lunedì 30 agosto 2010

Pensaci tu

Compleanno...senza questa consapevolezza la vita si perderebbe nel vuoto e nel non senso

Ho ricevuto con molto piacere e con grato entusiasmo un libro di Pavel Florenskij "ai miei figli" nel giorno del mio sessantesimo compleanno. Si sa che un dono rende presente la persona che te lo fa e te la rappresenta. In questo caso, vista la statura dell'autore, me la fa apparire enormemente cara e da lustro alla persona speciale qual'è di suo. Sto imparando a volerle bene e spero, se vorrà, con discrezione paterna. La voglio ringraziare con alcune parole tratte da un altro libro dello stesso autore pubblicato da Mondadori con il titolo Non dimenticatemi
Il pensiero di un uomo, le sue convinzioni di vita, le sue riflessioni e la sua visione della storia del momento in queste lettere, in queste parole che Florenskij rivolge sì ai familiari ma anche in qualche modo, a tutti: “essere e non apparire, costruire una disposizione d’animo chiara e trasparente, una percezione del mondo integrale, e coltivare con attenzione e in modo disinteressato il pensiero.” (13 maggio 1937). E ancora: “Non tradire mai le tue più profonde convinzioni interiori per nessuna ragione al mondo. Ricorda che ogni compromesso porta a un nuovo compromesso, e così all’infinito.
Inoltre, nel “Testamento” rivolgendosi ai figli, Florenskij scrive: “Non fate le cose in maniera confusa, non fate nulla in modo approssimativo, senza persuasione, senza provare gusto per quello che state facendo. Ricordate che nell’approssimazione si può perdere la propria vita! (…) Cari figli miei, guardatevi dal pensare in maniera disattenta. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che ci si prenda cura con tutte le forze del suo oggetto. (…) Quando proverete tristezza nel vostro animo guardate le stelle oppure il cielo di giorno. Quando siete tristi, offesi, sconsolati o sconvolti per un tormento dell’anima, uscite all’aria aperta e fermatevi in solitudine immersi nel cielo. Allora la vostra anima troverà quiete.

Nella lettera rivolta alla moglie: “Ognuno ha il proprio dolore e la propria croce. Perciò non lamentarti della tua. In questo periodo attorno a me ho visto tanto dolore in tutte le sue forme e le sue cause, che ciò mi ha distolto completamente dal mio.” (23-24 marzo 1934).
Ma “vedere nell’altro realmente una persona che ami (28 aprile 1936)” è la convinzione di fede di Florenskij sacerdote e teologo poiché egli ha la “ferma convinzione che al mondo niente si perde, né di bene né di male, e presto o tardi lascerà il suo segno. (…) La mia più intima persuasione è questa: nulla si perde completamente, nulla svanisce, ma si custodisce in qualche tempo e in qualche luogo. Ciò che è immagine del bene e ha valore rimane, anche se non cessiamo di percepirlo (…) senza questa consapevolezza la vita si perderebbe nel vuoto e nel non senso” (23 febbraio 1937
)
È una consapevolezza forse maturata giorno dopo giorno, grazie anche ai suoi studi scientifici, matematici, filosofici, sicuramente sentita e provata da questo grande teologo e uomo di fede.

questi figli prodighi non hanno trovato nessun padre ad attenderli

Ho letto con molta ansia e desiderio di rispondere con la vita a questo testo della Susanna Tamaro che riporto intregralmente da http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126508. Mi piacerebbe  offrire il mio tempo e la mia vita per la causa. Voglio mettermi a disposizione , ma non farò un dramma se non avrò mandato per questo ministero. Anche questo è imparare le virtù del Padre: scruterò le strade che riportano a casa e attenderò sulla torre pronto ad abbandonarla per correre incontro a chi vorrà far ritorno.
Poche settimane fa il Papa ha istituito un nuovo organismo, nella forma di «Pontificio Consiglio», con il compito di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi che stanno vivendo una «progressiva secolarizzazione» e una sorta di «eclissi del senso di Dio». Da cosa, da chi dipende questa «grave crisi del senso della fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa» di cui parla Benedetto XVI e a cui questo nuovo dicastero vorrebbe porre rimedio? Da anni mi trovo a vivere in una posizione di confine. Non ho avuto, in famiglia, un’educazione cattolica, anzi, provengo da un ambiente ateo, anticlericale e massone ma avendo una natura inquieta, nel corso della mia vita, ho fatto un lungo cammino spirituale che mi ha riavvicinato al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Non è stato un cammino lineare né sempre luminoso, la via interiore, infatti, è un continuo confronto con il male.
Se la mia fede esiste - e resiste - è perché continuo a studiare, a leggere, a interrogarmi e ad accettare anche giorni in cui mi sembra di non credere. Negli ultimi dieci anni molte altre persone della mia generazione hanno intrapreso un percorso simile, lasciandosi alle spalle ideologie politiche, new age e vari movimenti orientali per tornare alla fede del Vangelo ma, nella maggior parte dei casi, questi figli prodighi non hanno trovato nessun padre ad attenderli. Così, dopo un periodo di grande trasporto, non trovando interlocutori né accoglienza, si sono nuovamente allontanati.
La Chiesa infatti - nonostante i molti dibattiti tra laici e credenti - continua a essere autoreferenziale, a respingere chi è in ricerca e a diffidare profondamente di chi ha fatto un percorso spirituale diverso. Come mi disse un giorno un prete irritato - al quale stavo spiegando il sentito e tardivo riavvicinamento alla fede di un’amica di cui avrebbe dopo poco celebrato il funerale - «gli ultimi mesi non contano niente, bisogna stare da sempre nella Chiesa», dimostrando così un’ammirevole pienezza evangelica. Malgrado tutti i discorsi sull’apertura, sulla nuova evangelizzazione, la Chiesa continua a essere una struttura solo apparentemente accogliente, accoglie giustamente i poveri, si prodiga con generosità per alleviare le sofferenze degli ultimi, ma spesso, in questa bulimia di buone azioni, si dimentica delle inquietudini delle persone normali. Mancano i padri e le madri spirituali, persone credibili, che abbiano fatto un cammino, che conoscano la complessità e la contraddittorietà della vita e che, con umiltà e pazienza, sappiano accompagnare le persone lungo questa strada, senza giudicare e senza chiedere risultati.
Nel padre o nella madre spirituale non c’è niente di nuovo, bensì qualcosa di straordinariamente antico: la sete di un’anima che incontra un’altra anima in grado di aiutarla a cercare l’acqua. Non occorrono nuovi «input», nuovi dicasteri, nuove sfide, nuovi raduni oceanici. Occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste una parte di mistero e che questa parte va nutrita. La natura umana è sempre uguale e, per crescere interiormente, richiede le stesse cose oggi come ai tempi dei padri del deserto. Se così non fosse, non si spiegherebbe il fascino che ancora ha, ad esempio, San Francesco che da più di ottocento anni continua a parlare e a commuoverci con le sue parole e la sua vita. San Francesco infatti era un Santo. E cosa vuol dire Santo? Essere una persona integra, totale, una persona che non ha doppiezze, fraintendimenti, che conosce solo il «sì sì, no no» di evangelica memoria. Sono così la maggior parte delle persone di Chiesa che ci vengono incontro, che parlano dai pulpiti delle parrocchie, in televisione, sui giornali? Hanno sguardi luminosi? Le loro bocche parlano davvero della pienezza del cuore? Sono forze di santità? E se lo sono, perché non arrivano, perché le loro parole lasciano per lo più indifferenti, se non irritati? Perché non faccio altro che incontrare persone buone, rette, etiche, che si sono allontanate per sempre dalla Chiesa dopo esperienze deteriori con i suoi rappresentanti? Dove «deteriore» non è solo il caso estremo del pedofilo, ma anche quello più semplice del sordido, dell’ignavo, del gretto, comunque del doppio? Perché, nel cattolicesimo, è concessa questa doppiezza? La bocca si riempie di parole alte, ma la vita, spesso, non le manifesta. La coerenza non sembra essere richiesta. Eppure, dove la coerenza c’è, dove c’è testimonianza della pienezza della vita di fede, le chiese sono piene, i nuovi eremiti sparsi sull’Appennino hanno il problema di gestire il flusso delle persone che ininterrottamente va da loro. Già, perché questi sono tempi di grande inquietudine e di grande ricerca. L’uomo in cammino non si accontenta più di formule, di luoghi comuni, di convenzioni sociali, è molto più esigente, cerca risposte vere e profonde alle domande che ha dentro. Questa sete di verità e bellezza non può venire soddisfatta dalla mediocrità delle vite e delle testimonianze né da una liturgia che ha abbandonato il sacro diventando sempre più simile a una sorta di intrattenimento televisivo. Se una nuova evangelizzazione ci deve essere, dovrebbe dunque riguardare prima di tutti gli uomini e le donne della Chiesa, responsabili purtroppo - in molti, troppi casi - dell’allontanamento dalla fede di tante persone di valore.
Forse è il momento di capire che non è la quantità dei sacerdoti, ma è la qualità a fare la differenza. E la qualità non dipende dalla preparazione teologica, dai convegni, dai master accumulati, ma dalla purezza dell’anima che si arrende alla Grazia. Un’anima arresa è un’anima che converte, che disseta. Un’anima che traffica, organizza, o si assopisce sui suoi privilegi, è un’anima che allontana. Viene il sospetto che questo nuovo dicastero rischi di diventare soltanto l’ennesimo coperchio messo sulla pentola, per non guardare quello che bolle dentro. Nuove cariche, nuovi poteri, nuovi segretari, nuovi bilanci. C’è davvero bisogno, è questo che avvicinerà la gente? O c’è bisogno piuttosto di una grande cura di umiltà? Cancellare i moralismi, i pregiudizi, la pigrizia, la sete di potere e tutta quella zavorra che nulla ha a che vedere con la fede e appesantisce e rende tanto ostile il cattolicesimo agli uomini contemporanei. I nostri tempi hanno bisogno estremo di santità, come ha detto il Papa di recente all’ anno sacerdotale, perché davanti alla cosificazione dell’uomo, è l’ unica condizione che lo riporta alla straordinaria grandezza per cui è nato. Santità non è un’inerme arrendevolezza, ma è una forza di pienezza, un essere dell’uomo nella totalità compiuta dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, capace così di compiere ogni suo atto nella luce dell’ amore.
Link utili:
http://www.susannatamaro.it
(Teologo Borèl) Agosto 2010 - autore: Tamaro Susanna

domenica 29 agosto 2010

la verità è divenuta oggetto di un sapere dichiarativo, che pronuncia statuti di corrispondenza immediati tra parola e cosa, perdendo l'antica dimensione di tensione interrogante e mistero inspiegabile

