I due brani biblici si collegano in ragione della figura di Mosè,
che è il punto di contatto esplicito tra le due letture odierne.
Questa figura assume due atteggiamenti diversi nelle due letture: nel
testo del libro dell’Esodo, Mosè si presenta come un intercessore,
chiedendo perdono a Dio dei peccati del suo popolo; ma nel testo
giovanneo la figura di Mosè è ben diversa. Nelle parole di Cristo
egli è infatti descritto non più come un intercessore, ma come un
accusatore: “Non crediate che
sia Io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa,
Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza” (v. 45).
Questa trasformazione dell’atteggiamento di Mosè è altamente
significativa per indicare la differenza delle fasi della storia
della salvezza e per indicare al tempo stesso la gravità del rifiuto
di Cristo, che non ha paragoni nelle sue conseguenze: nei vangeli
sinottici è detto infatti che il peccato contro lo Spirito non può
essere perdonato né in questo mondo, né nell’altro (cfr. Mc
3,28-30). La figura di
Mosè da intercessore che storna l’ira di Dio, nel contesto del
cammino nel deserto, e in concomitanza con il peccato del vitello
d’oro che stimola la giustizia di Dio a intervenire, si muta in
quella di accusatore dopo la venuta di Cristo, avendo Israele
rifiutato il suo Messia, ovvero l’ultima rivelazione dell’amore
di Dio, realizzatasi sulla croce. Ormai non ci sono più
giustificazioni dinanzi a Dio per avere rifiutato il Messia, dopo
averlo conosciuto come l’unica possibilità per l’uomo di essere
salvo. Infatti, nei vangeli sinottici, l’invio del Figlio, come in
particolare si vede nella parabola dei vignaioli omicidi, rappresenta
l’ultima possibilità: Dio, dopo avere inviato i suoi servi, per
ultimo invia il suo Figlio. L’incontro con Lui rappresenta
perciò l’ultima possibilità di salvezza. Nel testo del libro
dell’Esodo, la figura di Mosè personifica anche un insegnamento
fondamentale sulla preghiera di intercessione: la giustizia di Dio
non può sorvolare il peccato dell’umanità, né può fingere di
non udire il lamento degli oppressi sotto il giogo dei loro
oppressori; tuttavia, Dio rimane in attesa che qualcuno gli fermi la
mano e forzi la sua Misericordia a prevalere sulla sua Giustizia. Da
questo punto di vista, Mosè si presenta davanti a Dio come un
avvocato difensore dell’umanità peccatrice, in contrasto con
l’inclinazione naturale del cuore umano, che invece tende molto più
facilmente a prendere le difese della giustizia di Dio contro il
peccato dell’umanità. Del resto, nel libro di Giobbe, i tre amici
che vanno a trovarlo nel tempo della sua malattia, assumono
esattamente questa posizione, che alla fine del libro sarà smentita
da Dio e giudicata stolta (cfr Gb 42,7-8): essi si mettono davanti a
Dio per accusare Giobbe e davanti a Giobbe per giustificare l’azione
di Dio, che, se lo ha afflitto con la sofferenza, è perché certo ha
i suoi buoni motivi per castigarlo. Malgrado Dio non abbia bisogno di
alcuno che lo aiuti a governare il mondo, tuttavia, il fatto di
intercedere per l’umanità peccatrice, ha una grande forza, perché
anche per la preghiera di un solo uomo Dio può fare grazia a tutti,
come nel caso di Abramo: in forza della sua intercessione, il Signore
avrebbe fatto grazia ad una città intera.
Don Vincenzo Cuffaro
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