sabato 15 giugno 2013

perché se Dio si occupa dei gigli del campo e degli uccelli del cielo, a maggior ragione penserà a noi

Con la stessa spontaneità di Nicodemo a proposito della nuova nascita, 
ci domandiamo come sia possibile ritornare nel seno della propria madre. 
E una quantità di obiezioni, di sospetti ci assalgono in nome di quella fiducia
 che si ha in se stessi e che ogni uomo rivendica come essenziale alla propria personalità. 
Non è questo un atteggiamento da deboli, 
un complesso di inferiorità, 
un invito ad una spontaneità facile 
ma un po’ stupida che dispensa dall’interrogarsi, dal riflettere 
e che svuota l’individuo di ogni responsabilità? 
Tutto questo è fuori luogo. 
Ciò che Gesú vuol farci comprendere è tutt’altra cosa. 
Ciò che Egli denuncia in noi non è la nostra personalità, 
è la nostra sufficienza, 
la nostra tendenza a farci il centro del mondo, 
a vedere tutto, a giudicare tutto e spesso a condannare tutto attraverso i nostri punti di vista. 
No, non siamo il centro del mondo. 
Questo è già evidente sul piano ordinario della vita sociale, 
ma lo è ancora di più se vogliamo situarci in verità davanti a Dio. 
Ed è qui che Gesú ci insegna qualcosa di veramente nuovo, 
di fronte a questa situazione in cui noi potremmo sentirci superati, schiacciati, oppressi. 
Gesù ci insegna che non abbiamo nulla da temere, 
che al contrario dobbiamo riprendere fiducia, 
perché in realtà siamo Figli di un Padre che non ignora niente di noi e che ci ama, 
sul quale possiamo contare dovunque siamo e chiunque siamo. 
Gesù va così lontano che sembra dirci che non dobbiamo più preoccuparci di nulla, 
perché se Dio si occupa dei gigli del campo e degli uccelli del cielo, 
a maggior ragione penserà a noi. 
Quello che vuol dirci non è certamente di prendere le cose alla leggera e di lasciarci andare, 
ma neppure di lasciarci abbattere, 
come se Egli non esistesse, di dimenticare che Egli è nostro Padre 
e che conosce tutto ciò che ci fa soffrire 
e di cui abbiamo bisogno. 
È questa una realtà che ci dovrebbe rasserenare, 
aiutarci a guardare con più semplicità a noi stessi, 
ad amarci come Dio ci ama, 
a vivere nella pace, 
nella fiducia e nella gioia
perché siamo in buone mani. 
È questo che ci apre le porte del Regno dei Cieli; 
ed è questo pure che si trova in sostanza nella preghiera dei poveri, 
che non sono capaci di una preghiera geniale, 
ma che sanno di non essere più soli perché hanno un Padre. 
(René Voillaume, Lettera n. 27, Marzo 1978).

venerdì 14 giugno 2013

Custodisci in te la fede e l'umiltà e scoprirai in esse la compassione, il soccorso, le parole che Dio dirà al tuo cuore,

O minimo fra i mortali, vuoi trovare la vita?
Custodisci in te la fede e l'umiltà
e scoprirai in esse la compassione, il soccorso,
le parole che Dio dirà al tuo cuore,
anzi Lui stesso che ti protegge
e ti rimane accanto in maniera ora segreta ora visibile.

Vuoi non perdere ciò che appartiene alla vita eterna? 
Cammina per la strada della semplicità
e non pretendere di essere saggio davanti a Dio.
Mentre la fede segue la semplicità,
invece la speculazione sottile e tortuosa
segue la presunzione.
Essa allontana da Dio.
Quando vieni davanti a Dio per pregare,
diventa nel pensiero piccolo come la formica,
come un verme della terra,
come un bimbo che non sa parlare.
Non metterti a fare davanti a Dio sottili ragionamenti,
ma avvicinati a lui con cuore di fanciullo.
Presentati a lui per ricevere quella sollecitudine
che un padre prodiga al suo piccino,
perché sta scritto che il Signore protegge gli umili.

Mettiti a pregare senza indugi,
supplica con tutto il cuore,
chiedi con fervore,
finché tu non riceva.
E bada di non essere fiacco e trascurato.
Verrai esaudito se avrai fatto violenza a te stesso,
gettando in Dio con fiducia totale la tua preoccupazione
e sostituendo le tue misure prudenziali con la Provvidenza divina.
Quando Dio vedrà la tua buona volontà
e con quale purezza di cuore
ti fidi di Lui più che di te stesso,
costringendoti a sperare in Lui più che nelle tue forze,
allora una potenza che ignori scenderà a dimorare in te;
e tu sentirai in tutte le fibre dell'essere
la potenza di Colui che indubitabilmente è lì con te.
(Isacco di Ninive, Discorso 19).

giovedì 13 giugno 2013

Non essere negligente nell’apprendere il timore del Signore

Ti prego ancora di non dar riposo al tuo cuore!
Questa è la gioia dei demoni:
far sì che l’uomo conceda riposo al suo cuore
e trascinarlo nella rete prima che se ne accorga.
Non essere negligente nell’apprendere il timore del Signore,
cresci come le giovani piante e sarai gradito a Dio
come un giovane bufalo che leva in alto corna e zoccoli.
Sii un uomo potente in opere e parole,
non pregare come gli ipocriti perché la tua sorte non sia come la loro.
Non dissipare neppure un giorno della tua esistenza,
sappi che cosa dai a Dio ogni giorno.
Dimora solo, come un generale avveduto.
Discerni il tuo pensiero sia che tu viva in solitudine,
sia in mezzo agli altri. Ogni giorno, insomma, giudica te stesso.
È meglio infatti vivere in mezzo a migliaia di uomini in tutta umiltà,
piuttosto che vivere solo, nella tana di una iena, nell’orgoglio.
Di Lot che viveva in mezzo a Sodoma è attestato che era un uomo di fede, buono.
Abbiamo udito invece riguardo a Caino,
con il quale non vi erano sulla terra se non tre esseri umani,
che fu malvagio.
(Pacomio, Catechesi)

mercoledì 12 giugno 2013

frequentemente sfocia in così disumane crudeltà, che raramente si riscontrano tra pagani


Un buon sussidio per una corretta attitudine al dialogo. Che, certo, a prima vista è difficile, ma alla fine ne sarà valsa la pena.

