venerdì 23 luglio 2010

LA PREGHIERA DEL SILENZIO


del vescovo Anthony Bloom

Quando diciamo che stiamo dinanzi a Dio, pensiamo sempre che siamo qui, e che Dio è là, esterno a noi. Se cerchiamo Dio in alto, davanti o attorno a noi, non lo troveremo. San Giovanni Crisostomo diceva: “Trovate la porta della camera segreta del vostro cuore, e scoprirete che è la porta del Regno dei cieli”. Sant’Efrem il Siro dice che Dio, quando creò l’uomo, mise nel più profondo di lui tutto il Regno, e che il problema della vita umana è di scavare abbastanza in profondità per giungere fino al tesoro nascosto. È per questo che, per trovare Dio, dobbiamo scavare, alla ricerca di questa camera segreta, di questo luogo dove si trova il Regno di Dio al cuore stesso del nostro essere, dove Dio e noi possiamo incontrarci.



Il migliore strumento, quello che supererà tutti gli ostacoli, è la preghiera. Il problema è di pregare con attenzione, semplicemente e nella verità, senza sostituire il vero Dio con un falso dio qualunque, con un idolo, con un prodotto della nostra immaginazione, e senza cercare di vivere un’esperienza mistica. Concentrandoci su ciò che diciamo, certi che ogni parola che pronunciamo raggiunge Dio, possiamo utilizzare le nostre parole, o le parole di quelli che sono più grandi di noi per esprimere meglio, di quanto lo potremmo noi, ciò che proviamo o sentiamo oscuramente in noi. Non è con la molteplicità delle parole che saremo ascoltati da Dio, ma con la loro veridicità. Quando usiamo le nostre parole, dobbiamo parlare a Dio con precisione, senza cercare di farla lunga o farla corta, ma parlare con verità.



Ci sono momenti in cui le preghiere sono spontanee e facili, altre dove ci sembra che la fonte si sia esaurita. È allora che è necessario utilizzare le preghiere di altri che esprimono fondamentalmente ciò che crediamo, tutte queste realtà che in questo momento non sono vivificate da una reazione profonda del nostro cuore. Dobbiamo allora pregare con un doppio atto di fede, non soltanto in Dio ma anche in noi stessi, fiduciosi in questa fede che si è offuscata ma che fa tuttavia parte integrante del nostro essere.



Ci sono momenti in cui non abbiamo alcun bisogno di parole, né delle nostre né di altri, e preghiamo allora in silenzio. Questo silenzio perfetto è la preghiera ideale, purché tuttavia il silenzio sia reale e non un sogno ad occhi aperti. Abbiamo molta poca esperienza di ciò che significa il silenzio profondo del corpo e del cuore, quando una serenità assoluta riempie il cuore, quando una pace totale riempie il corpo, quando non c’è nessuna agitazione di nessun tipo e ci troviamo dinanzi a Dio, completamente aperti in un atto d’adorazione. Ci possono essere momenti in cui ci sentiamo bene fisicamente, e mentalmente rilassati, stanchi delle parole perché ne abbiamo già troppo utilizzato; non vogliamo agitarci e ci sentiamo bene in quest’equilibrio delicato; ci troviamo là sul bordo del sogno ad occhi aperti. Il silenzio interiore è un’assenza di qualsiasi tipo di agitazione del pensiero o delle emozioni, ma è una vigilanza totale, una apertura a Dio. Dobbiamo conservare il silenzio assoluto quando lo possiamo, ma non dobbiamo mai lasciarlo degenerare in un semplice piacere. Per evitare ciò, i grandi autori dell’Ortodossia ci avvertono di non abbandonare mai completamente le forme normali della preghiera, poiché anche coloro che avevano raggiunto questo silenzio della contemplazione giudicavano necessario, ogni volta che erano in pericolo di rilassamento spirituale, reintrodurre le parole della preghiera fino a che la preghiera avesse rinnovato il silenzio.



I Padri Greci mettevano questo silenzio, che chiamavano hesychia, allo stesso tempo come punto di partenza e punto d’arrivo di una vita di preghiera. Il silenzio è lo stato nel quale tutte le facoltà dell’anima e del corpo sono completamente in pace, calme e raccolte, concentrate e perfettamente vigilanti, libere da qualsiasi agitazione. I Padri utilizzano spesso nei loro scritti l’immagine dello stagno: finché ci sono delle crespe sulla superficie, nulla può essere correttamente riflesso, né gli alberi né il cielo; quando la superficie è completamente calma, il cielo si riflette perfettamente, come gli alberi della riva, e tutto è distinto come nella realtà.



Un’altra immagine dello stesso tipo utilizzata dai Padri è quella del fango che, finché non si posa sul fondo dello stagno, lontano da qualsiasi agitazione, intorbida la trasparenza dell’acqua. Queste due analogie si applicano allo stato del cuore umano. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Matteo 5, 8). Fino a quando il fango è agitato nell’acqua, non è possibile una visione chiara, e fino a quando ci sono crespe sulla superficie, gli oggetti che circondano lo stagno non possono riflettersi senza deformazioni.



Fino a quando l’anima non è in riposo, non ci può essere visione, ma quando la pace ci ha permesso di trovarci in presenza di Dio, allora un altro tipo di silenzio, molto più assoluto, interviene: il silenzio di un’anima che non è soltanto calma e raccolta, ma alla quale la presenza di Dio impone rispetto e adorazione; un silenzio nel quale, secondo le parole di Giuliana di Norwich, “la preghiera unisce l’anima a Dio”.


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