La ricerca della verità, probabilmente per la consapevolezza di non poterla mai raggiungere né possedere, è da sempre uno degli obiettivi del pensiero degli esseri umani. Nell'epoca attuale, sembra che la sola via per l'accesso a una qualche verità sia garantita dal sapere scientifico, in quanto sapere «efficace» e attendibile; la verità è divenuta oggetto di un sapere dichiarativo, che pronuncia statuti di corrispondenza immediati tra parola e cosa, perdendo l'antica dimensione di tensione interrogante e mistero inspiegabile.
                Persino l'essere umano viene ridotto a un mero ricettore e trasmettitore di impulsi elettrici e chimici: il cervello come computer, il corpo umano come macchina, i cui componenti possono essere sostituiti da microchip e dispositivi bioingegneristici. Ma è pura ideologia neonaturalistica sostenere che gli esseri umani possano essere descritti scientificamente come automi pensanti. Un tale cieco meccanicismo lascia fuori elementi, come la felicità e il dolore, che non sono spiegabili secondo il discorso scientifico.
                Come conseguenza estrema della volontà di uccidere Dio, oggi, con le teorie post-umane, neuroscientiste e cognitiviste, siamo di fronte a un tentativo di «uccidere l'uomo», mettendo in crisi la dimensione della «soggettività» che ne ha accompagnato la vicenda storica. Ma nessun isomorfismo tra vivente umano e organismi post-umani potrà mai cancellare l'angoscia dell'interrogazione e dell'istituzione della coscienza, che ci è stata tramandata, nei secoli, da poeti e filosofi.
                Affinché gli esseri umani ritrovino il senso della propria identità spirituale e della propria vocazione storica, è necessario, come sosteneva Simone Weil, che ritorni in campo il discorso dell'amore e della verità che cerca la bellezza e il bene, al di là dei limiti dell'utile. Nella vita concreta, la verità è sempre assoluta, ma proprio per questo trascende sempre la situazione concreta; è una misteriosa sensazione di aderenza al mondo e di condivisione di affetti che si può solo provare, senza trasformarla in un concetto.
                L'esperienza della «vita che si sa», per usare le suggestive parole di María Zambrano, è immanenza che si autotrascende per necessità, inscritta nel codice degli esseri umani; ma si rischia di smarrirla se la corazza dei concetti appare più appetibile per il quieto vivere dell'individuo conformista. Solo il recupero dell'intima connessione tra esperienza e pensiero può restituire dinamismo creativo a un'epoca divenuta incapace di pensare e di sentire.
                Questo è possibile solo con il «sapere affettivo», un sapere che attiene alle trasformazioni soggettive e alle relazioni, attraverso cui l'individuo può aprirsi a una nuova visione, in cui la propria dimensione personale sia sottratta al calcolo delle utilità.
                Se si vuole evadere dalla prigione della solitudine e dall'angoscia della morte, bisogna consegnarsi all'incontro con l'altro completamente disarmati. Offrire l'altra guancia non è un principio etico, ma una conquista «filosofica», l'abbandono della pretesa dell'io onnipotente di poter influire sulla vita degli altri in forza della propria autorità e dei propri argomenti.
                Quello che mi piace definire «discorso inutile» è un discorso interattivo, in cui non è possibile distinguere chi dona da chi riceve, è un discorso che tende a trasformarsi in dialogo creativo su una nuova visione delle cose, in cui sperimentare la capacità co/creativa degli esseri umani e la loro attitudine ai processi di interiorizzazione affettiva, è un discorso con cui aprirsi alla costruzione di un nuovo spazio mentale, in cui si manifestano percezioni ed elaborazioni altrimenti impossibili e si avvertono emozioni che non si possono provare in solitudine. Perché questo sia possibile, bisogna fare un esercizio su se stessi molto forte, che mi piace definire «arte di disarmarsi»: cominciare ad aprire la propria armatura caratteriale per lasciare entrare i significati dell'altro e lasciare uscire i propri.
                La «verità» dell'incontro trascende ogni norma, è l'incontro stesso, ma affinché accada bisogna spogliarsi di ogni pregiudizio: l'«arte di disarmarsi» è la trasformazione delle proprie resistenze in domande aperte all'interrogazione su se stessi e il mondo. La persona di Cristo è un esempio vivente di quello che definisco il «disarmo»: la forza di chi si mette a disposizione degli altri e si lascia crocifiggere per testimoniare che la vita si salva se la si perde.
                L'essere umano non è mai la propria autorappresentazione, non è soltanto ciò che pensa di essere né soltanto la rappresentazione che dà agli altri; ciascuno è il contenitore del proprio racconto e del proprio desiderio che proietta verso il futuro. Ma l'attuale società del godimento immediato, dell'immediatezza senza svelamento che cancella ogni oltremondano, distrugge il desiderio, nella sua insaturabilità, in quel non poter essere soddisfatto che costituisce la spinta in avanti per la sua realizzazione.
                L'incontro è un evento, è l'improvviso sconfinamento di sé dentro l'altro che si ha di fronte, è l'immediata risposta positiva a una disponibilità, nella gratuità assoluta, è la comunicazione della psiche: riuscire a pensare i pensieri dell'altro, pensare l'altro come una parte di sé in cui ripercorrere quello che si ha dentro. Dall'esperienza dell'incontro rinasce la capacità di creare nuovi universi simbolici e nuovi orizzonti di senso.
                Senza incontro, non può esserci nemmeno la presenza, che si costruisce soltanto in «comunione» con l'altro: è una mobilitazione affettiva, in cui le differenze si confrontano senza annullarsi, in un atto d'amore che istituisce un nuovo spazio mentale. Se si riesce a mantenere aperto il desiderio e non vivere la sua mancata realizzazione come una frustrazione, ma come una carica energetica, si vive la sensazione di essere presente, di esserci di per sé, di essere con se stessi in un modo talmente soddisfacente da potersi aprire all'altro.
                Essere nudi di fronte al mondo, spogliarsi di tutto ciò che si utilizza per difendersi dalla possibilità che gli altri possano entrare: questa è la presenza, indispensabile presupposto dell'incontro. Non ci si può incontrare se non si è presenti, non si può essere presenti se ci si chiude nell'isolamento del monadismo. Per far circolare l'affettività, bisogna pensare alla mente dell'altro e alle sue rappresentazioni; costruire un percorso relazionale in cui, dando affettività, se ne riceve altra.
                Solo con questa esperienza di incontro si può sentirsi pieni e pienamente presenti, rendersi responsabili della domanda che si riceve dall'altro e accogliere la domanda. Siamo esseri fondamentalmente interroganti, perché vogliamo capire il senso dello stare al mondo, ma senza ascoltare l'altro l'interrogazione resterebbe sempre senza risposta.
(Quaderni Cannibali) Agosto 2010 - autore: Pietro Barcellona
http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=126503

sabato 28 agosto 2010

Alleluia



1) Now, I've heard there was a secret chord
That David played and it pleased the Lord
But you don't really care for music, do you?
It goes like this: the fourth, the fifth
The minor fall, the major lift
The baffled king composing Hallelujah


Ora, ho saputo dell'esistenza di una melodia segreta (1)
che Davide suonava e compiaceva il Signore (2)
ma tu non ti interessi veramente di musica, non è vero?
Funziona così: la quarta, la quinta
la minore, aumentata, la maggiore diminuita.
Il re turbato compose un Hallelujah

Hallelujah
Hallelujah
Hallelujah
Hallelujah


Alleluia (3)
Alleluia
Alleluia
Alleluia

2) Your faith was strong but you needed proof
You saw her bathing on the roof
Her beauty and the moonlight overthrew you
And she tied you to a kitchen chair
She broke your throne and she cut your hair
And from your lips she drew the Hallelujah


La tua fede era forte ma avevi bisogno di una prova
avevi visto lei mentre faceva il bagno sulla terrazza
la sua bellezza e la luce della luna ti avevano sopraffatto (4)
e lei ti ha legato ad una sedia della cucina
ha infranto il tuo trono ed ha tagliato i tuoi capelli (5)
e dalle tue labbra ha tirato fuori l'Hallelujah (6)

Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah


Alleluia
Alleluia

2A) There was a time you let me know
What's really going on below
But now you never show it to me, do you?
And I remember when I moved in you
The holy dove she was moving too
And every breath we drew was Hallelujah


C'è stato un tempo nel quale mi hai lasciato capire
cosa accadeva veramente
ma ora non me lo mostri più, non è vero?
E mi ricordo quando mi muovevo dentro di te
e la sacra Colomba si muoveva anch'essa (7)
e ogni nostro respiro (chiamava) un Alleluia

Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah


Alleluia
Alleluia

2B) Maybe I've been here before
I know this room, I've walked this floor
I used to live alone before I knew you
I've seen your flag on the marble arch
love is not a victory march
it's a cold and it's a broken Hallelujah


Forse sono già stato qui
conosco questa stanza, ho camminato su questo pavimento
vivevo qui prima di conoscerti
ho visto la tua bandiera sull'arco di trionfo (8)
l'amore non è una marcia trionfale
è qualcosa di freddo ed è come un Alleluia che si spezza

Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah


Alleluia
Alleluia

2C) Maybe there's a God above
And all I ever learned from love
Was how to shoot at someone who outdrew you
It's not a cry you can hear at night
It's not somebody who's seen the light
it's a cold and it's a broken Hallelujah


Forse c'è un Dio sopra di noi
e tutto quello che ho imparato dall'amore
è come colpire qualcuno che ha sguainato (la spada contro) di te
Non è un pianto quello che ascolti la notte
non è qualcuno che ha visto la luce
è qualcosa di freddo ed è come un Alleluia che si spezza

Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah


Alleluia
Alleluia

3) You say I took the name in vain
I don't even know the name
But if I did, well really, what's it to you?
There's a blaze of light
In every word
It doesn't matter which you heard
The holy or the broken Hallelujah


Tu dici che ho pronunciato il nome invano
io neanche lo conosco il Nome (9)
ma se anche (lo conoscessi), cosa cambierebbe per te?
C'è una vampata di luce
in ogni parola
non importa quale hai ascoltato
l'inno sacro o quello spezzato

Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah


Alleluia
Alleluia

4) I did my best, it wasn't much
I couldn't feel, so I tried to touch
I've told the truth, I didn't come to fool you
And even though
It all went wrong
I'll stand before the Lord of Song
With nothing on my tongue but Hallelujah


Ho fatto del mio meglio, non era molto
non potevo sentire, così ho tentato di toccare (con mano)
ho detto la verità, non volevo ingannarti
e se nonostante questo
tutto andasse male
arriverò davanti al Signore della Musica (10)
con nient'altro nella mia voce che (questo) Hallelujah

Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah
Hallelujah


Alleluia
Alleluia
Alleluia
Alleluia
Alleluia

non annuncio di principî etici, ma un comportamento operativamente salvifico, purificato di ogni pretesa messianica

Raimon Panikkar (1918-2010): l'etica del dialogo

E' morto nella sua casa, tra le montagna della Catalogna, Raimon Panikkar, nato nel 1918, uno dei maggiori pensatori del nostro tempo, filosofo, teologo e mistico.
Era dotato di una cultura vastissima che intrecciava la visione occidentale con quella asiatica, la razionalità con la spiritualità. Si muoveva su terreni di confine e perciò molte sue tesi erano ardite, non convenzionali. Richiedono e richiederanno attente riflessioni, dibattiti, valutazioni... Sono, però, indubbiamente affascinanti e stimolanti.
Tra i suoi meriti: l'elaborazione di un pensiero orientato al dialogo e all'incontro tra le religioni, la mistica come esperienza del divino accessibile a tutti e non a un'élite, una visione della realtà che abbraccia insieme Dio-uomo-mondo.
Vorrei ricordarlo con questo suo "decalogo del dialogo":
Primo: l’altro esiste "per" ciascuno di noi. E l’altro è il musulmano, l’altro è l’emarginato, l’altro è il marito, l’altro è il bambino, il mondo ecc. Una specie di superamento inconscio del solipsismo.
Secondo: l’altro esiste come soggetto e non soltanto come oggetto. Esiste a sé stante e non mi ha chiesto il permesso di esistere. Neanche la pietra, gli alberi, gli animali. In altre parole: non si possono trasformare le pietre in pane.
Terzo: l’altro non è oggetto di conquista, di conversione, di studi: è (s)oggetto con diritti propri, con lo stesso diritto di interpellarmi, di interrogarmi, che ho io. La relazione è, quindi, biunivoca: il dialogo è dialogo perché non è monologo. Non è soltanto domandare, ma lasciarsi anche interpellare. Per questo c’è una necessità di ascolto, di umiltà, di uguaglianza.
Quarto: anche se io penso che l’altro (e l’altro può essere un sistema religioso o culturale) sbaglia, devo entrare in contatto con lui, altrimenti non c’è dialogo e senza dialogo non c’è pace.
Quinto: la disposizione a dialogare è il principio etico supremo. Se ci si nega al dialogo, si finisce con il divorzio, con la guerra, con la bancarotta, con il disastro.
Sesto: il dialogo deve essere totale. Come dicono gli inglesi: non c’è niente di "non-negocial". Tutto deve essere messo sul tappeto, altrimenti non è dialogo dialogale, non è dialogo umano, è dialogo diplomatico. Si mira a vincere.
Settimo: l’etica è collegata al politico, dipende dal religioso ed è frutto di una cultura.
Tutto ciò relativizza l’etica, ma la rende concreta ed efficace.
Ottavo: l’etica scaturisce dal dialogo religioso e allo stesso tempo ne è la sua causa. È un circolo vitale come tutte le cose ultime.
Nono: nessuno ha il diritto di promulgare un’etica. L’etica non si promulga. Si scopre. E si scopre nel dialogo.
Inoltre in un contesto mondiale qual è quello di oggi a nessuno viene riconosciuto il diritto di promulgare un’etica universale ed assoluta.
Decimo: l’etica contemporanea deve confrontarsi con un "novum" che non si era mai verificato nella storia: il "novum" di tanta gente che muore di fame, di sete, di stenti, di violenza. E che attende una redenzione concreta: non annuncio di principî etici, ma un comportamento operativamente salvifico, purificato di ogni pretesa messianica"
http://sperarepertutti.blog.lastampa.it/sperare_per_tutti/

La verità è nuova perché si scopre a poco a poco e brilla in modo sempre diverso.

ALESSANDRO D’AVENIA

« Mi manca qualcuno che mi ricor­di in cosa credere, mi manca sentire qualcuno che creda nel bene ed è così triste non riuscire a credere nel bene a sedici anni». Così una lettrice del mio ro­manzo in una delle tante lettere che urla­no: a sedici anni si può ancora credere in ciò che serve a vivere felici?

C’è una stagione dell’esistenza che chia­miamo gioventù: una volta fuggita la rim­piangiamo come età dell’oro perduta e ri­trovata solo nel ricordo opportunamente edulcorato dalla memoria. I Greci lo ave­vano intuito drammaticamente con Tito­ne, mortale, che per unirsi alla dea Auro­ra riceve il dono dell’immortalità, ma di­mentica di chiedere quello dell’eterna gio­vinezza, sicché il dono ricevuto si trasfor­ma in beffa e condanna: una vecchiaia prolungata all’infinito.

Il dono da chiedere agli dei non è quello dell’immortalità, ma quello della giovi­nezza. Molte icone del nostro tempo han­no qualcosa in comune con Titone, nel di­sperato tentativo di fermare il tempo cer­cano l’immortalità dietro un’apparente e­terna giovinezza. Ma è solo questione di maquillage e le maschere prima o poi si staccano, lasciando la vita nuda e cruda a fare i conti con se stessa.

Troppo provvisoria è l’eterna giovinezza di una cultura dimentica del fatto che l’uo­mo è spirito incarnato e si costringe a strappare in modo goffo i doni degli dei. Solo lo spirito ha la capacità di rimanere giovane, perché in quanto tale non può invecchiare. Di alcuni 'vecchi' diciamo che sono giovani: qualcosa brilla nei loro occhi nonostante l’età anagrafica; di al­cuni 'giovani' diciamo che sembrano vec­chi, perché qualcosa in loro si è spento. Non è certo l’aspetto fisico o il giovanili­smo peterpanesco a dare fondamento a questa impressione, ma lo spirito di que­ste persone. Cosa è allora questa giovinezza, vera im­mortalità, che tutti andiamo cercando e che lifting e chirurgia non sono capaci di restituirci? La giovinezza è – paradossal­mente – stabilità. È il periodo in cui cerca­re ciò che rimane stabile quando essa pas­sa, in cui fondare la propria vita su ciò per cui vale la pena spenderla. Solo la scoper­ta di questo fondamento stabile rende il giovane veramente tale e l’uomo eterna­mente giovane. Non sarà più una qualità della pelle, ma una qualità del cuore diffi­cilmente estirpabile, a 20 come a 80 anni.

Per questo sono nate le Giornate della gio­ventù: per aiutare i 'giovani' a scovare ciò che passa della loro età e ciò che invece re­sta stabile, e che in gioventù è cercato con slancio irripetibile, come una ferita aperta, una domanda vissuta nella carne, con tutti gli errori e i dubbi che la ricerca comporta.

Occorre quindi rivedere un concetto con­nesso: 'il nuovo'. I ragazzi cercano il nuo­vo. Ma il nuovo è ridotto a sinonimo di 'più recente', 'ultimo', parole che tradi­scono la vecchiaia di ciò a cui ci si riferi­sce, infatti presto arriverà qualcos’altro a cui aggrapparsi, perché meno vecchio. Il nuovo invece non è il meno vecchio, ma il più ricco e pieno: ciò che non smette di dare qualcosa di sé. Solo ciò che dà più di sé a ogni incontro è sempre nuovo: spiri­to inesauribile. Omero, Dante, Shake­speare sono nuovi perché hanno sempre qualcosa da dare. L’amore è nuovo perché l’amato è inesauribile. La verità è nuova perché si scopre a poco a poco e brilla in modo sempre diverso.

Agli dei occorre chiedere il dono giusto. I ragazzi che si affollano attorno al 'vec­chio' Papa cristiano, in una sintonia tra generazioni più unica che rara, non cer­cano la cosa all’ultimo grido, ma la rispo­sta definitiva al grido ultimo del cuore: per cosa posso io vivere per essere felice? Esi­stono un amore, una bellezza, una verità stabili e sempre nuovi? Capaci di rendere giovane, eternamente giovane e piena, la mia vita a qualunque età?

Alla sete inestinguibile di immortalità, non lenita da ciò che è più nuovo e recente, ri­spondono parole vecchie e misteriose che difficilmente uomini o dei provvisori pos­sono pronunciare: «Ecco vedi io faccio nuove tutte le cose» (Ap. 21,5).

venerdì 27 agosto 2010

Non affliggerti per chi muore. Quale assurdità: credere in un paradiso eterno, e poi compiangere chi ci va

Parola - Vangelo Mt 25, 1-13
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio... Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora»..

