Cristo venne schernito
in entrambi i casi in questi medesimi termini individuati dal terzo
canto del servo di Yahweh come le sofferenze destinate al Messia.
Anche qui, però, una tale immane sofferenza è accompagnata da una
certezza incrollabile, dell’assistenza di Dio, ed è per questo che
il servo di Yahweh non resta confuso, per quanto la persecuzione
possa scatenarsi contro di Lui.
Le espressioni finali della prima
lettura esprimono molto bene questa sicurezza: “E’
vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me?
Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco il Signore Dio
mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”.
Non potrà mai
esserci un processo che si chiuda
con una sentenza di condanna per un
innocente;
anche se questo può accadere nel tribunale umano,
Dio
stesso, per iniziativa propria,
riapre il processo, quando, dinanzi
al suo Tribunale,
tutti gli eventi della storia umana dovranno essere
riverificati
e giudicati una seconda
e ultima volta.
Quello che il
testo sottolinea ancora,
accanto alla sofferenza accompagnata dalla
sicurezza dell’aiuto di Dio,
è il fondamento della sofferenza,
ossia l’atteggiamento del discepolato,
per il quale la sofferenza
non viene sciupata né vissuta in maniera bruta e svuotata di
significati.
Il discepolato trasforma la sofferenza dell’uomo in un
sacrificio di lode gradito a Dio.
Il testo di Isaia parla infatti
della sofferenza del servo in seconda posizione rispetto al suo
atteggiamento di ascolto
e rispetto all’orecchio da iniziati che si
apre al suono della Parola di Dio.
Il servo dice di essersi lasciato
aprire l’orecchio e di non essersi tirato indietro,
resistendo alla
grazia:
“non ho opposto
resistenza, non mi sono tirato indietro”.
In lui non c’è
dunque alcuna resistenza al progetto di Dio,
e perciò il suo
orecchio si apre all’ascolto della Parola e acquista, al tempo
stesso, anche un linguaggio da iniziati.
Non c’è dubbio che questa
immagine voglia descrivere la disposizione del discepolato,
che sta
alla base del ministero della Parola;
ma ciò significa pure che
l’ascolto e la sottomissione alla Parola di Dio sono ciò che
permette alla sofferenza di acquistare significati nuovi, così che
non si soffra senza scopo.
La sofferenza del servo non potrebbe avere
questi significati divini, di cui parliamo,
se l’esperienza del suo
dolore non andasse a radicarsi
nella disposizione dell’ascolto
della Parola di Dio.
La condizione di discepolato rende la sofferenza
valida e fruttuosa agli occhi di Dio,
nella dimensione
soprannaturale, anche se, a livello umano,
potrebbe non esserci un
frutto visibile; ma quel frutto che rimane, la crescita della
santità, comunque,
è presente in ogni caso dinanzi a Dio, anche se
fosse assente nell’esperienza terrena.
Da qui la sicurezza del
servo e il suo irriducibile ottimismo anche negli oltraggi e nella
persecuzione:
“è vicino chi mi
rende giustizia;
chi oserà venire a contesa con me?
Il Signore Dio
mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?”.
Don Vincenzo Cuffaro
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