sabato 3 luglio 2010

Solo un bastone cui appoggiare la stanchezza e un amico a sorreggere il cuore.

L'annuncio, contagio buono
padre Ermes Ronchi
XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (04/07/2010)
Vangelo: Lc 10,1-12 .17-20 (forma breve: Lc 10,1-9)   Clicca per vedere le Letture (Vangelo: Lc 10,1-12 .17-20 (forma breve: Lc 10,1-9))
Partono senza pane, né sacca, né denaro, senza nulla di superfluo, anzi senza nemmeno le cose più utili. Solo un bastone cui appoggiare la stanchezza e un amico a sorreggere il cuore. Senza cose.
Semplicemente uomini.
Perché l'incisività del messaggio non sta nello spiegamento di forza o di mezzi, ma nel bruciore del cuore dei discepoli, sta in quella forza che ti fa partire, e che ha nome: Dio.
La forza del Vangelo, e del cristianesimo, non sta nell'organizzazione, nei mass-media, nel denaro, nel numero. Ancora oggi passa di cuore in cuore, per un contagio buono.
Partono senza cose, perché risalti il primato dell'amore. L'abbondanza di mezzi forse ha spento la creatività nelle chiese. Il viaggio dei discepoli è come una discesa verso l'uomo essenziale, verso quella radice pura che è prima del denaro, del pane, dei ruoli. Anche per questo saranno perseguitati, perché capovolgono tutta una gerarchia di valori.
Gesù affida ai discepoli una missione che concentra attorno a tre nuclei: Dove entrate dite: pace a questa casa; guarite i malati; dite loro: è vicino a voi il Regno di Dio. I tre nuclei della missione: seminare pace, prendersi cura, confermare che Dio è vicino.
Portano pace. E la portano a due a due, perché non si vive da soli, la pace. La pace è relazione. Comporta almeno un altro, comporta due in pace, in attesa dei molti che siano in pace, dei tutti che siano in pace. La pace non è semplicemente la fine delle guerre: Shalom è pienezza di tutto ciò che desideri dalla vita.
Guariscono i malati. La guarigione comincia dentro, quando qualcuno si avvicina, ti tocca, condivide un po' di tempo e un po' di cuore con te.
Esistono malattie inguaribili, ma nessuna incurabile, nessuna di cui non ci si possa prendere cura.
Poi l'annuncio: è vicino, si è avvicinato, è qui il Regno di Dio. Il Regno è il mondo come Dio lo sogna. Dove la vita è guarita, dove la pace è fiorita.
Dite loro: Dio è vicino, più vicino a te di te stesso; è qui, come intenzione di bene, come guaritore della vita.
E poi la casa. Quante volte è nominata la casa in questo brano! La casa, il luogo più vero, dove la vita può essere guarita. Il cristianesimo dev'essere significativo nel nostro quotidiano, nei giorni delle lacrime e della festa, nei figli buoni e in quelli prodighi, quando l'amore sembra lacerarsi, quando l'anziano perde il senno e la salute. Lì la Parola è conforto, forza, luce; lì scende come pane e come sale, sta come roccia la Parola di Dio, a sostenere la casa.

sai che...nulla potrà più essere come prima spinge a vedere le cose in maniera più cruda, disincantata, onesta (forse)


Non ho potuto fare a meno e propongo da http://speculummaius.wordpress.com/category/amarezze/ . Costringiamoci a vedere le cose in maniera più cruda,  disincantata, onesta (forse). Ci si rimbocca le maniche e lo si fa. Magari viene fuori anche una cosa più bella. Però insieme...

Il vantaggio di vivere un’epoca di declino in cui sai che – alla fine (ci sarà pure una fine,  no?) – nulla potrà più essere come prima spinge a vedere le cose in maniera più cruda,  disincantata, onesta (forse).
Davide scrive
credo che qualsiasi nazione non sappia dare il meglio ai propri elementi migliori meriti solo di colare a picco, esattamente come qualsiasi azienda che non abbia avuto l’intelligenza di guardare al futuro.
E se guardi onestamente la storia dell’accademia negli ultimi decenni, lasciata libera da ogni freno che le impedisse di perdersi nell’osservazione del proprio ombelico (e dei propri esclusivi e particolaristici interessi), alla fine la storia di Sansone e dei Filistei ha un suo perché.
Nessuno è innocente, in fondo. Anche le “vittime”.
Non lo sono quelli che hanno regalato il proprio tempo, il proprio studio e le proprie energie ad un’istituzione che non li pagava per farlo, anche quando “il motore” è stata la  passione verso il proprio campo di ricerca e per il suo insegnamento.  Anche loro (ed io sono tra questi) hanno contribuito ad alimentare un sistema perverso, che si è retto per decenni sullo sfruttamento della catena gerarchica della cultura.  Senza i cultori della materia, i dottorandi  e i ricercatori a reggere tutta la giostra degli esami, tesi, pubblicazioni, ecc. ecc. , la baracca sarebbe andata giù ben prima di arrivare a quell’era di declino inaugurata dall’autonomia.
Non lo sono i professori onesti che si sono scavati la loro nicchia per studiare, chiudendo occhi e orecchie per sopportare il mercanteggio che li circondava, essendo apparentemente impotenti rispetto alla graniticità del sistema.
Non lo sono gli studenti che hanno subito un vertiginosa caduta della qualità dell’insegnamento senza fiatare, quando hanno obiettato sulla composizione delle commissioni solo se c’era un componente da cui non volevano essere interrogati, quando hanno usato l’università in modo mercantilistico e acritico, affollando gli opzionali “facili” (anche quando vergognosi) e imparando a memoria senza discutere cose che non capivano solo perché il professore le voleva così.
Con questo non voglio certo minimizzare il ruolo di chi ha svenduto pezzi della cultura di tutti “giocandosi” i posti dei concorsi universitari (a tutti i livelli) e depauperando – come ho già scritto altrove – intere aree di ricerca. Però, se noi tutti avessimo reagito insieme, forse qualcosa poteva cambiare…
Ma siamo nel Paese che ha fatto del familismo amorale la sua bandiera e ci ritroveremo in mezzo alle macerie, impossibilitati ad andare avanti come a tornare indietro. Ed è quello che temo di più.
Se qualcosa è da ricostruire, ci si rimbocca le maniche e lo si fa. Magari viene fuori anche una cosa più bella. Quello che invece l’azione governativa di dequalificazione del sistema pubblico di istruzione – da una parte – e l’istinto di sopravvivenza della corporazione accademica – dall’altra – rischiano di provocare è uno stallo culturalmente suicida, che ci porterebbe a rimanere tra le macerie, accampandoci alla men peggio tra di esse e contendendoci i resti meglio conservati. Che sempre macerie resterebbero.
Una prospettiva che mi pare ben peggiore di una tabula rasa

