Di questi tempi, con l'italiano che va a ramengo, occuparsi di poesia non fa che bene. Il poeta in genere la sa lunga sulla lingua, la sa lavorare a utilizzare a dovere. Prende delle parole e le ricongiunge per creare similitudini nuove, per inventare nuove combinazioni. Inventa metafore, con grande libertà. Cosa che non succede nella lingua comune, dove prevalgono di solito metafore scontate, «metafore morte». Lo scrittore invece risveglia le assopite, o ne propone di nuove.
La poesia ti abitua alla concisione, riesce attraverso cortocircuiti di analogie a dire di più rispetto al parlare solito. È il miglior modo a nostra conoscenza per dire cose con il minor numero di parole possibile: un concentrato di parole e di immagini. In una società dominata dallo sperpero, o dalla fretta che abitua all'approssimazione, al grosso modo, la poesia è l'antidoto. Ci viene incontro come arte della precisione puntigliosa. Abitua all'uso della parola giusta, messa al suo posto giusto. Fa pensare, meditare, indugiare.
Di una poesia si possono anche montare e smontare i pezzi, vedere come funzionano. Così i ragazzi scoprono man mano che il poeta sa più di altri giocare con le più sottili figure della retorica, con le metafore e le immagini più ardite. Di solito in poesia ci si imbatte in parole non banali, o che non ci aspettiamo, in sintagmi inattesi, a volte scioccanti, «strani», lontani dall'uso comune.
Nel mezzo di una comunicazione oggi più che mai nutrita di frasi fatte, la poesia ci mostra come sia fruttuoso stare alla larga dal preconfezionato, dal grigio del prefabbricato. Ci insegna a disfare le frasi fatte.
Gianluigi Beccaria sulla Stampa di sabato 29 maggio
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