Negli altri due testi della liturgia odierna l’incontro con il
Signore produce la radicale divisione tra la luce e le tenebre in
un’opera simile a quella compiuta dal Dio creatore all’origine
(cfr. Gen 1,3-4). L’Apostolo Paolo precisa che non si tratta di una
luce materiale, ma di una luce immateriale:
“il
frutto della luce consiste in ogni bontà,
giustizia e
verità”
(v. 9). Queste tre parole appartengono all’ordinamento morale;
sono, infatti, le scelte di coscienza che portano l’uomo ad aderire
ad uno di questi due schieramenti, senza la possibilità di una
scelta intermedia.
Non c’è una terza possibilità, come avviene
nel mondo fisico in cui esiste una zona intermedia: tra la luce e la
tenebra il mondo fisico conosce la penombra, dove non c’è
abbastanza luce per vedere, ma neppure una tenebra fitta da impedire
la visuale. Ma nello spirito, la luce e le tenebre sono divise da un
netto confine che le distingue, le rende antitetiche e incompatibili
reciprocamente. L’esortazione dell’Apostolo: “Comportatevi
perciò come figli della luce” (v. 8), allude alla libera
scelta di coscienza, non deterministicamente condizionata da alcuna
forza esteriore all’uomo. Gesù stesso nel vangelo affermerà che
non è ciò che entra nell’uomo a contaminarlo, ma ciò che esce
(cfr. Mc 7,14-15), intendendo dire che l’uomo viene corrotto dalle
decisioni della sua stessa coscienza.
L’orientamento giusto che
permette all’uomo di aderire alla dimensione della luce si esprime
nella qualità delle relazioni impregnate di “bontà,
giustizia e verità”.
La bontà e la giustizia non
coincidono, ma sono come due cerchi concentrici in cui la giustizia
viene inclusa nella bontà.
La bontà è una disposizione dell’uomo
a superare i confini della giustizia; infatti, laddove la giustizia
dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, la bontà dà il dovuto e più
del dovuto. Quindi, la bontà non è mai contro la giustizia. La
bontà è il superamento dei confini della giustizia, dopo averli
però raggiunti. E per questo motivo la giustizia sta dentro la bontà
come un cerchio più piccolo dentro uno più grande.
La verità è
invece la scelta di non falsificare i dati della propria coscienza;
essa non coincide con la sincerità, perché chi è sincero dice
quello che pensa, ma le proprie convinzioni potrebbero essere false,
anche se soggettivamente si è convinti della loro verità.
L’adesione alla verità, invece, è una scelta di coscienza,
laddove essere fedeli alla verità significa rinunciare a falsificare
intenzionalmente i dati della realtà per scansare qualche
inconveniente o per cadere in piedi nelle situazioni difficili. In
definitiva, la verità impedisce di falsificare i dati in nostro
possesso.
Entrando in merito a particolari aspetti del comportamento,
l’Apostolo suggerisce ai cristiani di non perdere mai la
consapevolezza della propria signorilità.
Infatti, tale
consapevolezza nasce da una vita vissuta nella luce della grazia:
“Fratelli, un tempo eravate
tenebra,
ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli
della luce” (v. 8).
Occorre prendere le distanze dal
passato, affrancarsi da tutto ciò che è antico e invecchiato; e in
realtà, dinanzi alla novità della grazia, tutto è vecchio e
antiquato.
La grazia ci pone in una continua novità, proiettati
verso il futuro di Dio.
Non conta più ciò che eravamo: nel passato
eravamo tenebra, adesso siamo luce nel Signore.
Ma questo esige anche
un’opzione particolare: Dio ci ha costituiti figli della luce,
attendendosi che noi decidiamo di vivere di conseguenza.
L’Apostolo continua:
“Cercate
di capire ciò che è gradito al Signore” (v. 10).
Si
comprende come la decisione di vivere nella luce comporti delle
scelte di coscienza compiute sia in una linea orizzontale sia in una
linea verticale. Nella linea orizzontale, chi sceglie la luce vive
con fedeltà nella bontà, nella giustizia e nella verità, ma al
tempo stesso viene integrata nella linea verticale dalla scelta della
fedeltà alla volontà di Dio:
“Cercate
di capire ciò che è gradito al Signore”,
ovvero “Non
partecipate alle opere delle tenebre” (v. 11).
Le opere
delle tenebre esercitano talvolta un sinistro fascino che potrebbe
portare ad una partecipazione anche temporanea. Il cristiano
consapevole che la luce e le tenebre non hanno nessun punto di
contatto tra loro, sceglie di aderire radicalmente ai principi della
luce e la luce rivela tutto ciò che è luce (cfr. v. 13).
L’osservazione del v. 13 è un dato evangelico e, in generale, un
insegnamento del NT, dove la rivelazione differisce dallo scandalo.
Dicendo che tutto quello che si manifesta è luce, l’Apostolo
intende affermare che le manifestazioni della luce sono le uniche
capaci di edificare la persona nel bene; mentre la manifestazione del
male non è mai una rivelazione, ma è uno scandalo, un inciampo.
Vale a dire: la conoscenza del male non giova a nessuno, può
soltanto turbare, mentre la manifestazione della luce è una forza di
edificazione della persona nella santità e nella perfezione
cristiana.
Il testo si conclude con una esortazione che, con tutta probabilità,
la Chiesa primitiva utilizzava nella liturgia battesimale,
considerando il battesimo come l’illuminazione del catecumeno:
“Svegliati, tu che dormi,
risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà” (v. 14).
È
l’invito a passare dal regime delle tenebre al regime della luce in
quei termini già precedentemente spiegati dall’Apostolo come una
scelta di fedeltà nella linea orizzontale e in quella verticale: una
fedeltà ai valori positivi che edificano l’uomo e che traducono
l’ubbidienza alla volontà di Dio. Il v. 14 contiene due elementi
di grande importanza che ritornano nel racconto della guarigione del
cieco nato. Da un lato, la promessa della illuminazione che viene da
Cristo,
dall’altro la decisione personale di svegliarsi, di
destarsi dai morti,
perché l’illuminazione di Cristo è posta
dall’Apostolo Paolo
come una conseguenza della decisione personale
di destarsi dai morti.
Don Vincenzo Cuffaro
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