Umanità sotto vuoto spinto

Ci
sono
luoghi
dove
il
dolore
è
distillato,
sterilizzato,
misurato,
testato,
schedato,
incasellato,
inscatolato.
In parole povere: ignorato.

Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli

Le lacrime sono un fiume che vi conduce da qualche parte. Il pianto crea attorno alla barca un fiume che porta la vostra vita-anima. Le lacrime sollevano la vostra barca al di sopra degli scogli, delle secche, conducendovi in un posto nuovo, migliore.
Esistono oceani di lacrime che le donne non hanno mai pianto, perché sono state addestrate a portare i segreti della madre e del padre, i segreti degli uomini, i segreti della società e i loro segreti giù nella tomba. Il pianto della donna è considerato piuttosto pericoloso, perché allenta le serrature e i chiavistelli sui segreti che porta.
In verità, per il bene dell’anima selvaggia, è meglio piangere. Per le donne le lacrime sono l’avvio dell’iniziazione nel Clan delle Cicatrici, questa tribù eterna di donne di ogni colore, di tutte le nazionalità, di tutte le lingue, che attraverso le epoche hanno vissuto qualcosa di grande, e hanno conservato l’orgoglio.

venerdì 2 luglio 2010

I miei libri sanno di essere lì, alla rinfusa, pronti però a ogni nuova avventura, a ogni spostamento dettato dal caso o dall'intenzione