Riflessione
Ai tempi di Gesù, vista la sua raccomandazione, certamente si pensava poco alla morte; oggi addirittura vi è una congiura del silenzio su quest'argomento. Cristo ci consiglia di pensarci spesso: più essa ci diventa familiare, e meno ci spaventa. San Giovanni Crisostomo afferma: «Non affliggerti per chi muore. Quale assurdità: credere in un paradiso eterno, e poi compiangere chi ci va». Cristo, con la parabola delle dieci vergini, ci indica un rimedio sicuro per andare sereni verso la morte: tenere sempre la lampada accesa e olio di scorta; in altre parole: condurre in ogni istante una vita immortale e vigilante. Si racconta che un gruppo di pellegrini si inoltrò nei meandri di una catacomba a Roma, e che, improvvisamente, si spense l'unica lucerna della guida; persero l'orientamento e nessuno dei componenti la comitiva uscì più alla luce del sole. Una lampada spenta, purtroppo, non serve. La lucerna della nostra fede si spegne quando l'olio viene a poco a poco a diminuire, fino a estinguersi. Questo genere d'olio si consuma quando noi ci gettiamo nelle braccia della sensualità, dell'orgoglio, della pigrizia, dell'avarizia... Qualcuno potrebbe sperare, all'ultimo momento, nella misericordia infinita di Dio. Intanto, non è ragionevole mettere a rischio con superficialità una causa come quella della salvezza eterna; poi, una vita sprecata rimarrà per tutta l'eternità tale: l'olio consumato male, rimarrà per sempre consumato male.

giovedì 26 agosto 2010

Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l'incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto? Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così!

SALMO RESPONSORIALE (Dal Salmo 144)
R. Sei grande, Signore: a te lode in eterno.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome
in eterno e per sempre.
Grande sei tu Signore e degno di ogni lode,
la tua grandezza non si può misurare R.
Una generazione narra all'altra le tue opere,
annunzia le tue meraviglie.
Proclamano lo splendore della tua gloria
e raccontano i tuoi prodigi. R.
Dicono la stupenda tua potenza
e parlano della tua grandezza.
Diffondono il ricordo della tua bontà immensa,
acclamano la tua giustizia. R.
OMELIA
"Domani..."; "Più tardi...", dice il cristiano. "Più tardi ti pregherò meglio"; "Domani mi sforzerò, ma prima bisognerebbe che...". Ma il Signore ci chiede: "Oggi..."; "Subito". Per fortuna non conosciamo la data del suo ritorno! Altrimenti, che calcoli non faremmo pur di scendere a compromessi con le sue esigenze!
Impariamo invece a fare solo quanto sia conforme alla volontà di Dio! Non lanciamoci in una brutta azione col pretesto che essa sarà fonte di un'azione migliore in seguito. E se egli ritornasse, prima che questa buona azione venga compiuta? Noi non potremmo certo presentargli le percosse date ai compagni o le nostre bevute... Vegliare non significa solo privarsi del sonno, ma anche fare ciò che Cristo si aspetta da noi: lavoro, vita di famiglia, sana distrazione o preghiera.
PREGHIERA DELLA SERA
Signore, mentre il giorno cade, io mi raccolgo in te e ti chiedo: "Quando verrai?". Tu ci hai detto: "Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà". Queste parole accendono un grande desiderio nel mio animo. Aspetto il tuo grande sabato; a volte tendo con tutto quanto il mio essere verso la tua venuta nella gloria. Perché tardi? La conoscenza della mia miseria e la consapevolezza della tua misericordia si mescolano e fecondano un mondo di luce.
Di chi potrò avere paura, dal momento che tu mi ami infinitamente? Voglio continuare ad essere rivolto verso la tua venuta, che è ancora più sicura dello spuntare del giorno dopo la notte. Mio desiderio è che tu, osservandomi nel sonno, possa dire di me: "Dorme, ma il suo cuore veglia".
 

mercoledì 25 agosto 2010

chiudersi nella sicurezza ingannevole di un'apparenza onorevole, ma falsa. "La verità vi renderà liberi"

VANGELO (Mt 23,27-32)
Voi siete figli degli uccisori dei profeti.
+ Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù parlò dicendo: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!".
Parola del Signore.

OMELIA
La cosa peggiore è il voler apparire diversi da quello che si è. Quando nella vita sociale, a poco a poco, ci si è guadagnati un'apparenza di onore, quando ci si è procurati una reputazione di uomini di pietà e di moralità, tutto concorre a rafforzarla e ci si dà da fare per non smentire tale immagine, riuscendovi spesso assai bene. Ma che brutture dietro una tale immagine!
Gesù svela il pericolo della falsa apparenza, opponendo ad essa, sia pure implicitamente, l'uomo che ha fame e sete di giustizia, che non è mai sicuro di essersi messo sulla retta via, che aspira ad una vita più vicina alla volontà di Dio.
Si dice che san Filippo Neri, ormai prossimo alla morte, avendo avuto l'impressione di stare per guarire, avrebbe detto in modo molto serio a coloro che gli stavano intorno: "Se ne esco, mi converto!".
È meglio smentire la propria immagine, riconoscere le proprie debolezze, sopportare l'umiliazione di veder rinascere la tentazione, confessare a se stessi e a Dio la propria miseria, piuttosto che chiudersi nella sicurezza ingannevole di un'apparenza onorevole, ma falsa. "La verità vi renderà liberi".


PREGHIERA DELLA SERA
Questa sera voglio aprirmi a te, dispiegare davanti a te tutta la mia vita. Tu leggi in me come se fossi un libro aperto.
Signore, non permettere che io sia un "sepolcro imbiancato, riempito di ogni putredine". Nessuna scappatoia, nessuna tentazione di fuga, nessun orgoglio segreto alteri la rettitudine delle mie intenzioni, fin nei loro angoli più reconditi. Fammi dono di un cuore libero. Re-inventami, ricreami, restaurami, purificami: nella mia vita semplificata possa la tua Parola trasfigurare i miei giorni. Che ti siano offerti in un'offerta a te gradita, conforme ai tuoi desideri.

 
Riflessione
La consapevolezza dei nostri peccati ci convince che anche noi siamo sepolcri imbiancati, belli di fuori, ma dentro... Che cosa fare? Se rimaniamo chiusi, meritiamo il rimprovero di Cristo di essere degli ipocriti; se ci scoperchiamo di fronte a tutti, facciamo cosa inopportuna, giacché Paolo ci ammonisce di mettere in comune le opere che edificano e non il marciume che contamina. E' impossibile per noi uscire dal dilemma; per fortuna c'è Cristo. Un bel sepolcro, qualora il morto fosse risuscitato, potrebbe essere considerato un monumento insigne. Facciamoci risuscitare da Cristo: lui non ha paura del nostro marciume; poi non distruggiamo il sepolcro, ma conserviamolo come segno dell'infinita misericordia di Dio, come monumento del suo amore personale per noi. Evitiamo, ancora, un altro errore dei farisei, i quali affermavano che loro mai avrebbero ucciso i profeti, mentre si apprestano a far morire il Messia. Molti pensano di cambiare l'umanità e recriminano il passato; pochi si preoccupano di convertire se stessi e di vivere il presente. Impegniamoci a essere fra quei pochi; lasciamoci guidare dalla convinzione che l'ieri è un assegno annullato, il domani una cambiale incerta; solo l'oggi è denaro contante.

martedì 24 agosto 2010

A ogni artista della vita si chiede di accettare, proprio come gli artisti, tutta la responsabilità del ri­sultato della sua opera, raccogliendone i meriti e le colpe

La felicità possibile

Francesco Occhetta
«Tutti [...] vogliono vivere felici, ma hanno l'occhio confuso quando devono discernere ciò che rende felice la vita. Giungere a una vita felice è impresa difficile a tal punto che ciascuno, se ap­pena esce di strada, se ne allontana tanto più, quanto più in fret­ta cammina». Il noto passo di Lucio Anneo Seneca (La vita felice, 1,1) è stato scelto come epigrafe da Zygmunt Bauman per aprire l'ultimo suo volume, L'arte della vita [1].
L'intento dell'Autore, tra i più noti sociologi viventi, è quello di aiutare a «discernere ciò che rende felice la vita», che dal latino cer­nere significa vagliare, setacciare o distinguere. L'arte della vita, dunque, è la capacità di comprendere «chi» diventare per poter vi­vere felice. Ogni uomo si chiede dove andare e quali scelte fare per essere felice. Bauman avverte però di non lasciarsi ingannare: la ric­chezza di un Paese non produce felicità, anzi «il Pnl misura tutto, tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta» (p. 7)[2]. Co­me fare dunque nella «società liquida», caratterizzata da «relazioni a tempo» e da ritmi frenetici, per poter vivere felici?

L’identità moderna

L'uomo contemporaneo è inquieto per il rischio di non riusci­re a costruirsi la propria identità. Manca il tempo e, quando c'è, lo si insegue per fare altre cose. Attendere qualcosa o qualcuno è diventato un lusso. Tutto va vissuto su appuntamento, perché la cultura dell'«adesso» chiede di correre affannosamente «sempre più in fretta nel tentativo necessario a inseguire altre cose» (p. 10) fino a rinunciare ai tempi del riposo e del silenzio. Stiamo allontanando l'idea che la felicità sia possibile e la surroghiamo con l'«acquisto di prodotti da cui ci si attende felicità» (p. 13). «Eti­chette, marchi e loghi sono i termini del linguaggio del riconosci­mento»; certo, vengono imposti dal mercato, ma se non ci si omo­loga a comprare quel vestito o quella particolare auto, il gruppo a cui si appartiene rischia di escluderci dicendo, «non sei uno di noi», perché la propria «condizione sociale non significa nulla se non è socialmente riconosciuta» (p. 17).

Il messaggio sembra chiaro: «La via che porta alla felicità pas­sa per i negozi, e quanto più sono esclusivi, tanto maggiore è la fe­licità cui si arriva»; ma le ricerche dimostrano come le gioie del consumo «si dissolvono e svaniscono presto, lasciando dietro un'ansia durevole» (p. 31). Inoltre i messaggi della pubblicità ci impongono di ringiovanire e di cambiare la vita, a tal punto che quando un prodotto non ci piace più lo cambiamo rapidamente. Queste «relazioni a tempo» non si limitano solamente al possesso di oggetti, ma riguardano l'attuale cultura delle relazioni «a bas­so impegno». La conseguenza ha però risvolti seri. Secondo Bau­man l'uomo contemporaneo è disposto ad annullare il passato per «"rinascere", acquistare un io diverso e più attraente scartando quello invecchiato, logoro e indesiderato, "reincarnarsi" in una persona totalmente diversa, ricominciare da un "nuovo inizio"» (p. 19). Così la felicità rischia di trasformarsi in un sogno: «Fug­gire dal proprio io, e acquistarne un altro su ordinazione». Ma questa idea rimane una chimera e nega la felicità possibile. Sem­bra non esserci alternativa: «In una vita di shopping, siamo felici finché non perdiamo la speranza di essere felici in futuro» (p. 20).

