La meta del suo viaggio nell’oscurità del venerdì santo infatti
non è la morte,
bensì l’abbraccio del Padre:
“era
venuto da Dio e a Dio ritornava”.
Per Cristo l’abbandonarsi
nella morte coincide col ritrovamento del Padre.
Così, la morte di
croce assume i tratti del mistero pasquale nel senso esodale del
“passaggio”.
La morte
cessa allora di essere per l’uomo una
meta terminale e
si muta in uno spazio di attraversamento.
Al di là
di questo spazio vi è l’attesa del Padre.
Questi due versetti descrivono in modo particolareggiato un gesto di
Gesù che deve restare impresso nella mente di ogni discepolo.
L’accumulo dei verbi (otto verbi in due versetti) è il segnale
chiaro di una narrazione che rallenta: si alzò… depose… prese un
panno… se lo cinse… Si ha l’impressione di una scena che si
muove al rallentatore, come se l’evangelista non volesse perdere
alcuna sfumatura dei gesti di Gesù.
Si tratta dell’ultimo gesto
del Maestro che viene consegnato alla comunità cristiana come norma
perenne del suo agire. L’amore deve tradursi in una azione
concreta, e qui Cristo utilizza un linguaggio non verbale di grande
forza: si spoglia del mantello e si cinge con un panno. L’espressione
“depose le vesti” riportata dalla traduzione CEI andrebbe
tradotta meglio con “depose il mantello”; il termine greco si
riferisce agli indumenti che si aggiungono al vestito, ossia il
mantello che si sovrappone. Questo particolare è significativo se si
pensa che i verbi utilizzati dal testo collegano il mantello di Gesù
con la natura umana assunta dal Verbo. Togliersi il mantello acquista
perciò il senso di una anticipazione della sua morte. Il v. 4 è
inequivocabilmente correlativo al v. 12, dove Gesù riprende il
mantello, gesto col quale la natura umana, deposta nella morte, viene
ripresa con la risurrezione. A sua volta, il duplice gesto di deporre
il mantello e di riprenderlo è caratterizzato, in lingua greca,
dagli stessi verbi usati da Gesù in 10,17: “Per
questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi
riprenderla di nuovo”. Amare secondo il modello della
lavanda dei piedi presuppone insomma la disponibilità al dono della
vita. Si potrebbe persino affermare che l’intensità dell’amore
cristiano è proporzionale alla capacità personale di morire a se
stessi. Ma il testo di 10,17 dice anche di più: chi ama così è
amato da Dio. Cristo, però, ci tiene a sottolineare che la
disponibilità a dare la vita, richiesta al discepolo di ogni epoca,
non è mai un gesto ascetico fine a se stesso. Gesù non si limita a
deporre il mantello, si cinge anche di un grembiule. Non si
giustifica la deposizione del mantello se non in vista di un amore
che si concretizza nel servizio; né sarebbe possibile servire con
indosso il mantello che intralcia i propri movimenti.
Versata l’acqua nel catino, Gesù comincia a lavare i piedi ai suoi
discepoli. Nelle consuetudini ebraiche, il gesto di lavare i piedi
indicava l’accoglienza e l’ospitalità nei confronti di un amico
o un pellegrino che ha camminato a lungo. Era un gesto che però non
veniva compiuto dal padrone di casa, ma sempre da uno schiavo non
ebreo, oppure da una donna. Presupponeva insomma che chi lavava i
piedi si trovasse su un gradino più basso di colui al quale era
destinato questo servizio. Inoltre, la lavanda dei piedi avveniva
sempre prima del pasto, non durante, come in questo caso. Ciò
significa che il gesto di Cristo prende solo lo spunto dalle
consuetudini ebraiche, ma se ne distacca per esprimere un
insegnamento nuovo. Il suo servizio non è un servizio qualunque:
Egli accoglie nella casa del Padre l’uomo che vi arriva dopo un
lungo pellegrinaggio alla ricerca di Dio, come un viandante
affaticato. Nella casa del Padre suo, Cristo si cala nel ruolo di un
servo, perché il viandante abbia un’accoglienza degna di un
figlio. Si cinge perciò del grembiule. Ma prima ha dovuto togliersi
il mantello, deponendo nella morte la natura umana assunta nella sua
Incarnazione, in attesa di riprenderla dopo il compimento di tutto.
Va notato inoltre che l’evangelista menziona solo la ripresa del
mantello, ma non dice che Gesù si tolse il grembiule. Questa
omissione non è senza significato: Gesù non depone il grembiule,
perché esso rappresenta un suo attributo permanente anche dopo la
risurrezione. Il suo servizio d’amore infatti non cesserà con la
fine del suo ministero pubblico. Per questa ragione, il Risorto si
manifesta ai suoi discepoli con i segni della Passione: le sue ferite
rimangono aperte anche nel suo corpo glorificato, come segno di
accoglienza incondizionata dell’uomo. In tal modo Cristo demolisce
l’idea di Dio costruita dalla mentalità umana: Dio non si
comporta come un sovrano celeste, ma come un instancabile servitore
dell’uomo, proprio Lui che è “il Signore”. L’amore di
Dio non ci viene dato come un’elemosina dall’alto, bensì come un
servizio che ci innalza, in un incredibile capovolgimento delle
parti, dove Lui diviene servo e noi principi. Ma proprio nella sua
disposizione a farsi servo, Cristo rivela tutto lo splendore della
sua divinità. Lungi dall’essere umiliante, il suo gesto di
abbassarsi per servire è più regale di qualunque dominio. Cristo
mostra coi fatti un criterio che la comunità cristiana non può
sorvolare impunemente: non si può pensare di amare l’uomo
ponendosi sopra di lui. Dio stesso ritiene di non poterlo fare, e
nella sua scelta irreversibile di amare l’uomo si cala in modo
permanente nel ruolo di un servitore. Una volta indossato il
grembiule, Cristo non se lo toglie più.
Don Vincenzo Cuffaro
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