Bellissimo questo post che riporto interamente da http://www.blogger.com/post-create.g?blogID=3536481137835612544. Sono grato alla sua autrice che descrive questo rapporto con i propri libri. Ma davvero sono solo libri?
L'altro giorno, a casa mia, un amico mi rimproverava la posizione sghemba dei libri ammucchiati su scaffali ormai invasi, troppo stretti, come un golfino infeltrito.
"Sono creature - mi ha detto - hanno bisogno di stare dritte".
Una frase bellissima. Vera, probabilmente. Solo che ognuno, i libri, li vive a modo suo.
Proprio perchè sono vivi, febbricitanti, i volumi della mia libreria condividono il disordine che anima la mia esistenza. Sono ammucchiati, sparpagliati, eppure non naufragano via in cerca di bussola. Semplicemente respirano il mio modo di essere, all'unisono con l'anarchico ordine (può sembrare assurdo, ma non lo è) in cui ogni cosa che si smarrisce viene trovata. Sì, insomma, come in un gigantesco frattale. Li ho amati, annusati (da quando ero piccola infilo le mie narici in ogni libro, con voluttà e persistenza), segnati; ne ho piegato le orecchie (ma ne ho assorbito la capacità di sentire),  accarezzato il dorso come si fa con un amante dopo l'amore, disegnato il profilo nello scaffale. Alcuni hanno buoni vicini di casa, vanno d'accordo, altri si trovano un po' spaesati, in compagnia di alcuni titoli con i quali non hanno nulla in comune (ma alla fine si rilassano e convivono, lo fanno meglio di quanto riusciamo a fare noi). Mi guardano dalla libreria, mi invitano a repentine riletture, a ricerche esasperate davanti a un romanzo scomparso, a piccole soste con gli occhi che innestano il carburante della memoria. Altri attendono di essere letti. Così, con pazienza. Sanno che prima o poi accadrà. E se non accade, va bene lo stesso. Sono meno ansiosi di noi, loro.
Ma non sono soldatini, i miei libri. Non sono intruppati in reparti. E neppure per autore. O per collana.
Stanno lì, randagi. Si spostano soffiati dal vento dei miei umori, che ora ne mette in evidenza alcuni, ora altri. Ma sono sempre accuditi. Perfino quando qualcuno di loro finisce con il dorso girato (ancora più prezioso il suo ritrovamento).
La mappa della mia libreria è casuale, come il tiro di un dado. Ma allo stesso tempo rivela tracce precise, ondulazioni tra passato e presente che scavano un'ansa nel tempo, cullandosi in uno spazio lontano. E' stropicciata. Sì. Somiglia più a una strada sterrata che a una via di cemento. Ma il suo essere selvaggia, il suo rifiutare l'addomesticamento di spazi e percorsi, è anche lo spazio di libertà in cui la vita si abbandona a sé stessa.
Certo, a volte sono costretta a lunghe ricerche. Ma ne vale la pena. I libri privilegiati, invece, godono di uno spazio particolare, accanto al divano, impilati senza un perché ma con un quando. Quando li leggerà? Ora, presto, domani. Più tardi. Non importa. Importa cercare.
E capire che ogni libreria ha le sue mappe e i suoi tesori.
Bisogna rispettare chi fa dei libri una reliquia, accudendoli come anziani all'ospizio (in effetti alcuni di loro sono molto vecchi), ma allo stesso tempo capire che si possono anche vivere così come si fa, a volte, con la vita: spargendoli intorno e dentro di noi, strusciandoci fisicamente la nostra esperienza, che li strapazza insieme alle rughe che compiono i nostri giorni.
Si possono bere e mangiare, i libri. Hanno suoni, odori e sapori.
Dalla libreria assistono, immobili, al nostro affaccendarci di formiche intorno alla tavola apparecchiata dei nostri giorni.
Eppure si muovono, dentro e fuori, dentro e fuori, tic tac, come le lancette di un orologio. Ed è la memoria a conservare nella testa e nel cuore i doni più belli che ci hanno fatto.
Molti di noi sognano i titoli che rileggeranno in vecchiaia. Mi sono ripromessa di rileggere Proust, ad esempio. Tutto, di nuovo. E poi anche un po' di Borges, di Calvino, di Woolf.
Quanti appuntamenti mancati, in alcuni libri che non ho avuto o voluto leggere. Ma sono come le occasioni perdute, come quei famosi treni che passano. E poi chissà, a volte la vita ti rimette davanti una situazione, il treno ripassa, forse si ferma. Anzi sono io ad abbassare il passaggio a livello fermandomi, con la valigia del tempo, davanti allo scaffale in cui quel famoso libro mai letto mi stava aspettando.
Ma molti ancora vorranno essere letti.
So che forse non ne avrò il tempo, e tuttavia la consapevolezza non corrode il gioiello del sogno.
Ognuno di noi conosce i segreti della sua libreria. Sa quali libri sono stati importanti, come i grandi amori, quelli rari, quelli che il cuore conserva con un sussurro; e sa quali invece sono stati solo comparse, intersezioni veloci, fugaci, che hanno lasciato un pallido segno.
Ci sono i libri mai finiti (perché non si deve finire un libro, il rapporto è libero, è anche uno scavo interrotto), quelli invece su cui gli occhi si sono attardati più volte, quasi sbiadendo - come per magia di costanza - i colori della copertina.
Le posizioni che assumono nella nostra biblioteca sono percorsi, direzioni dell'anima, indicatori del rapporto con il loro lettore.
I miei, lo ripeto, vivono una vita scarmigliata. Un po' come me. Ma sanno di essere lì, alla rinfusa, pronti però a ogni nuova avventura, a ogni spostamento dettato dal caso o dall'intenzione.
Ogni lettore possiede la mappa della sua libreria.  É una faccenda personale.
L'importante sono i tesori ai quali la mappa conduce. E quei tesori non stanno comunque nei libri, ma nel respiro allargato della nostra coscienza.

escogiteremo il mezzo di nascere in qualche modo da un'idea

Noi non sappiamo nemmeno dove sia ora ciò che è vivo, e che cosa sia, come si chiami. Lasciateci soli, senza libri, e ci confonderemo subito, ci smarriremo: non sapremo dove far capo, a cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare. Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostro corpo e sangue; ce ne vergognamo, lo consideriamo un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali. Siamo dei nati-morti, ed è già un pezzo che non nasciamo più neppure da padri vivi, e questo ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il mezzo di nascere in qualche modo da un'idea. Ma basta, non voglio più scrivere "dal sottosuolo"...
(Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)

non vivono nei dizionari, vivono nella mente

Sono le parole le vere colpevoli. 
Sono fra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno. Eppure il dizionario esiste; e lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle? No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. (...)
La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell'ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non vivono nei dizionari, vivono nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi. E' indubbio che siano molto meno limitate di noi dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con le più comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in mente di farlo. (...) Per questo, imporre regole a tali impenitenti vagabonde è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire di loro - man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono - che sembrano preferire la gente che sente e che pensa prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro purezza o della loro impurità. (...) E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. 
Odiano essere utili; 
odiano dover far soldi; 
odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, 
odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, 
o che le immobilizzi in un'unica posa, 
perché cambiare fa parte della loro natura.
E forse è proprio questa la loro caratteristica più sorprendente: il bisogno di cambiare. Perché la verità che cercano di affermare ha tante facce. (...) 

E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che noi ci concediamo una pausa, vogliono che diventiamo incoscienti, Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce.
(Virginia Woolf, Il mestiere delle parole - da Ore in Biblioteca e altri saggi)

Adesso, l’occasione di evadere senza chiudere gli occhi

Voglio imparare il ricordo
senza il rammarico
ammainando i lutti
ad uno ad uno
senza fretta.
E per il varo di una nuova esistenza
cercherò fondi di serenità
proprio qui
in questa stanza che non mi hanno insegnato

Ma se mi arrendo
posso ancora esaudire quella carezza
in cui ripara ogni struggimento
Carezza ancora sconosciuta
non ritrovata.