È noto a tutti come il senso di precarietà delle relazioni sia fon­te di insicurezza e generi nostalgia per sentimenti di lunga dura­ta. Ma in quale modo si può apprendere l'arte della vita? Dob­biamo «tentare l'impossibile», dice Bauman, «dare le ali» a ciò che ci blocca a terra come un macigno. A questo rimandare e far­si condizionare da ciò che non dona la felicità Bauman ricorda co­me «la nostra vita è un'opera d'arte [...]. Per viverla come esige l'arte della vita dobbiamo - come ogni artista, quale che sia la sua arte - porci delle sfide difficili» (p. 27).

La felicità come cammino

Lungo la storia il significato di felicità è cambiato a seconda delle culture e del tempo. Aristotele nella Retorica (I A, 5,1360 b) definì la felicità come «buona condotta di vita congiunta alla virtù», «autosufficienza di vita», «prosperità dei beni e dei corpi con la facoltà di conservarli e di usarli». Per formare l'ateniese fe­lice c'erano però precise condizioni «interiori» ed «esteriori»: «nobili origini, amici numerosi e buoni, ricchezza, figli buoni e numerosi, salute, bellezza, forza, statura elevata, capacità atleti­che, fama, onore, fortuna, virtù» (p. 37).
Anche Marco Aurelio nel suo trattato, Pensieri, individua al­cuni princìpi per poter vivere felici: l'integrità, la dignità, il duro lavoro, l'abnegazione, l'appagamento, la frugalità, la gentilezza, l'indipendenza, la semplicità, la discrezione, la magnanimità. Scri­ve Marco Aurelio: «Ricordati che il tuo principio direttivo diven­ta invincibile [...]. La mente libera da passioni è un baluardo: l'uomo non ha niente di più forte dove rifugiarsi ed essere per sempre inespugnabile». Nella sua spiegazione, Bauman rimanda al carattere e alla coscienza come all'ultimo rifugio di chi cerca la felicità: «L'unico luogo dove i sogni di felicità, condannati a mo­rire senza figli né eredi, non rimarranno frustrati» (p. 46).

Ciò che il nostro tempo rifiuta, però, è proprio raggiungere questo «stato di felicità» capace di armonizzare il proprio passa­to con il futuro. Secondo Bauman, «agli albori dell'era moderna lo stato di felicità fu sostituito, nella prassi e nei sogni dei cerca­tori di felicità, dalla ricerca della felicità» (p. 39). Oggi la felicità più grande è quella di sfidare i pronostici, più che conseguire il premio del traguardo raggiunto. Prima l'idea di felicità era avere una mèta e cercare di raggiungere attraverso scelte particolari e coerenti il fine che una persona si dava. Adesso Bauman ritiene che i giovani, in lotta con le precedenti generazioni, «pensino che non sia realmente possibile giurare fedeltà all'itinerario che si è progettato prima di partire per il viaggio dell'esistenza, perché quell'itinerario potrebbe essere modificato dal fato e da incidenti di percorso casuali e imprevedibili» (p. 72). In questo mondo liquido-moderno, si è felici solamente a condizione di avere da­vanti a sé una serie di nuove occasioni e di nuovi inizi, la pro­spettiva di una catena infinita di partenze. «Lascio ai lettori - di­chiara Bauman - di decidere se la coercizione a cercare la feli­cità nella forma praticata nella nostra società dei consumatori liquido-moderna, renda felice chi vi è costretto» (p. 65).

Essere artisti della propria vita

A questa domanda l'Autore risponde nella seconda parte del volume. Il mondo e gli uomini possono cambiare se ci si trasfor­ma in artisti. Ecco allora come, secondo Bauman, l'arte della vita sia creare e ricreare sé e il mondo che ci circonda attraverso pas­saggi di sofferenza, di dolore, di ricerca, di rinuncia e di soddi­sfazioni. Nella critica che egli rivolge alle nuove generazioni, a volte perfino eccessiva, ritiene che si debba andare oltre il vivere solamente per sé. Ma non dice nulla sulla responsabilità della ge­nerazione precedente, che ha consegnato questo mondo a quella che sta esprimendo il suo disagio esistenziale.
Le generazioni anziane, infatti, si dividono da quelle nuove, nel dare significato «all'arte della vita». «Oggi il cammino di una vita e il significato di ogni episodio che la compone, ma anche [...] la "destinazione ultima" dell'esistenza, si considerano atti­vità "fai da te", anche se consistono nella scelta del giusto tipo di kit di montaggio» e aggiunge: «A ogni artista della vita si chiede di accettare, proprio come gli artisti, tutta la responsabilità del ri­sultato della sua opera, raccogliendone i meriti e le colpe» (p. 73). Per Bauman, oggi si è artisti della vita «non tanto per scelta quan­to, potremmo dire, per decreto del fato universale», (p. 73). Che cosa significa? La felicità può passare per caso, un momento di fortuna, una trasmissione televisiva, una vincita al lotto, creare un blog personale per farsi conoscere ecc. L'artista che costruisce la sua vita dunque non è più colui che muore al mondo e si costrui­sce con pazienza lungo il tempo, ma colui che cerca come il fato lo possa abbracciare e rifiuta le dimensioni della fatica, dell'abne­gazione, dell'ascetismo o del sacrificio di cui parlavano i classici. Rischiamo così di adattarci alle formule di felicità che premiano «le scorciatoie, i progetti che possono essere portati a termine in breve tempo, gli obiettivi raggiunti subito» (p. 97).

E per chi non ce la fa? Bauman inserisce nel suo volume un ex­cursus sull'anoressia e sulla bulimia che ritiene forme di protesta al sistema che ci siamo creati. Nell'anoressia si chiudono tutte le porte vitali a un mondo che non si riesce ad accettare; nella buli­mia invece, il mondo lo si vuole combattere con le stesse armi. Se­condo Bauman è il corpo l'elemento più consumato della società dei consumi: fitness, sessualità e lotta contro il grasso sono mani­festazioni  dell'angoscia profonda  dell'uomo  contemporaneo. Un'angoscia che, ovviamente, si tramuta in domanda nei mercati consumistici e produce un'offerta diffusa. Essere artisti creativi è difficile. Così «l'urlo silenzio» delle nuove generazioni si esprime anche attraverso le incisioni, le bruciature, le escoriazioni e le la­cerazioni del proprio corpo che le persone della società liquida si autoinfliggono come forma di regolazione delle proprie tensioni. La pelle diventa la superficie d'iscrizione del malessere. Si cambia il proprio corpo perché non si può cambiare l'ambiente in cui si vive. Le ferite corporali non sono un indice di follia ma una par­ticolare forma di lotta contro il male di vivere, che segnala l'ina­deguatezza della parola e del pensiero. L'alterazione del corpo è una ridefinizione di sé in una situazione dolorosa, un andare al di là del socialmente consentito per sentire qualcosa di forte. Si sof­fre una società che ha creato meccanismi di esclusione - come quelli del «Grande fratello» in cui ogni settimana dev'essere eli­minato un concorrente -, che ha paura a integrare il diverso e protegge sempre meno coloro che si trovano nel bisogno. Il disa­gio profondo descritto ha per Bauman una causa chiara: «La mancanza di punti di riferimento solidi e affidabili e di guide de­gne di fiducia».

La cura dell'altro come fonte della felicità

Nella parte finale sono studiati alcuni filosofi dell'etica che han­no saputo gettare un ponte tra rive apparentemente incomunica­bili: «L'interesse per sé e la cura per gli altri» (p. 120). L'indivi­dualismo radicale si vince in una vita di comunione e di servizio, aprendosi alla speranza di cui è carico il futuro. In tempo di crisi Bauman propone di ritornare a un'etica planetaria e alla speranza di una moralità intesa come cura per l'altro o ancora meglio «del­l'essere per l'altro». Citando Lévinas ricorda che l'assenza della moralità tra gli uomini inizia con la domanda di Caino: «Sono for­se io il custode di mio fratello?». Caino intendeva la moralità co­me un obbligo imposto da Dio; invece l'atto morale inizia da una scelta libera consapevole e responsabile, «in quanto è espressione non calcolata, spontanea e perlopiù irriflessa di umanità» (p. 133).

Rimane una domanda: come scegliere tra le diverse strategie di ricerca della felicità? Per rispondere Bauman confronta il pensie­ro di Friedrich Nietzsche con quello di Emmanuel Lévinas. Pone a confronto i valori del «Superuomo» con quelli dell'uomo debole ma responsabile. Per Nietzsche è buono «tutto ciò che eleva il senso della potenza», mentre è più dannoso di qualsiasi vizio «agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli» (p. 146s). È felice il potente che, in quanto tale, è l'uomo perfetto; sono fuo­ri gioco e infelici i deboli, uomini «malriusciti». Scrive Nietzsche in Zarathustra: «L'egoismo dei grandi e dei potenti è sacrosanto perché la loro grandezza e forza è, per tutto il genere umano, un dono» (p. 150). In questo modello autoreferenziale la ricerca del­la felicità è data dalla propria autopromozione di sentirsi un «Su­peruomo», addirittura di «rendere superfluo Dio» (p. 153).

Il modello che propone invece E. Lévinas rientra in una pro­spettiva di cura e di interesse per l'Altro ed è «la felicità dell'es­sere per». Il grado della mia felicità dipende da una scelta, da quanto riesco ad essere per gli altri in quanto «"essere" ed "esse­re per gli altri" sono in pratica sinonimi» (p. 154). Altrimenti non essere responsabile dell'altro significa in termini concreti risve­gliare la possibilità del male. Queste sono le due strade che l'uo­mo contemporaneo può scegliere per progettarsi la vita.

