Non ho potuto fare a meno e propongo da http://speculummaius.wordpress.com/category/amarezze/ . Costringiamoci a vedere le cose in maniera più cruda, disincantata, onesta (forse). Ci si rimbocca le maniche e lo si fa. Magari viene fuori anche una cosa più bella. Però insieme...
Il vantaggio di vivere un’epoca di declino in cui sai che – alla fine (ci sarà pure una fine, no?) – nulla potrà più essere come prima spinge a vedere le cose in maniera più cruda, disincantata, onesta (forse).
Davide scrive
Nessuno è innocente, in fondo. Anche le “vittime”.
Non lo sono quelli che hanno regalato il proprio tempo, il proprio studio e le proprie energie ad un’istituzione che non li pagava per farlo, anche quando “il motore” è stata la passione verso il proprio campo di ricerca e per il suo insegnamento. Anche loro (ed io sono tra questi) hanno contribuito ad alimentare un sistema perverso, che si è retto per decenni sullo sfruttamento della catena gerarchica della cultura. Senza i cultori della materia, i dottorandi e i ricercatori a reggere tutta la giostra degli esami, tesi, pubblicazioni, ecc. ecc. , la baracca sarebbe andata giù ben prima di arrivare a quell’era di declino inaugurata dall’autonomia.
Non lo sono i professori onesti che si sono scavati la loro nicchia per studiare, chiudendo occhi e orecchie per sopportare il mercanteggio che li circondava, essendo apparentemente impotenti rispetto alla graniticità del sistema.
Non lo sono gli studenti che hanno subito un vertiginosa caduta della qualità dell’insegnamento senza fiatare, quando hanno obiettato sulla composizione delle commissioni solo se c’era un componente da cui non volevano essere interrogati, quando hanno usato l’università in modo mercantilistico e acritico, affollando gli opzionali “facili” (anche quando vergognosi) e imparando a memoria senza discutere cose che non capivano solo perché il professore le voleva così.
Con questo non voglio certo minimizzare il ruolo di chi ha svenduto pezzi della cultura di tutti “giocandosi” i posti dei concorsi universitari (a tutti i livelli) e depauperando – come ho già scritto altrove – intere aree di ricerca. Però, se noi tutti avessimo reagito insieme, forse qualcosa poteva cambiare…
Ma siamo nel Paese che ha fatto del familismo amorale la sua bandiera e ci ritroveremo in mezzo alle macerie, impossibilitati ad andare avanti come a tornare indietro. Ed è quello che temo di più.
Se qualcosa è da ricostruire, ci si rimbocca le maniche e lo si fa. Magari viene fuori anche una cosa più bella. Quello che invece l’azione governativa di dequalificazione del sistema pubblico di istruzione – da una parte – e l’istinto di sopravvivenza della corporazione accademica – dall’altra – rischiano di provocare è uno stallo culturalmente suicida, che ci porterebbe a rimanere tra le macerie, accampandoci alla men peggio tra di esse e contendendoci i resti meglio conservati. Che sempre macerie resterebbero.
Una prospettiva che mi pare ben peggiore di una tabula rasa…
Il vantaggio di vivere un’epoca di declino in cui sai che – alla fine (ci sarà pure una fine, no?) – nulla potrà più essere come prima spinge a vedere le cose in maniera più cruda, disincantata, onesta (forse).
Davide scrive
credo che qualsiasi nazione non sappia dare il meglio ai propri elementi migliori meriti solo di colare a picco, esattamente come qualsiasi azienda che non abbia avuto l’intelligenza di guardare al futuro.E se guardi onestamente la storia dell’accademia negli ultimi decenni, lasciata libera da ogni freno che le impedisse di perdersi nell’osservazione del proprio ombelico (e dei propri esclusivi e particolaristici interessi), alla fine la storia di Sansone e dei Filistei ha un suo perché.
Nessuno è innocente, in fondo. Anche le “vittime”.
Non lo sono quelli che hanno regalato il proprio tempo, il proprio studio e le proprie energie ad un’istituzione che non li pagava per farlo, anche quando “il motore” è stata la passione verso il proprio campo di ricerca e per il suo insegnamento. Anche loro (ed io sono tra questi) hanno contribuito ad alimentare un sistema perverso, che si è retto per decenni sullo sfruttamento della catena gerarchica della cultura. Senza i cultori della materia, i dottorandi e i ricercatori a reggere tutta la giostra degli esami, tesi, pubblicazioni, ecc. ecc. , la baracca sarebbe andata giù ben prima di arrivare a quell’era di declino inaugurata dall’autonomia.
Non lo sono i professori onesti che si sono scavati la loro nicchia per studiare, chiudendo occhi e orecchie per sopportare il mercanteggio che li circondava, essendo apparentemente impotenti rispetto alla graniticità del sistema.
Non lo sono gli studenti che hanno subito un vertiginosa caduta della qualità dell’insegnamento senza fiatare, quando hanno obiettato sulla composizione delle commissioni solo se c’era un componente da cui non volevano essere interrogati, quando hanno usato l’università in modo mercantilistico e acritico, affollando gli opzionali “facili” (anche quando vergognosi) e imparando a memoria senza discutere cose che non capivano solo perché il professore le voleva così.
Con questo non voglio certo minimizzare il ruolo di chi ha svenduto pezzi della cultura di tutti “giocandosi” i posti dei concorsi universitari (a tutti i livelli) e depauperando – come ho già scritto altrove – intere aree di ricerca. Però, se noi tutti avessimo reagito insieme, forse qualcosa poteva cambiare…
Ma siamo nel Paese che ha fatto del familismo amorale la sua bandiera e ci ritroveremo in mezzo alle macerie, impossibilitati ad andare avanti come a tornare indietro. Ed è quello che temo di più.
Se qualcosa è da ricostruire, ci si rimbocca le maniche e lo si fa. Magari viene fuori anche una cosa più bella. Quello che invece l’azione governativa di dequalificazione del sistema pubblico di istruzione – da una parte – e l’istinto di sopravvivenza della corporazione accademica – dall’altra – rischiano di provocare è uno stallo culturalmente suicida, che ci porterebbe a rimanere tra le macerie, accampandoci alla men peggio tra di esse e contendendoci i resti meglio conservati. Che sempre macerie resterebbero.
Una prospettiva che mi pare ben peggiore di una tabula rasa…
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