Eppure è questo, adesso, l’istante preciso
per separare i limiti dalle possibilità
ciò che sembrava da ciò che accadeva
il torto dall’espiazione
il nido di passero dal covo della tigre
la sabbia incerta dalle geometrie del deserto
Adesso, l’occasione di evadere
senza chiudere gli occhi
il dolore che estingue l’attimo breve
di giorni allenati senza convinzione

Se ci riesco, ora, in questa rara
penombra di consapevolezza
potrò andare fra il grano e la neve
con i soliti vestiti addosso
Ma le mie mani
tutte le mie mani
non esiteranno più
davanti ai disegni 
che questa stanza mi insegna.
(Aurora Semente - Dove tace il tempo)

È in quella stanza che si scrive, si pensa, si dipinge, si piange. Ci si stiracchia ben bene nel mattino fresco, lavando l'anima e asciugandola al vento che soffia dalle finestre. Si beve una tazza di tè, poi si riprende a lavorare. Lavorare su cosa? Sul giardino interiore.

permettere ai nostri poveri talenti, dispersi senza forma e riposo, di crescere, di maturare, e di trovare la loro forma in noi

Molte persone sono troppo ristrette, troppo chiuse nelle loro idee e così, educando i figli, li legano a loro volta.
Da noi era sempre il contrario.
Mi sembra che i miei genitori siano stati sempre più sopraffatti dall'infinita complicazione di questa vita, e che non siano mai stati in grado di fare una scelta.
Hanno lasciato troppa libertà di movimento ai loro figli, non potevano offrirci nessun punto d'appoggio, dato che non ne avevano mai trovato uno per sé; e non potevano contribuire alla nostra formazione perché non si erano mai trovati una forma.
Capisco sempre meglio il nostro compito: è quello di permettere ai nostri poveri talenti, dispersi senza forma e riposo, di crescere, di maturare, e di trovare la loro forma in noi.
Per reazione alla loro mancanza di forma, assenza di vera generosità, disordine e insicurezza - cattiva amministrazione, per così dire, e forse talvolta, anche se non ultimamente, aspirazione spasmodica verso unità, inquadramento, sistema.
Ma l'unica vera unità è quella che contiene tutte le contraddizioni e i momenti irrazionali: altrimenti finisce per essere di nuovo un legame spasmodico che fa violenza alla vita.
(Etty Hillesum, Diari, Adelphi) 
In una pagina, una sola pagina, ci regala una lezione di umanità di cui dovremmo fare tesoro, come figli. 
Chi di noi è diventato genitore a sua volta, non può fare a meno di notare l'assunto tremendo, consapevole ma mai affetto da livore, da cui parte Etty: inutile pretendere "una forma" da chi non ce l'ha.
E tuttavia non è educando successivamente i propri figli secondo schemi troppo rigidi, risultato di un'azione reattiva, contrapposta all'anarchia priva di forma, che si scansa il fardello dell'assenza.
Solo nella compassione, nella carità, si trova un approdo che è anche una nuova partenza.
Perché "ogni legame spasmodico è una violenza alla vita". A questa violenza, purtroppo, ci siamo abituati. Tutti.http://mulinodiamleto.splinder.com/home?from=334

giovedì 1 luglio 2010

Un gesto difficile eppure necessario.

Vorremmo essere rovinati piuttosto che cambiare;
vorremmo piuttosto morire nel nostro terrore
che scalare l’avversità dell’attimo
e lasciare che la nostra illusione muoia

(W.H. Auden) 


“Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me. Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi. Esitavo ancora troppo davanti a questo gesto che è così intimo come i gesti d’amore.

Così scriveva Etty Hillesum nel suo diario. Etty è morta ad Auschwitz nel 1943, giovanissima.
Il suoi appunti sono bellissimi, frastornanti, colmi di amore per la vita malgrado tutto, malgrado ogni frattura e ostacolo e distanza.
La spiritualità di Etty non è mai circoscritta a un Dio, ma a Dio. Inteso come quella scintilla vibrante che le dà forza e coraggio.
È così sentita, in lei, la spiritualità, che riesce ad andare oltre interpretazioni bigotte o letterali dei termini, delle frasi, dei costumi.
Mettersi in ginocchio non è masochismo, Etty ce lo dice.
Significa piuttosto rifugiarsi “in un gesto così intimo come i gesti d’amore”.
Dovrebbe farci riflettere, in un’epoca di “teste alte”, di sfide titaniche e onnipotenti., di iniezioni di quotidiane arroganze. 
Se il roseau pensant, la “canna pensante”, è per Pascal una metafora dell’uomo che si piega ma non si spezza, per Etty l’inginocchiarsi, il piegarsi appunto, diventa vicinanza con la terra,con  l’humus, con l’umiltà di cui si ha bisogno per crescere.
Un gesto difficile, come scrive anche lei, eppure necessario.
Purtroppo alcune visioni limitanti propongono nell’inginocchiarsi una diminuzione dell’essere, un esercizio masochista e autofustigante nei confronti di un Dio punitivo, esigente.
Quelli come Etty sono invece riusciti a spingersi oltre dottrine e parole per captare l’essenza di un gesto, e il suo significato più vero.
Quante volte riusciamo davvero a inginocchiarci, noi? http://mulinodiamleto.splinder.com/home?from=374

Scrivere il curriculum

Cosa è necessario?
É necessario
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto,
il curriculum dovrebbe essere breve.
È d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta solo quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenza a un che, ma senza perché.
Onoreficenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui  per il quale ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio scoperto.
É la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il rumore delle macchine che tritano la carta.


Szymborska, Gente sul ponte

che ti resta è quella che hai in testa


Come è strano essere lontani da "casa"
quando la distanza è un intero continente
e non sai neanche più dove sia la tua casa
e la "casa" che ti resta è quella che hai in testa.
 