Nelle ultime pagine del volume Bauman consiglia di riscoprire un nuovo codice etico, quello fondato sulla stima e la fiducia, sul­l'amicizia e su relazioni corrette, su una vita sobria e solidale. E aggiunge un elemento che ha la funzione del lievito: «I legami amicali sono [...] la nostra unica "scorta" (sociale) "nelle acque turbolente" del mondo liquido-moderno» (p. 166). L'Autore ci porta a domandarci: chi non vorrebbe la mano disponibile di una persona amica, affidabile, fedele, «che sia come l'isola per il nau­frago o l'oasi per chi si è perso nel deserto»? «Sono queste le ma­ni che ci occorrono, che vorremmo attorno a noi, tanto più nu­merose tanto meglio». In questo consiste l'arte della vita e la feli­cità possibile: costruirsi e accettare di farsi costruire.

Da: La Civiltà Cattolica, 2009 IV 162-167 (quaderno 3824 – 17 ottobre 2009)
http://pastorale.myblog.it/archive/2010/07/29/la-felicita-possibile.html#more

disposti a morire per il loro capo


WANTED - RICERCATO
Yehoshua Ben Yosef conosciuto anche come Gesù di Nazareth detto il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio,
il Figlio dell'uomo, il Re dei Re.

Il ricercato è a capo di un pericoloso movimento clandestino di liberazione.

Principali capi di imputazione:

1. Esercizio abusivo della professione medica (guarisce senza autorizzazione);

2. Distribuzione abusiva di cibo e bevande (sfama i poveri senza autorizzazione);

3. Predicazione abusiva nel tempio di Gerusalemme (insegna senza autorizzazione);

4. Remissione abusiva dei peccati (perdona gli uomini nel nome di Dio);

5. E' stato visto in compagni di peccatori pubblici, prostitute e malfattori;

6. Sovversione dell'ordine costituito insegnando il perdono, la giustizia e l'amore.

- Frase Incriminata n.1:
"Io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori. Infatti, se amate solo quelli
che vi amano che merito ne avete? Non fanno così tutti gli altri?"

- Frase Incriminata n.2:
"Non accumulate tesori sulla terra dove la ruggine consuma e i ladri rubano. Accumulate invece tesori
nel cielo, perchè là dove sarà il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore".

- Frase Incriminata n.3:
"Non giudicare e non sarai giudicato, perchè con la misura con la quale giudichi sarai giudicato anche
tu. Perdona le colpe agli uomini e anche le tue colpe saranno perdonate".

- Frase Incriminata n.4:
"Ama il prossimo tuo come te stesso. Nessuno ha unamore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici. Tutto quanto volete gli altri facciano a voi, anche voi fatelo a loro".

ATTENZIONE:
Al seguito del ricercato c'è un gruppo di uomini che si fa chiamare APOSTOLI. Costoro affermano di
essere stati salvati dal ricercato e di essere diventati figli di Dio. Ne diffondono la dottrina e sono
disposti a morire per il loro capo.

La taglia è di 30 (trente) denari. Lo vogliamo vivo!

ATTENZIONE:
L'insegnamento di questo uomo risulta molto potente, perciò se non volete rischiare di cambiare vita e
volete rimanere felici nelle vostre vite senza senzo: STATE LONTANO DA QUESTO SOVVERSIVO!
http://pastorale.myblog.it/

lunedì 23 agosto 2010

Questo vizio ci induce a recitare la parte degli uomini onesti, ad amare la pubblicità di noi stessi...

Parola - Vangelo Mt 23, 13-22
In quel tempo, Gesù parlò dicendo: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci... che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi».

Riflessione
Gesù condanna, in modo particolare, l'ipocrisia degli scribi e dei farisei, perché rende cattiva la dottrina che predicano e contamina persino lo zelo apostolico che mettono in atto. L'ipocrisia è il contrario dell'ideale evangelico. Non limitiamoci a condannare il comportamento degli scribi e dei farisei, poiché, fermandoci a questo, cadremmo nel medesimo vizio che deprechiamo in loro. Esaminiamoci piuttosto se, per caso, non c'è un poco della loro ipocrisia anche in noi. Questo vizio ci induce a recitare la parte degli uomini onesti, ad amare la pubblicità di noi stessi, a ritenere più importante le esteriorità della vita interiore, a studiare i gesti e le parole, al solo scopo di attirare su di noi la benevola attenzione degli altri. Siamo scribi e farisei, nella peggiore edizione, quando ci preoccupiamo di attirare una persona nel nostro gruppo, associazione o movimento, poi la chiudiamo come in un ghetto, isolandola dal resto della comunità parrocchiale o diocesana. Se almeno un poco di questa ipocrisia farisaica abita in noi, cerchiamo di toglierla; in caso contrario il «guai» di Gesù ci piomberebbe addosso con la pesantezza di un macigno.
PREGHIERA DELLA SERA
Perdonami, Signore, se ho vanificato la tua Parola, se ho vissuto male questo o quell'aspetto della tua volontà e se ho chiuso il mio cuore a quelli che, più esigenti, mi mettevano a nudo.
Padre, strappa dalla mia vita questa veste consunta, questo vecchio uomo, avvolgimi tutto intero nella tunica della santa umanità del Figlio tuo, perché mi deifichi nell'umile pazienza dei giorni.
Allora la mia vita sarà più luminosa, io smetterò di ingannare i miei fratelli con le apparenze, essi mi vedranno finalmente nella verità: senza maschera, vulnerabile, povero, ma avvolto nella tua gloria. Insieme diventeremo forti e abbandoneremo infine la strada fin qui battuta.
http://www.laparola.it/laparoladioggi.php

domenica 22 agosto 2010

quando l'uomo si appresta ad agire, invece di obbedire alla verità, la sostituisce con qualche idolo

PREGHIERA DEL MATTINO
Gesù, mio Signore e Maestro, essere fedele all'insegnamento del tuo Vangelo è spesso uno sforzo arduo; io sono scoraggiato per le mie numerose cadute e per i miei numerosi fallimenti.
Devo ricordarmi che il santo è un peccatore che non ha mai cessato i suoi sforzi. Ritrovo allora speranza e coraggio nel sapere che tu sei il Dio onnipotente e manifesti la tua potenza soprattutto nel tuo amore, nella tua misericordia e nella tua pazienza infinita.
Comincio questa giornata senza paura, perché tu non mi lascerai mai intraprendere la mia lotta da solo.
SECONDA LETTURA (Eb 12,5-7.11-13)
Il Signore corregge chi ama.
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, avete dimenticato l'esortazione a voi rivolta come a figli: "Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio".
È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e fate passi diritti con i vostri piedi, perché il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Parola di Dio.
Parola - Vangelo Lc 13, 22-30
In quel tempo, Gesù passava per città e villaggi, insegnando, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta... il padrone... vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete».

Riflessione
Il personaggio, di cui parla il brano evangelico, fa ritornare alla mente il don Ferrante de «I Promessi Sposi», il quale, tutto preso dalla boria e dalla curiosità scientifica, interroga le stelle sulla causa della peste; non assume alcuna precauzione contro di essa, e muore colpito dal contagio, prendendosela con gli astri come un eroe del Metastasio. Gesù ci invita a non commettere un errore del genere. Evitiamo curiosità sciocche, e orientiamoci alla sostanza del problema della salvezza. Deve essere un colpo terribile quello che si abbatte su una persona che va in tribunale sicura di uscirne assolta e che, invece, dopo aver visto demolire una prova dietro l'altra, si ritrova condannata a una severissima pena. Noi abbiamo preparato le prove: «Abbiamo mangiato tante volte con te, durante la messa; abbiamo ascoltato le tue parole, in innumerevoli occasioni». Cristo ci avverte del rischio di sentirci da lui rispondere: «Non vi conosco!». La porta del paradiso è stretta; per essa non passeranno quelli che si limitano a partecipare alle sacre funzioni, senza attingere da queste la forza per esercitare la carità verso il prossimo, che costituisce l'unico «tesserino» di riconoscimento degli autentici discepoli del Signore.
Riflessione
Registi impegnati hanno portato sullo schermo alcuni problemi che travagliano la famiglia oggi. Essi presentano genitori, i quali di fronte agli insuccessi educativi, escono con la classica frase: «E dire che, ai nostri figli, non abbiamo lasciato mancare nulla!». Essi hanno loro concesso tutto, ma li hanno privati di quello di cui più avevano bisogno: interventi educativi intelligenti, pronti e mirati. Noi, forse, non siamo in grado di prevedere come terminerà il film della nostra avventura terrena; una cosa, però, è sicura fin d'ora: non potremo certamente accusare Dio padre di averci lasciato mancare gli interventi correttivi e orientativi. Lui sa fare sul serio il padre; vediamo di comportarci da figli intelligenti e fiduciosi.
MEDITAZIONE
Il nostro Salvatore dice: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta". Ciò deve essere interpretato con molta prudenza. Tutto il contenuto delle Sacre Scritture ci porta a credere che la sua verità non sarà accolta calorosamente da molti uomini, perché va contro l'opinione diffusa e i comuni sentimenti dell'uomo e del mondo; quando anche essa sarà accolta da un uomo, sarà rifiutata da quanto resta in lui della vecchia natura, così come è rifiutata da tutti gli altri che non l'hanno accolta. Simbolo della vera religione è "la luce che brilla nelle tenebre". Anche se, senza dubbio, vi sono periodi in cui scoppia un entusiasmo repentino per la verità..., la popolarità della verità dura poco, appare all'improvviso e scompare subito, non cresce regolarmente e nemmeno costantemente. Solo l'errore cresce ed è accolto calorosamente da molti...
La verità ha in sé un potere tale da obbligare l'uomo a proclamarla a parole, ma, quando l'uomo si appresta ad agire, invece di obbedire alla verità, la sostituisce con qualche idolo. Di conseguenza, quando in un paese si parla molto di religione, quando si è contenti che tutti se ne preoccupino, uno spirito saggio si preoccuperà di sapere se non si onora di fatto qualche sostituto al suo posto, se sono davvero le verità della parola di Dio e non le illusioni dell'uomo ad essere divenute popolari, se la forma accolta non ha in sé solo quanto della verità può essere accettato dalla ragione e dalla coscienza, insomma se, ad attirare molti discepoli, è Satana trasformato in angelo di luce invece che la luce stessa.
Card. JOHN HENRY NEWMAN, 1801-1890, Parochial and Plain Sermons , I, Serm. 5 
http://www.laparola.it/meditaoggi.php 

sabato 21 agosto 2010

Al risveglio del mattino, aperti gli occhi, ho visto il mio giardino pieno di fiori.

