La consapevolezza consiste nel renderci perfettamente trasparenti alla verità profonda di ogni realtà: di se stessi, degli altri, delle cose, degli eventi e di Dio. Chi coglie le verità - attraverso l’introspezione, non meno che ponendosi dinanzi allo specchio della parola di Dio ed entrando in dialogo con la propria guida spirituale - chi la coglie, dicevamo, non può non operare il bene, fosse pure la sua azione in contrasto con la legge. E per questo è detto beato. All’opposto, dovrà essere considerato maledetto e trasgressore non chi contraddice materialmente alla legge, ma chi non la osserva per mancanza di consapevolezza. Forse questo secondo aspetto parrà più problematico, che cioè sia privo della beatitudine chi disattende alla legge, non rendendosi conto di quello che fa (o non fa), ma basta pensare all’importanza che in tutta la Bibbia riveste l’intenzionalità, la presenza a se stesso, la vigilanza. Sono note le messe in guardia rivolte, nell’Antico Testamento, al popolo giudaico, in ordine all’Alleanza (Dt 4,23), al Decalogo (Dt 8,1), alla preghiera (Dt 6,4). In questo caso si raccomandava di recitare lo Shemà, l’«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è l’unico» (Dt 6,4), conkawwanah, ossia con grande concentrazione, prolungando la parola “unico”, finché non si fosse riconosciuto «Dio re, in alto e in basso e ai quattro angoli del cielo», come si legge nel Talmùd babilonese.
Nel Nuovo Testamento è vigorosamente sottolineata l’esigenza di vigilare, come vedremo meglio a suo tempo.
Consapevolezza: una beatitudine (Antonio Gentili)
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