J. Kerouac

"se hai ragione non hai bisogno di gridare"( proverbio zen)

Questa mattina sto pensando ai miei fatti come a disastri. Per questo ancoro pensieri di altri, come salvatesta... è vero ciò che dice Hesse a forza di voler essere saggi e chiedere saggezza sei a un passo della follia
Hesse
La saggezza non può essere trasmessa.
La saggezza che un saggio tenta di trasmettere
suona sempre simile alla follia.

Il saggio alla fine diviene folle e quindi rimane solo ed è isolato, costretto in una prigione, dobbiamo resistere così ci  inaspriranno le pene e per noi sarà una salvezza per continuare a lottare.
Schopenhauer
Alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli.
Kraus
Il mondo è una prigione dove è preferibile stare in una cella di isolamento.
Come è stato facile cancellarmi, ma per quanti sforzi facciano non potrò diventare nulla perchè loro pensavano di cancellare qualcosa.
Gracian
É assai facile farsi cattiva fama, perchè il male è sempre credibile e si fatica molto a cancellarlo.
Dostoevskij
Un uomo intelligente non può in verità diventar nulla
e solo gli sciocchi diventano qualcosa.
Però da adesso non vorrò essere facilmente, falsamente buono perchè non voglio essere pigro
Faulkner
Essere buono è la cosa più facile di questo mondo per un uomo pigro.
Perciò non voglio distogliere l'attenzione, vorrò tenere sempre viva la spina che si è conficcata nella mia carne, perchè non provocata nè esagerata.
Freud
Così come si provocano o si esagerano i dolori dando loro importanza, nello stesso modo questi scompaiono quando se ne distoglie l'attenzione
 

mercoledì 30 giugno 2010

Guardare la vita in faccia



"Caro Leonard, guardare la vita in faccia. Sempre. Guardare la vita. In faccia. Guardare la vita in faccia, e conoscerla per quella che è. Alla fine, conoscerla, amarla, per quello che è, e poi, metterla da parte. Per sempre, Leonard, gli anni che abbiamo trascorso, per sempre, gli anni, per sempre, l'amore, per sempre, le ore."

Virginia Woolf

I risparmi di tempo somigliano alla semplicità

RIDUCI
Il modo più semplice per conseguire la semplicità è attraverso una riduzione ragionata.
ORGANIZZA
L'organizzazione fa sì che un sistema composto da molti elementi appaia costituito da pochi.

TEMPO
I risparmi di tempo somigliano alla semplicità.

IMPARA
La conoscenza rende tutto più semplice.

DIFFERENZE
La semplicità e la complessità sono necessarie l'una all'altra.

CONTESTO
Ciò che sta alla periferia della semplicità non è assolutamente periferico.

EMOZIONE
Meglio emozioni in più piuttosto che in meno.

FIDUCIA
Noi crediamo nella semplicità.

FALLIMENTO
Ci sono cose che non è possibile semplificare.

L'UNICA
Semplicità significa sottrarre l'ovvio e aggiungere il significativo.

Le leggi della semplicità di John Maeda

PER DARE AL DOLORE LE PAROLE CHE ESIGE

  • Guidami, dolce Luce, in mezzo alle tenebre: guidami innanzi.
  • La notte è cupa e io sono lontano da casa.
  • Ti invoco, guidami!
  • Veglia sul mio cammino.
  • Non ti chiedo di vedere l'orizzonte lontano, un solo passo mi basta.
  • Non fui sempre così, nè sempre pregavo che tu mi guidassi. Amavo scegliere io stesso la via da percorrere.
  • Ma ora Ti invoco, guidami Tu!
  • Amavo il sole splendente e mi guidava l'orgoglio.
  • Non ricordare i giorni passati!
  • Sono certo, Amore, che mi guiderai per lande e paludi, rocce e torrenti, fino a quando il giorno riapparirà.
  • Al mattino si affacceranno i volti degli angeli a lungo amati, ma che più non vedo.     (John Newman)
    • Signore, non ti chiedo di cancellare tutto e subito il dolore che è nell'impasto stesso della mia vita, della mia fragilità, nel mio limite di creatura umana;
    • Imploro la Tua mano, pronta ad intrecciarsi con la mia perché mi strappi dalle paludi dell'infelicità e mi impedisca di sfracellarmi contro le rocce della disperazione.
    • Se tu mi sei accanto, anche quando sono immerso nel buio più profondo, sono certo di non essere abbandonato.
    • Io so, Signore, che Tu sei vicino a me anche se stai in silenzio.
    • Io so, Signore, che lentamente mi condurrai verso l'alba
       
      "Pregate sempre: chiedete a Dio il suo aiuto in ogni occasione e in tutti i modi, guidati dallo Spirito Santo.
      Perciò state svegli e non stancatevi mai di pregare per tutto il popolo di Dio e anche per me.
       Pregate perché Dio mi faccia trovare parole decise con cui far conoscere la verità del suo messaggio.
      Benché sia in prigione, io sono ambasciatore del Vangelo.
      Pregate perché io possa parlare coraggiosamente, come è mio dovere "  (Efesini 6,18-20)
      "Lo Spirito Santo viene in aiuto della nostra debolezza, perché noi no sappiamo neppure come dobbiamo pregare, mentre lo Spirito stesso prega per noi con sospiri che non si possono spiegare a parole.
      E Dio che conosce i nostri cuori, conosce anche le intenzioni dello Spirito che prega per i credenti come Dio vuole" (Romani 8, 26-27)
       