Di tanto in tanto, quanto mi preoccupo!
Oggi, senza lavoro,
ho perduto il tempo, ho perduto il giorno.
No, o Signore, tutti quei momenti
non sono stati perduti:
Tu li hai raccolti tutti,
o Dio, testimone interiore.
Al tempo opportuno,
invisibile, nascosto, dentro
hai fatto rivivere
il seme in boccio.
Hai colorato le gemme fiorite,
hai tramutato il fiore in frutto
pieno di dolce linfa:
embrione ricambiato ancora in seme.
Io, addormentato in confortevole letto,
abbattuto dalla stanchezza, pensavo:
tutto il lavoro è rimasto da fare!
Al risveglio del mattino,
aperti gli occhi, ho visto
il mio giardino pieno di fiori.
TAGORE
NOIBEDDO

Benedite il Signore che vi da la possibilità di viaggiare senza biglietto, gratuitamente, lungo i meridiani e i paralleli della vostra vita

Racconta il filosofo danese Soren Kierkegaard la fiaba del capriolo che cerca disperatamente un muschio di cui l’ha stordito il profumo. Sfinito nella ricerca. Prima di morire, si lecca il petto e sente lì quel profumo affascinante: “Non cercare fuori di te il profumo di Dio, per perire nella giungla della vita. Non cessare di cercarlo dentro di te e vedrai che lo troverai”.

Ascolta: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà”. Il deserto, luogo della solitudine e dell’essenzialità, ri-torna ad essere il crocevia dell’incontro tra Dio e l’uomo. Israele, scampato alle persecuzioni e alle oppressioni, marcia verso la sua terra e vede profilarsi da lontano il volto di Dio. Appena sono di fronte e si fissano negli occhi, il Signore pronuncia una dolcissima dichiarazione d’amore: “Ti ho amato di amore eterno”. Non ci sono ne spiegazioni, ne recriminazioni. Perché – come scriveva Andrè Fossard – “di tutte le cose umane l’amore è la sola che non voglia spiegazioni. Gli amanti che si spiegano sono quelli che stanno per lasciarsi”.

Geremia, il simbolo di una giovinezza denigrata dagli uomini, ricercata da Dio. Vi ricordate!? Per fare il tavolo ci vuole il legno; per fare il legno ci vuole l’albero; per fare l’albero ci vuole il seme; per fare il seme ci vuole il frutto; per fare il frutto ci vuole il fiore. Per fare il tavolo ci vuole un fiore. Per fare la vita ci vuole il fiore, e il fiore è il simbolo della bellezza. Ragazzi, Geremia insegna a scegliere la vita. A tutti i costi. Amate le cose pulite, belle: la poesia, il sogno, la fantasia. Benedite il Signore che vi da la possibilità di viaggiare senza biglietto, gratuitamente, lungo i meridiani e i paralleli della vostra vita. Amate la vita, scegliete per la vita.

Se v’imbatterete nella fatica, fate banda con quell’uomo!
Geremia non è stato un perdente, è stato un “furbo” perché ha intuito che se ci si mette “in cooperativa” con Dio i conti tornano sempre.
Novembre 2009 - autore: don Marco Pozza

venerdì 20 agosto 2010

Signore, tutti urlano!

Aiutami...

Ad abbassare il tono della mia voce.
A trovare il silenzio dentro e fuori di me.
Ad ascoltare le parole appena sussurrate.
A sentire il profumo di un fiore appena sbocciato.
A discernere il bene dal male.
Ad usare sempre parole buone.
A benedire e non a maledire.
A comprendere i sogni e i desideri nascosti nel cuore della gente.
Ad inginocchiarmi davanti al tuo Santissimo Corpo.
Ad essere un uomo dalle mani dure ma dal cuore buono.
A riconoscere sempre i miei errori.
A togliere l'orgoglio dalla mia vita.
A portare ogni giorno la mia croce.
A riconoscerti nel volto di ogni persona.
Ad amare mia moglie di un amore eterno e sempre nuovo.
Ad accettare che i miei figli non sono "cosa mia".
Ad essere in ogni luogo espressione della tua felicità.
Aiutami, Signore, a riconoscere sempre la tua voce.
Amen!

(Adolfo Rebecchini)

giovedì 19 agosto 2010

Chi ascolta poi dev'esser disposto ad ascoltare, a discutere e ad imparare, con mente attenta e con animo schietto.

Questo post è particolarmente lungo, ma ne varrà la pena arrivare fino in fondo e magari continuare con la lettura del libretto... fino in fondo dentro di noi nella nostra coscienza. (http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/guardini_la_coscienza1.htm
Nessun individuo è esente da quello che tocca tutti. In un punto però può differenziarsi: che egli abbia la coscienza di questa trasandatezza. Che egli non chiami ordine questa devastazione, ma sappia ben distinguere. Che egli chiami con il loro nome il disordine e l'irriverenza e abbia la volontà che le cose cambino.

La coscienza
ROMANO GUARDINI  MORCELLIANA - Brescia 1977 
Titolo originale dell'opera: Das gute das Gewissen und die Sammlung
Matthias - Grünewald - Verlag, Mainz (2. Auflage)
Traduzione di Giulio DELUGAN
I edizione: 1933
II edizione: 1948 III edizione: 1961 IV edizione: 1977

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA Questo piccolo libro è uno scritto pratico, non teoretico. Esso non vuole discutere filosoficamente l'essenza della coscienza del bene, bensì intervenire in aiuto della coscienza cristiana nella lotta intorno ai fondamenti della vita morale, quale è determinata dalla situazione spirituale in Germania.
Lotta: ma chi sono i nemici?
E in primo luogo Kant e lo spirito da lui suscitato che esige l'autonomia assoluta della coscienza ed afferma che il cristiano non è una personalità morale nel vero senso, piuttosto invece è eteronomo perché egli sottopone la sua coscienza al volere di Dio... E poi il Nietzsche che assurge a potenza sempre più vigorosa. Egli esige l'assoluta creatività della personalità morale. Il cristiano, egli afferma, ha solo una morale esecutiva che è condannata all'infecondità; una morale da schiavo che lo esclude dall' esistenza veramente grande e degna... E il bolscevismo che soffoca lo spirito vivente, e distrugge la libera personalità nella compagine del collettivo e nel processo della storia, umiliandola a mero organo per la realizzazione di necessità superindividuali. Ed esso, poi, ritiene il cristiano un individualista pieno d'egoismo, un fantasioso che si abbandona a realtà incontrollabili e trascura in tal modo l'unica realtà. Ed altri ancora si potrebbero nominare.
Di fronte a costoro, questo libro vuol mostrare quale forte indipendenza e profonda iniziativa presenti la morale cristiana; quanto grandi siano le sue possibilità creative, con quanto senso di realtà essa stia di fronte alle cose. Esso pertanto vuoi animare la coscienza cristiana ed ispirarle fiducia nella sua forza. Il lettore dovrà dunque intendere il libretto in questa prospettiva di lotta e di aiuto: non come una trattazione scientifica, bensì come una parola veniente dalla vita per la vita. Come una parola indirizzata agli uomini d'oggi, in cerca ed in lotta, per ispirar loro forza contro determinati avversari; non quindi come un trattato morale o teologico sulla natura della coscienza.

Sembra che il libretto, con questa intenzione, non abbia fatto in Germania un cattivo servizio. Così può essere giustificata la speranza che non risulti inutile nelle discussioni del pensiero italiano, in cui lo introduce l'amichevole fatica del traduttore.

ROMANO GUARDINI, nato a Verona nel 1885, studiò in Germania, dove sempre visse. Dopo aver tentato gli studi scientifici e quelli umanistici, riconobbe la sua vocazione autentica nella teologia. Nel 1923 gli venne affidata la cattedra di 'visione del mondo'. cattolica nell'Università di Berlino. Insegnò in seguito all'Università di Monaco; morì nel 1968. Attento ai movimenti culturali e spirituali della Germania fra le due guerre, animatore prestigioso della Jugend-Bewegung, il Guardini concepì ognuno dei suoi libri con l'intento di rispondere ad una od altra delle esigenze più vive nell'uomo contemporaneo. La sua presentazione delle verità cristiane è sempre tesa a un preciso riferimento critico o polemico alle esperienze culturali che hanno esercitato maggior fascino sull'europeo del nostro secolo: lo storicismo, il nichilismo, l'esistenzialismo. Fra le numerose opere ricordiamo: Lo spirito della liturgia, Il Signore, L'essenza del cristianesimo, La figura di G. Cristo nel N. T., Il mondo religioso di Dostojevskij, Libertà Grazia Destino, Pascal, La conversione di S. Agostino, Ritratto della malinconia, La fine dell'epoca moderna, Il potere, Ansia per l'uomo, Rainer Maria Rilke, quasi tutte presentate al pubblico italiano dalla Morcelliana.

