A pensarci bene, non c'e' un principio per le cose e le persone, tutto quello che un giorno è cominciato era cominciato prima, la storia di questo foglio di carta, prendiamo l'esempio più a portata di mano, per essere vera e completa, dovrebbe risalire sino agli inizi del mondo, si è usato di proposito il plurale invece che il singolare, e tuttavia quegli inizi, dubitiamo che siano stati inizi, ma solo punti di passaggio, rampe di scorrimento, povera testa nostra, sottoposta a tali pressioni, una testa sorprendente, nonostante tutto, che per tutte le ragioni è capace d'impazzire, tranne che per questa.josè saramago, la zattera di pietra
Waldemar Boff - Il canto alla delicatezza
Potrei cantare la delicatezza, la mansuetudine, la dolcezza, l’affabilità, la cordialità, la tenerezza, la gentilezza, la cortesia, la leggerezza, l’attenzione, la fragilità, il candore e la finezza. Magari potessi cantare soltanto la sensibilità, questo tenue filo azzurro che unisce tutte queste fragili conchiglie.
Ma preferisco cantare la delicatezza. Non saprei dire il perché. La parola mi richiama la semente della palma, volando verso il sole -quella tenue pallina di fili bianchi- porta al centro una piccola semente scura, mi ricorda anche il seme della sumauma (pianta leguminosa), quando il baccello duro si apre, lascia volare lentamente centinaia di sementi, le quali come un paio di ali leggerissime, trasparenti si lasciano portare dal vento, senza sapere dove e senza sapere il destino, se ne vanno per germinare oppure no.
San Francesco aveva grande delicatezza perfino con i vermi, che egli allontanava dal suo cammino per non calpestarli o con le erbe inutili dell’orto, che egli raccomandava al fratello ortolano di non sradicare. Ma era soprattutto delicato con coloro che sbagliavano: chiedeva ai fratelli che li accogliessero sempre e non svelassero mai agli altri le loro malefatte per non metterli a disagio.
E’ delicatissimo il quadro naif di Nelson Porto, con le sue casette e gli alberi con tonalità soavi di mille colori. Quale delicatezza anche in un vaso di fiori giapponese o nei gesti del tai-chi-chuan in un mattino di sole all’aria libera! Ed anche tante attenzioni quotidiane,anonime ed impercettibili nella risposta ad una cartolina, nell’offerta di un fiore campestre, in uno sguardo limpido, in una parola di conforto, in un sorriso gratuito. Può sembrare cinismo o ingenuità cantare la delicatezza in tempi di grande rozzezza e sospetti.
Si ha l’impressione che l’umana ragione sia impazzita oltre i limiti. Uno con un’arma in mano sembra non rendersi conto del volto tenero di un bambino, o vedendo le mani tremule di un vecchio, o il corpo stanco di un operaio. A questo furore travolgente ed insensato non sfugge nessuno, né animali, né acque o piante o fiori. Alle volte mi domando se non dovrebbe essere la delicatezza a prenderci per mano per condurci negli spazi più intimi della conoscenza e dell’amore? Non sarà essa che ci permetterà di aprirci agli altri e rivelare loro i nostri segreti più intimi? Non sarà ancora la delicatezza che ci fa camminare scalzi, in punta di piedi, con timore e rispetto nel sacro territorio della persona amata? Non è necessario ricordare che la nostra tradizione educativa ha come programma le Scuole di Arti e Mestieri.
Lì si insegna la tecnica e l’arte di esprimersi in modo personale attraverso la pittura,la scultura, la danza, il teatro e la musica. Si insegnano e si praticano pure i vari mestieri: falegnameria, edilizia, elettricità, meccanica, topo- grafia, disegno e stampa. Mi accorgo che sto distraendomi. Mi immagino altre scuole popolari: piccole, semplici, belle, illuminate dove si possa sviluppare la tecnica e l’arte della delicatezza. Non avrebbero prioritariamente una finalità personale e soggettiva o professionale utilitaria. Potrebbe essere forse la volta buona per imparare un’etica e un’estetica democratiche, pure e gratuite. La crescita della delicatezza nell’anima dei ricchi e dei poveri faciliterà il compito di impara- re ed esercitare la bellezza, il dettaglio, la tolleranza, il convivio, la cooperazione e la giustizia.
Nell’esperienza della delicatezza, giovani e vecchi, matti e sani, vittime e carnefici, potrebbero curarsi l’un l’altro e crescere assieme in umanità. Cosa farebbero là? Canterebbero, ascolterebbero e farebbero musica; si eserciterebbero nella calligrafia; dipingerebbero su seta, farebbero bambole; declamerebbero poesie liriche; scherzerebbero con le parole, farebbero arte con i movimenti del corpo, imparerebbero a distinguere colori odori e sapori; pregherebbero e mediterebbero, organizzerebbero giardini personali di pie- tre o fiori. Imparerebbero a camminare con eleganza e naturalezza tra le suscettibilità e le debolezze degli umani,senza fingere e senza offendere.