martedì 29 giugno 2010

tentiamo di scrutare chi Tu sei per noi

Noi ti adoriamo, o santo Spirito di Dio,
mentre con il meglio delle nostre forze tentiamo di scrutare chi Tu sei per noi.
Ti chiamiamo con nomi umani, con umane parole, per non dover tacere.
Ti apriamo il nostro cuore per accoglierti e per capire come,
profondamente, anche non visto, ovunque sei presente.
Sei l'aria che respiriamo, 

la lontananza che scrutiamo, 
lo spazio che ci è toccato in sorte.
Tu sei la dolce luce che ci rende attraenti gli uni agli altri.
Tu sei il dito di Dio con il quale Egli ha ordinato l'universo.
Sei l'amore squisito con il quale Dio tutti ci ha creati.
A tutto ciò che vive Tu dai forza, Tu agisci in modo strano e inafferrabile,
nascosto nel profondo di ciascuno come un fermento, come un seme di fuoco.
Tu sei la nostra volontà di vita, 

l'amore che ci attacca a questa terra e che ci lega al nostro Dio.
Tu ci sproni ad andare fino in fondo disposti a sopportare qualunque cosa,
sperando sempre come l'amore spera.
Noi ti preghiamo, Spirito di Dio che tutto crei, da' compimento all'opera iniziata;
previeni il male che possiamo fare, 

muovici al bene,
fa' che siamo fedeli e pazienti,
accendi nel nostro cuore l'amicizia per tutto ciò che vive e dacci gioia per ciò che è umano e buono.
Sei l'anima delle nostre preghiere,

che cosa non potremmo aspettarci da te?
Saggezza per capirci gli uni gli altri, abilità nel dare aiuto, ovunque e sempre.
Sei il Dono fattoci da Dio Padre: 

sii dunque il Presente qui in mezzo a noi.
Amen.

H.Oosterhuis

lunedì 28 giugno 2010

Perchè tu sei la mia rotta


Riempiti di me.
Desiderami, prosciugami, versami, immolami.
Chiedimi. Raccoglimi, contienimi, nascondimi.
Voglio essere di qualcuno, voglio essere tuo, è la tua ora.
Sono colui che è passato con un salto sulle cose,
il fuggitivo, il sofferente.
Ma sento che è la tua ora,
l’ora che la mia vita cada a gocce sulla tua anima,
l’ora delle tenerezze che non ho mai dispensato,
l’ora dei silenzi che non hanno parole,
la tua ora, alba di sangue che mi nutrì di angosce,
la tua ora, mezzanotte che mi passò solitaria.
Liberami da me. Voglio uscire dalla mia anima.
Io sono questo essere che geme, che brucia, che soffre.
Io sono questo essere che attacca, che urla, che canta.
No, non voglio essere così.
Aiutami a rompere queste porte immense.
Con le tue spalle di seta dissotterra queste ancore.
Così una sera crocifiggerò il mio dolore.
Voglio non aver limiti e levarmi verso quell’astro.
Il mio cuore non deve tacere oggi o domani.
Deve partecipare di quello che tocca,
deve essere di metalli, di radici, di ali.
Non posso essere la pietra che si alza e che non torna,
non posso essere l’ombra che si disfa e passa.
No, non può essere, non può essere, non può essere.
Allora griderei, piangerei, gemerei.
Non può essere, non può essere.
Chi voleva rompere questa vibrazione delle mie ali?
Chi mi voleva sterminare? Che disegno, che parola?
Non può essere, non può essere.
Liberami da me, voglio uscire dalla mia anima.
Perchè tu sei la mia rotta. Ti forgiai nella lotta viva.
Dalla mia lotta oscura contro me stesso, nascesti.
Da me hai preso questo marchio di avidità non saziata.
Da quando li guardo i tuoi occhi sono più tristi.
Andiamocene insieme. Apriamo questa strada insieme.
Sarò la tua rotta. Passa. Lasciami andare.
Desiderami, prosciugami, versami, immolami.
Fa’ vacillare gli assedi dei miei ultimi limiti.
E che io possa, al fine, correre in folle fuga,
inondando le terre come un fiume terribile,
sciogliendo questi nodi, ah Dio mio, questi nodi,
distruggendo,
bruciando,
abbattendo
come una lava folle quello che esiste,
correre fuori di me, furiosamente libero.
Andarmene,
Dio mio,
andarmene.
[Pablo Neruda]

domenica 27 giugno 2010

C'è ancora qualcosa in cui credere

Il Card. Martini nella prefazione di un suo libro scrive di essersi spesso dovuto confrontare con questa e simili domande che, del resto - lo ammette - gli nascevano dentro, provocate dalle esperienze, dalle letture e dagli studi, dalle sofferenze quotidiane della gente che incontrava o dalle catastrofi sociali o politiche.
"C'era un punto su cui convergevano tali esperienze e le sensazioni da esse suscitate: l'ANGOSCIA. Questo termine esprime un'esperienza così comune che basta evocarla per accorgersi che tanta gente si mette istintivamente in ascolto.

E' l'ANSIA che dasce dalla sicurezza rovesciata sulle cose che sembravano più solide e della fatica a trovare nel proprio bagaglio di nozioni delle risposte rassicuranti.

E' la PAURA di dover affrontare un futuro incerto rimanendo privi di quel poco di terreno solido che si era pensato di aver conquistato con la riflessione personale o con l'adesione semplice e fiduciosa a una tradizione religiosa ricevuta da persone che ci sembravano degne di fede.

E' la SOLITUDINE che sperimentiamo quando, di fronte ai problemi più grandi di noi, ci pare di non sapere più a chi affidarci.

Per questo ho sentito anch'io sovente in questi anni il bisogno di rifarmi a quelle realtà semplici e chiare su cui è possibile costruire, senza mentire a se stessi e senza disonestà intellettuali, un'esistenza capace di resistere alle tentazioni di ANGOSCIA che regolarmente ci assalgono.

