In questo capitolo 20 di Geremia, che riporta una sezione delle
cosiddette “confessioni” del profeta, e che costituisce la prima
lettura odierna, è tratteggiata in modo drammatico l’atmosfera di
sospetto che lo circonda, mettendo in serio pericolo la sua stessa
vita. In questo testo, così vicino alla figura di Cristo sotto
l’aspetto del mistero della persecuzione subita dall’uomo giusto
e fedele alla Parola di Dio, vi sono tuttavia elementi di contrasto
con quello che in Cristo si rivela come un atteggiamento nuovo, e in
un certo senso inedito, nei confronti dei propri nemici. Da un lato
il profeta Geremia consegna la sua causa a Dio, dall’altro esprime
il desiderio e il bisogno del suo cuore di ottenere una rivalsa o una
vendetta su chi insidia la sua vita. Egli, infatti, desidera vedere
la punizione divina abbattersi sui suoi nemici. La sua preghiera è
improntata ad una visione delle cose che spesso ricorre nei salmi di
genere imprecatorio; si tratta infatti di una preghiera che chiede a
Dio la punizione dei propri nemici: “Signore
degli eserciti possa io vedere la tua vendetta su di essi,
poiché a te ho affidato la mia causa”. Proprio in questo
punto il modello umano di Cristo introduce una novità: in Lui
troveremo solo l’affidamento della propria causa a Dio, ma non la
richiesta di punizione. Essa infatti si è già interamente abbattuta
su di Lui. Geremia, nel chiedere a Dio vendetta sui propri nemici,
svela i suoi limiti veterotestamentari, ossia la sua appartenenza a
una fase della rivelazione ancora incompleta e bisognosa di
perfezionamento. Dall’altro lato, la preghiera imprecatoria di
Geremia contiene una verità che fa eco, in qualche modo,
all’insegnamento del Deuteronomio circa la sofferenza d’Israele
nel deserto: “Signore degli
eserciti che provi il giusto e scruti il cuore e la mente”.
Questa preghiera è un’eco di quelle parole del Deuteronomio, dove
si dice che Dio ha fatto passare Israele attraverso la prova per
conoscere quello che aveva nel cuore, ma in realtà non è Dio che ha
bisogno di conoscere il cuore umano, nel quale Lui legge senza
difficoltà, siamo piuttosto noi che, attraverso la prova, giungiamo
a un grado maggiore di conoscenza di noi stessi. Non sapremo mai, ad
esempio, se siamo veramente capaci d’ubbidienza, se non si
verificheranno delle circostanze nelle quali la nostra ubbidienza
diventi difficile e sofferta, ma accettata tuttavia di buon grado.
Non sapremo mai se saremo in grado di perdonare davvero il nostro
prossimo, se nessuno ci affligge, ci offende o ci perseguita.
Don Vincenzo Cuffaro
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