INTRODUZIONE
Ci siamo radunati per parlare di alcuni problemi fondamentali della nostra esistenza personale. Prima però di entrare in argomento vorrei fare alcune osservazioni.
Mi sia lecito dire che questo nostro conversare intorno a tali cose, dev'esser qualcosa di diverso da una solita conferenza. Non vogliate vedere in ciò presunzione di sorta; non pretendo di fare più di colui, che espone onestamente quello che sa. Ma si tratta invece di diversità sostanziale.
È naturale che uno comunichi ad altri quello che crede di sapere. A tal fine quello che si esige da lui è che sappia veramente ed esponga con chiarezza quello che sa. Chi ascolta poi dev'esser disposto ad ascoltare, a discutere e ad imparare, con mente attenta e con animo schietto.
C'è anche un altro modo di parlare: quando uno dice non soltanto quello che sa, ma quello di cui è personalmente convinto; convinto nel senso specifico, profondo di questa parola. Egli dice dunque delle cose, delle quali si può essere veramente «investiti», delle verità che toccano da vicino. In questa convinzione è entrata la persona vivente; altrimenti non si potrebbe parlar di convinzione. Perciò, quando il discorso è di tal natura, da chi parla si esige che la sua persona si trasfonda veramente nella parola; dall'uditore invece che sappia di esser messo di fronte ad una parola personale e che egli stesso prenda un atteggiamento personale, abbia cioè rispetto e disposizione a discutere seriamente.
Più in là ancora vi è finalmente un terzo modo di parlare: quando uno dice non soltanto quello che sa; parla non soltanto di quello che forma la sua convinzione; ma parla di « ciò che dobbiamo fare ». In questa cosa si tratta del destino umano; di ciò che trova la sua ultima espressione religiosa nella parola: la salvezza dell'anima. Un tal parlare non basta che sia fatto con serietà e con senso di responsabilità. Per essere veramente alla sua altezza, dev'essere un'intesa tra chi parla e chi ascolta, nel senso che entrambi vogliano veramente trattare assieme di quello «che dobbiamo fare ».
Qualche cosa del genere è quello che qui stiamo facendo.
Noi viviamo in un'età devastata. Le cose dello spirito e le cose della salvezza non hanno più una propria sede. Tutto è buttato sulla strada. Ognuno parla, ascolta, scrive e legge di tutto ad ogni istante.
Abbiamo dimenticato che quanto riflette lo spirito è di una nobiltà molto esigente e che il comprenderlo è possibile solo a certe condizioni. Che i diversi interessi del mondo spirituale esigono di volta in volta un diverso modo di parlare e di ascoltare; richiedono uno spazio interiore diverso, nel quale possano svolgersi questo parlare e questo ascoltare.
Viviamo in un tempo, nel quale l'avvilimento dell'onore che spetta allo spirito è diventato una pratica comune, che non impressiona più in modo particolare. Per accorgersene basta dare uno sguardo attento a quanto riguarda l'educazione pubblica, con le sue conferenze, discussioni e riviste e coi suoi giornali; basta osservare l'andazzo seguito nel trattare di cose spirituali, il linguaggio che in ciò si usa... Se vi è un compito di vera formazione, è ben quello di tornare ad erigere in questo caos delle barriere, di tracciare dei confini, di separare ambiente da ambiente, di distinguere gradi gerarchici degli spiriti, di far sentire quello che di volta in volta è richiesto da chi vuol cogliere qualche cosa di spirituale.
Ebbene, un po' di siffatta riflessione e di quest'ordine dovrebb'essere il frutto di queste parole introduttive.
Qui non si tratta di una conferenza che esponga ciò che si sa ad uditori disposti ad imparare. Non si tratta nemmeno di sostenere una convinzione davanti ad uomini disposti ad ascoltarla rispettosamente e a discuterla. Si tratta piuttosto di scambiarsi, uniti nella medesima preoccupazione per la nostra più intima esistenza, una parola su problemi che riguardano appunto questa esistenza e la sua salvezza.
L'oratore dunque intende parlare qui ad uditori che siano pronti a condividere questa preoccupazione. Soltanto con loro. Questa esclusività è necessaria per la dignità della cosa e per l'onore della propria interiorità. Con ciò è chiarito l'oggetto della nostra conversazione, definito il nostro atteggiamento, e circoscritto il suo ambito.
Se tutto ciò vi dovesse sembrare troppo esigente, eccovi la risposta: il dir questo fa appunto parte dell'argomento di cui ci occupiamo. Ne determina il carattere. Ognuno deve assoggettarsi al giudizio che venne pronunciato sopra la trascuratezza colpevole del nostro tempo. Nessun individuo è esente da quello che tocca tutti. In un punto però può differenziarsi: che egli abbia la coscienza di questa trasandatezza. Che egli non chiami ordine questa devastazione, ma sappia ben distinguere. Che egli chiami con il loro nome il disordine e l'irriverenza e abbia la volontà che le cose cambino.
E ancora un'osservazione: il discorso deve aggirarsi intorno ad alcuni problemi della vita interiore: problemi religiosi e morali dunque. Però non si intende con ciò di esporre un sistema di etica, ma soltanto di mostrare un fecondo punto di partenza; uno fra i tanti. Se qui e in tale contesto non si fa espressa parola della morale cristiana positiva, non è per escluderla, ma anzi perché viene esplicitamente presupposta.
Le tre conferenze hanno un nesso vicendevole, e pertanto sulle prime apparirà poco chiaro qualche punto, che poi troverà spiegazione nel corso della trattazione.

Nella vita non farmi mai accontentare delle scorciatoie



Da bambino ho fatto un sogno.
Ho sognato che i soldati Ti stavano inchiodando alla croce
E io, passando di la, ti guardavo incuriosito.

Ricordo ancora i volti delle persone che accorrevano.
Ricordo la curiosità e la paura e che provavo in quel momento:
Volevo guardare ma non volevo essere visto.

Più il tempo passava...
Più i soldati avanzavano con il loro lavoro...
...e il vicolo del mio paese si riempiva sempre più di gente.

Da allora ne è passato di tempo!
Una cosa, però, è sempre rimasta impressa nella mia mente:
Disteso sulla croce, c'eri tu che mi chiedevi aiuto.

Perché chiamassi me, io non lo so!
Del resto, lì vicino, c'erano tante altre persone:
grandi e piccoli che, come me, ti stavano a guardare...

Ricordo che per un attimo i nostri sguardi si sono incrociati.
I tuoi occhi, anche se sofferenti, mi incoraggiavano...
...sollecitavano un mio intervento in tua difesa...

Però, anch'io come Pietro, mi sono tirato indietro.
Anch'io ho preferito farmi gli affari miei; a non immischiarmi con Te...
...e andare a giocare un po' più in là, lontano dal tuo sguardo.

Insegnami, Signore, a non nascondermi mai da te,
ad accettare, sempre, anche le situazioni più difficili
e a non scappare mai davanti ai problemi.

Nella vita non farmi mai accontentare delle scorciatoie
e non farmi cercare quelle strade troppo facili
che portano alla gioia di un solo momento.

Insegnami a scegliere sempre
non tanto ciò che voglio io
ma solo ciò che è giusto ai tuoi occhi.

In famiglia fammi essere un bravo sposo,
un padre giusto e generoso con i miei figli,
un buon cristiano con chiunque mi incontra.

Fammi rimanere sempre vicino a te,
unica fonte di vera pace
e di vera gioia.

(Adolfo Rebecchini)

mercoledì 18 agosto 2010

dare incanto nuovo all'esistenza

PREGHIERA DEL MATTINO
Signore, fa' che questa mattina io senta la voce della tua bontà amorosa: che non trascuri mai le tue ispirazioni e abbia, invece, sempre fiducia nella tua bontà.
Insegnami a fare la tua volontà e a ricevere da te il frutto della tua vigna, che è il dono del tuo corpo e del tuo sangue, perché tu sei il mio Signore e il mio Dio.
PREGHIERA DELLA SERA
Dio d'amore, nostro pastore e nostro custode, abbi pietà di coloro che ti implorano nella disperazione e nell'abbandono; vieni in loro aiuto.
Mostra loro che, pur nella loro miseria, tu li chiami a condividere la ricchezza del tuo grande amore per loro, perché tu sei l'amico di chi non ha amici, sempre ricco in misericordia.

Acquisire fede che cos'è? E acquisire bellezza del vivere: scoprire che è bello vivere, è bello amare, creare, generare, mettere la vita nelle mani di chi mette la sua vita nelle tue. E' bello appartenere a Cristo e al Vangelo, perché tutto ha un senso positivo, tutto va verso la vita e non verso la morte, verso un esito luminoso qui e nell'eterno. Verso una vita buona, bella e beata. Acquisire vocazione è acquisire bellezza del vivere e reincantare la vita, recuperando la centralità e la rilevanza del trascendente e del bello. I credenti sono chiamati a dare incanto nuovo all'esistenza, sulle orme di «Cristo incantatore» (sant'Ambrogio). La bellezza apre al mistero e guida alla decisione morale di accettare il mistero. Anche il bene, per attrarre, per mantenere la sua forza di attrazione, deve essere bello. Perché devo compiere il bene e fuggire il male? Perché devo? Perché il cuore mi dice che agendo così trovo la felicità. Il perché è legato, dipende da un «sentire». Il perché è estetico. Di questi tempi non basta più ricordare l'alterità di Dio, la sua diversità, o l'umiltà o la debolezza di Dio. Dobbiamo riscoprire la bellezza di Dio, proporre un Dio in forma attraente: che avvinca, leghi, muova, incanti. Davanti all'indifferenza che ci circonda, non basta più dire che Dio è vero e buono, occorre mostrare anche che Dio è bello. La forza che attrae l'uomo contemporaneo non è più quella della costrizione logica della verità, non è più quella della costrizione etica del bene, ma è quella dello splendore del vero e del buono, cioè della loro bellezza.
Ermes Ronchi, Tu sei bellezza, 68-69

martedì 17 agosto 2010

Ave Maria

non ho altra scusa

Ho tra le mani il libro, l'ultimo libro di Henry Nouwen "Viaggio sabbatico. Il diario del suo ultimo viaggio."
da pag. 17
Ora come ora non ho altra scusa che imbarcarmi in un nuovo viaggio,  confidando che tutto andrà bene. Mi è chiaro che devo di nuovo tenere un diario, così come ho fatto durante l'anno prima di venire  a Daybreak. Ho promesso a me stesso di non passare un giorno senza scrivere, il più sinceramente e direttamente possibile, ciò che accade dentro ed intorno a me. Non sarà facile, dato che non conosco il campo in cui sto entrando. Ma sono pronto ad assumere qualche rischio.
Comincio quest'anno con la preghiera di Charles de Foucauld, la preghiera che dico ogni giorno con molta trepidazione.
Padre mio, 

mi abbandono a Te 
fa di me ciò che ti piace; 
qualunque cosa tu faccia di me, 
ti ringrazio.
 
Sono pronto a tutto, 
accetto tutto,
purché la tua volontà 
si compia in me 
ed in tutte le tue creature; 
non desidero niente altro, mio Dio.
 
Rimetto la mia anima nelle tue mani, 
te la dono, mio Dio, 
con tutto l’amore del mio cuore, 
perché ti amo.
 
Ed è per me una esigenza d’amore 
il donarmi, 
il rimettermi nelle tue mani, 
senza misura, 
con una confidenza infinita, 
perché tu sei il Padre mio.
3- settembre- 1995