"...La fede è un affidarsi a Dio che vince l'ANGOSCIA: non è un bagaglio di nozioni che esige un faticoso indottrinamento, è il bene più grande e liberante dell'uomo".

"Queste pagine ["C'è ancora qualcosa in cui credere" - PIEMME] sono dunque una conversazone amichevole nella quale, a partire dai miei personali e non sempre facili cammini di ricerca, desidero entrare in comunione con altri che stanno facendi gli stessi cammini.

Ci troviamo uniti nella fiducia o almeno nel presentimento che ci deve pur essere qualcosa "a cui possiamo ancora credere" e che ogni ANGOSCIA UMANA può essere vinta quando risuona la parola di Gesù a Maria Maddalena:

*
"Donna, perché piangi" (Gv 20,13

o quella agli apostoli nella tempesta sul lago:

* "Coraggio, sono io, non abbiate paura" (Mt 14,27".

La nostra fede non consiste soltanto nel credere in Dio
 ma anche nel credere 
che Dio crede in noi.

la mia preghiera meriti di essere esaudita

Aperi, Domine, + os meum ad benedicendum nomen sanctum tuum; munda quoque cor meum, ab omnibus vanis, perversis, et alienis cogitationibus: intellectum illumina, affectum inflamma
ut digne, attente ac devote hoc VERBUM annuntiare valeam, et exaudiri merear ante conspectum divinae Majestatis tuae. Per Christum Dominum nostrum. Amen.


Apri, Signore, + la mia bocca a benedire il tuo santo nome; purifica il mio cuore da ogni pensiero vano, perverso o estraneo: illumina il mio intelletto, infiammami d'amore per te, affinché possa annunciare la tua PAROLA in modo degno, attento e devoto, e la mia preghiera meriti di essere esaudita al cospetto della tua Maestà divina. Per Cristo nostro Signore. Amen.

hai messo i fiori alla finestra della tua cella e pensi che la prigione che ti contiene sia l'unico mondo possibile

Voglio smettere di mettere fiori alla finestra della mia prigione per accorgermi finalmente della porta aperta...

Gesù non ci dice queste cose per scoraggiarci, tutt'altro.

Gesù non è un rabbì bramoso di discepoli, né abbassa il tiro per raccogliere la folla, né cede a compromessi per suscitare consensi: diversamente dai guru di ieri e di oggi non desidera essere famoso, né di avere folle plaudenti. Egli vuole solo annunciare il Regno, mostrare lo splendido e inatteso volto del Padre.
Contrariamente a quanto avveniva con i rabbini del suo tempo, Gesù non si fa scegliere, ma sceglie i discepoli e pone loro condizioni tutt'altro che scontate…

Un Maestro risoluto
Le condizioni per diventare discepoli di Gesù sono motivate dal livello della sfida: egli vuole discepoli disposti a mettersi in gioco totalmente, non soltanto nel momento mistico della vita.

L'avere ricevuto enormi grazie non ci mette al riparo da clamorosi errori, tanto peggiori quanto motivati da presunte rivelazioni interiori.
Il discepolo è un amante della pace, un pacifista pacificato, uno che sa che la scelta del Vangelo è - appunto - una scelta, uno che sa valutare il fallimento del proprio annuncio nella paziente logica del Vangelo.

Il discepolo che segue Gesù, sempre proteso al futuro, non resta inchiodato al proprio passato, non resta tassellato alle proprie abitudini, non si nasconde dietro il "si è sempre fatto così", guarda avanti, punta la fine del campo, è più attento a tenere in profondità l'aratro, che a verificare ciò che ha fatto, voltandosi indietro. Troppe volte le nostre comunità sono più preoccupate a conservare, che a far vivere il Vangelo. Troppe volte la logica soggiacente alle nostre scelte di Chiesa è quella della tutela di un privilegio, del mantenimento disperato di uno status quo che, però ci allontana dal Maestro.
E mi interrogo, mi chiedo se - sul serio, per davvero - io voglio vivere con questo Maestro.
Ma Gesù non ci dice queste cose per scoraggiarci, tutt'altro.
Vuole verità, autenticità, persone disposte a mettersi a nudo di fronte all'assoluto di Dio.
 

La cosa da fare prima, in­dica la priorità del cuore...Non ce l'han­no fatta i Dodici, come posso pensare di farcela io?