Chissà, se con una maggior riserva di delicatezza noi non potremmo controbilanciare il prevalere della abituale brutalità che ci fa sentire figli del disordine e della bruttura. Chissà se con un po’ più di delicatezza noi non potremo intravedere più presto la nascita di una cultura generale che ci permetta di guardarci come figli del- la bellezza, frutti rosei di un puro atto di amore originale, delicatamente vigoroso e decisamente duraturo.
Potrei cantare la delicatezza, la mansuetudine, la dolcezza, l’affabilità, la cordialità, la tenerezza, la gentilezza, la cortesia, la leggerezza, l’attenzione, la fragilità, il candore e la finezza. Magari potessi cantare soltanto la sensibilità, questo tenue filo azzurro che unisce tutte queste fragili conchiglie.
Ma preferisco cantare la delicatezza. Non saprei dire il perché. La parola mi richiama la semente della palma, volando verso il sole -quella tenue pallina di fili bianchi- porta al centro una piccola semente scura, mi ricorda anche il seme della sumauma (pianta leguminosa), quando il baccello duro si apre, lascia volare lentamente centinaia di sementi, le quali come un paio di ali leggerissime, trasparenti si lasciano portare dal vento, senza sapere dove e senza sapere il destino, se ne vanno per germinare oppure no.
San Francesco aveva grande delicatezza perfino con i vermi, che egli allontanava dal suo cammino per non calpestarli o con le erbe inutili dell’orto, che egli raccomandava al fratello ortolano di non sradicare. Ma era soprattutto delicato con coloro che sbagliavano: chiedeva ai fratelli che li accogliessero sempre e non svelassero mai agli altri le loro malefatte per non metterli a disagio.
E’ delicatissimo il quadro naif di Nelson Porto, con le sue casette e gli alberi con tonalità soavi di mille colori. Quale delicatezza anche in un vaso di fiori giapponese o nei gesti del tai-chi-chuan in un mattino di sole all’aria libera! Ed anche tante attenzioni quotidiane,anonime ed impercettibili nella risposta ad una cartolina, nell’offerta di un fiore campestre, in uno sguardo limpido, in una parola di conforto, in un sorriso gratuito. Può sembrare cinismo o ingenuità cantare la delicatezza in tempi di grande rozzezza e sospetti.
Si ha l’impressione che l’umana ragione sia impazzita oltre i limiti. Uno con un’arma in mano sembra non rendersi conto del volto tenero di un bambino, o vedendo le mani tremule di un vecchio, o il corpo stanco di un operaio. A questo furore travolgente ed insensato non sfugge nessuno, né animali, né acque o piante o fiori. Alle volte mi domando se non dovrebbe essere la delicatezza a prenderci per mano per condurci negli spazi più intimi della conoscenza e dell’amore? Non sarà essa che ci permetterà di aprirci agli altri e rivelare loro i nostri segreti più intimi? Non sarà ancora la delicatezza che ci fa camminare scalzi, in punta di piedi, con timore e rispetto nel sacro territorio della persona amata? Non è necessario ricordare che la nostra tradizione educativa ha come programma le Scuole di Arti e Mestieri.
Lì si insegna la tecnica e l’arte di esprimersi in modo personale attraverso la pittura,la scultura, la danza, il teatro e la musica. Si insegnano e si praticano pure i vari mestieri: falegnameria, edilizia, elettricità, meccanica, topo- grafia, disegno e stampa. Mi accorgo che sto distraendomi. Mi immagino altre scuole popolari: piccole, semplici, belle, illuminate dove si possa sviluppare la tecnica e l’arte della delicatezza. Non avrebbero prioritariamente una finalità personale e soggettiva o professionale utilitaria. Potrebbe essere forse la volta buona per imparare un’etica e un’estetica democratiche, pure e gratuite. La crescita della delicatezza nell’anima dei ricchi e dei poveri faciliterà il compito di impara- re ed esercitare la bellezza, il dettaglio, la tolleranza, il convivio, la cooperazione e la giustizia.
Nell’esperienza della delicatezza, giovani e vecchi, matti e sani, vittime e carnefici, potrebbero curarsi l’un l’altro e crescere assieme in umanità. Cosa farebbero là? Canterebbero, ascolterebbero e farebbero musica; si eserciterebbero nella calligrafia; dipingerebbero su seta, farebbero bambole; declamerebbero poesie liriche; scherzerebbero con le parole, farebbero arte con i movimenti del corpo, imparerebbero a distinguere colori odori e sapori; pregherebbero e mediterebbero, organizzerebbero giardini personali di pie- tre o fiori. Imparerebbero a camminare con eleganza e naturalezza tra le suscettibilità e le debolezze degli umani,senza fingere e senza offendere.
Chissà, se con una maggior riserva di delicatezza noi non potremmo controbilanciare il prevalere della abituale brutalità che ci fa sentire figli del disordine e della bruttura. Chissà se con un po’ più di delicatezza noi non potremo intravedere più presto la nascita di una cultura generale che ci permetta di guardarci come figli del- la bellezza, frutti rosei di un puro atto di amore originale, delicatamente vigoroso e decisamente duraturo.
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