibile vanto di trasgressioni
che ci fanno sentire molto speciali.
In questa ricerca, che induce in realtà a lasciarsi passivamente divorare dall'illusione di un'eterna adolescenza,
c'è il segno di una disperata fuga dal tempo.
Ingenua strategia dell'evasione,
dove l'uomo si consegna interamente al consumo,
possibilmente irresponsabile, del tempo,
attraverso il quale egli cerca di transitare
come in una specie di piacevole stordimento
che renda insensibili a ciò che è brutto e penoso.
Così si neutralizza il peso del tempo in cui siamo costretti
a riflettere, a decidere, a portare responsabilità:
il tempo della formazione personale,
della convivenza familiare,
dell'applicazione al lavoro,
del vincolo sociale,
tempi inevitabilmente segnati dalla routine e dalla banalità,
dal rischio e dalla fatica,
dall'errore e dalla colpa,
da una serie di tensioni e di sofferenze
che sono molto difficili da portare e alle quali si preferisce non guardare in faccia.
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