' troppo bello, inetenso, poetico, vitale questo commento per non riportarlo tutto. Tutte le frasi potevano divenirne il titolo. 
http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=18792
Amare Gesù in nuda povertà
padre Ermes Ronchi
XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (27/06/2010)
Vangelo: Lc 9,51-62   Clicca per vedere le Letture (Vangelo: Lc 9,51-62)
Tre brevi dialoghi su come seguire Gesù. 
Il pri­mo personaggio che entra in scena è un ge­neroso e dice: Ti seguirò, dovunque tu vada!
Gesù deve avere gioito per lo slancio, deve aver ap­prezzato l'entusiasmo giovane di quest'uomo. Ep­pure risponde: Pensaci. Neanche un nido, neanche una tana, solo strada, ancora strada. Non un posto dove posare il capo, se non in Dio, quotidianamen­te dipendente dal cielo.
Così è Gesù: nudo amore che deve essere amato in nuda povertà. Eppure seguirlo è scoprire una ric­chezza che mai avrei immaginato; è diventare ric­chi, non di cose, di luoghi o nidi, ma di incontri, di opportunità, di luce. Gesù non ha una casa, ma ne trova cento sul suo cammino, colme di volti amici. Le parole di Gesù sono sempre, anche quelle dure, una risposta al nostro bisogno di felicità.
Il secondo riceve un invito diretto: Seguimi! E que­sti risponde: sì. Solo permettimi di andare prima a seppellire mio padre. La richiesta più legittima che si possa pensare, dovere di figlio, compito di uma­nità. Gesù replica con parole tra le più dure del van­gelo:
Lascia che i morti seppelliscano i morti!
Parole che dicono: è possibile essere dei morti den­tro, vivere una vita spenta, una religiosità oscura, te­nebrosa, intrisa di paure. Parole dure che sottin­tendono però: segui me, io ti darò il segreto della vi­ta autentica! Il Vangelo è sempre un inno alla vita, scoperta di bellezza, incremento di umanità.
Infine il terzo dialogo: Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che mi congedi da quelli di casa. Una richie­sta delicata e naturale. È così duro il cammino sen­za amici e senza affetti! Tutto si gioca attorno a una parola-simbolo: «prima». La cosa da fare prima, in­dica la priorità del cuore, quello che sta in cima ai tuoi pensieri, il tuo Dio o il tuo idolo. La risposta di Gesù: Non voltarti indietro, non guardare a ciò che ti mancherà, ma a ciò che ti viene donato. Non guar­dare alle difficoltà, ma all'orizzonte che si apre. Non alla nostalgia, ma alla strada e ai grandi campi del mondo. La fede spalanca orizzonti più grandi.
Chi si volta indietro non è adatto al Regno. Ma allo­ra chi è adatto? Chi non si è mai voltato indietro? Non Pietro, non Giacomo e gli altri. Non ce l'han­no fatta i Dodici, come posso pensare di farcela io? Ma Gesù non cerca eroi incrollabili per il suo regno, ma uomini e donne autentici che sappiano sce­glierlo ogni giorno di nuovo, che sappiano rispon­dere «sì», ogni volta, come Pietro, all'unica doman­da: mi vuoi bene?

La cosa da fare prima

Amare Gesù in nuda povertà
padre Ermes Ronchi
XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (27/06/2010)
Vangelo: Lc 9,51-62   Clicca per vedere le Letture (Vangelo: Lc 9,51-62)
Tre brevi dialoghi su come seguire Gesù. Il pri­mo personaggio che entra in scena è un ge­neroso e dice: Ti seguirò, dovunque tu vada!
Gesù deve avere gioito per lo slancio, deve aver ap­prezzato l'entusiasmo giovane di quest'uomo. Ep­pure risponde: Pensaci. Neanche un nido, neanche una tana, solo strada, ancora strada. Non un posto dove posare il capo, se non in Dio, quotidianamen­te dipendente dal cielo.
Così è Gesù: nudo amore che deve essere amato in nuda povertà. Eppure seguirlo è scoprire una ric­chezza che mai avrei immaginato; è diventare ric­chi, non di cose, di luoghi o nidi, ma di incontri, di opportunità, di luce. Gesù non ha una casa, ma ne trova cento sul suo cammino, colme di volti amici. Le parole di Gesù sono sempre, anche quelle dure, una risposta al nostro bisogno di felicità.
Il secondo riceve un invito diretto: Seguimi! E que­sti risponde: sì. Solo permettimi di andare prima a seppellire mio padre. La richiesta più legittima che si possa pensare, dovere di figlio, compito di uma­nità. Gesù replica con parole tra le più dure del van­gelo:
Lascia che i morti seppelliscano i morti!
Parole che dicono: è possibile essere dei morti den­tro, vivere una vita spenta, una religiosità oscura, te­nebrosa, intrisa di paure. Parole dure che sottin­tendono però: segui me, io ti darò il segreto della vi­ta autentica! Il Vangelo è sempre un inno alla vita, scoperta di bellezza, incremento di umanità.
Infine il terzo dialogo: Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che mi congedi da quelli di casa. Una richie­sta delicata e naturale. È così duro il cammino sen­za amici e senza affetti! Tutto si gioca attorno a una parola-simbolo: «prima». La cosa da fare prima, in­dica la priorità del cuore, quello che sta in cima ai tuoi pensieri, il tuo Dio o il tuo idolo. La risposta di Gesù: Non voltarti indietro, non guardare a ciò che ti mancherà, ma a ciò che ti viene donato. Non guar­dare alle difficoltà, ma all'orizzonte che si apre. Non alla nostalgia, ma alla strada e ai grandi campi del mondo. La fede spalanca orizzonti più grandi.
Chi si volta indietro non è adatto al Regno. Ma allo­ra chi è adatto? Chi non si è mai voltato indietro? Non Pietro, non Giacomo e gli altri. Non ce l'han­no fatta i Dodici, come posso pensare di farcela io? Ma Gesù non cerca eroi incrollabili per il suo regno, ma uomini e donne autentici che sappiano sce­glierlo ogni giorno di nuovo, che sappiano rispon­dere «sì», ogni volta, come Pietro, all'unica doman­da: mi vuoi bene?

prendimi per mano mio Dio

 
"Dio mio, Dio mio,
perchè mi hai
abbandonato?
Tu sei lontano
dalla mia salvezza":
sono le parole del
mio lamento.
Dio mio, invoco di
giorno e non rispondi,
grido di notte e
non trovo riposo.
Io sono verme,
non uomo,
infamia degli uomini,
rifiuto del mio popolo.
Da me non stare
lontano,
poichè l'angoscia
è vicina e nessuno
mi aiuta.