Avrai certo ascoltato migliaia di storie su noi che siamo comunemente detti protestanti,
delle quali se tu ne credessi anche solo una su mille,
saresti portato a giudicarci molto severamente.
Ma questo è del tutto contrario a quanto ci ha prescritto il Signore:
“Non giudicare, per non essere giudicato”;
e ha inoltre molte dannose conseguenze,
soprattutto questa:
induce noi a giudicarvi altrettanto severamente.
Questo fa sì che noi siamo, da entrambi i lati,
meno desiderosi di aiutarci reciprocamente,
e più pronti, invece, a farci del male.
In tal modo, l’amore fraterno viene radicalmente distrutto;
e ognuna delle due parti,
guardando all’altra come ad un mostro,
offre spazio alla rabbia, all’odio, alla malizia, ad ogni tendenza cattiva,
che frequentemente sfocia in così disumane crudeltà,
che raramente si riscontrano tra pagani.
Ora, non si può proprio fare nulla,
sia pure permettendo ad entrambe le parti
di conservare le rispettive opinioni,
per attenuare i nostri reciproci sentimenti,
per porre un freno a questo flusso di cattiveria,
e ripristinare almeno un po’ di amore con i nostri vicini e compatrioti?
Non lo desideri anche tu?
Non sei assolutamente convinto
che la malizia, l’odio, la vendetta, il rancore,
sia in noi che in voi, nei nostri cuori o nei vostri,
sono detestabili agli occhi di Dio?
Sia che le nostre opinioni siano giuste,
sia che siano errate,
queste attitudini sono certamente sbagliate.
Sono la strada spaziosa che porta alla distruzione,
al più profondo inferno.
(John Wesley’s Letters, To a Roman Catholic, Dublin July 18, 1749).

martedì 11 giugno 2013

non venir meno alla religione dell’amore, affinché non sia condannato proprio in ciò che ritiene giusto

 L’ecumenismo, prima ancora che nei dibattiti teologici, si gioca sui comportamenti pratici. Come il rispetto, l’amicizia, la tenerezza.

Nel nome e con l’aiuto di Dio,
risolviamo in primo luogo,
di non offenderci reciprocamente;
di non fare nulla di scortese o di poco amichevole l’uno nei confronti dell’altro,
nulla di ciò che noi vorremmo fosse fatto a noi stessi.
Procuriamo piuttosto in ogni caso di adottare vicendevolmente un atteggiamento
gentile, amichevole e cristiano.
In secondo luogo, con l’aiuto di Dio,
decidiamo di non dirci mai nulla di duro o di sgarbato.
La strada sicura per evitare ciò è
di dire entrambi l’uno all’altro, tutto il bene che possiamo;
in tutte le nostre conversazioni,
sia con l’altro o riguardo all’altro,
usare soltanto il linguaggio dell’amore,
per parlare con tutta la dolcezza e la tenerezza,
con le espressioni più affettuose,
in accordo con la verità e la sincerità.
In terzo luogo,
decidiamo di non dare spazio ad alcun pensiero scortese o a disposizioni poco amichevoli.
Depositiamo l’ascia alle radici dell’albero;
esaminiamo tutto ciò che ci sorge in cuore
e non tolleriamo nessuna disposizione contraria al tenero affetto.
Allora ci asterremo facilmente da parole e azioni scortesi,
dato che la radice stessa dell’acredine sarà stata eliminata.
In quarto luogo, cerchiamo di aiutarci vicendevolmente in tutto ciò
che entrambi riteniamo ci conduca al Regno.
Nella misura del possibile,
rallegriamoci sempre di contribuire
a rafforzarci l’un l’altro in Dio.
Soprattutto ciascuno abbia cura
(dato che ognuno dovrà rendere conto di sé a Dio)
di non venir meno alla religione dell’amore,
affinché non sia condannato proprio in ciò che ritiene giusto.
Oh, lasciate che voi ed io (qualunque cosa gli altri facciano),
proseguiamo fino al premio della nostra alta vocazione!
Che, essendo giustificati dalla fede,
possiamo avere pace con Dio attraverso il nostro Signore Gesù Cristo;
che possiamo rallegrarci in Dio attraverso Gesù Cristo,
da cui abbiamo ricevuto la redenzione;
che l’amore di Dio possa essere versato nei nostri cuori
dallo Spirito Santo che ci è stato dato.
Consideriamo tutte le cose solo una perdita
di fronte alla sublime conoscenza di Gesù Cristo nostro Signore;
stando pronti per causa sua a perderle tutte,
e considerandole niente più che letame,
che noi possiamo agevolmente vincere in Cristo.
(John Wesley’s Letters, To a Roman Catholic, Dublin July 18, 1749).

lunedì 10 giugno 2013

Noi sappiamo che Dio sta per edificare una Chiesa in cui ogni sfaccettatura della diversità umana ha la sua importanza.

Nel racconto della prima Pentecoste,
si legge che se molte persone compresero il Vangelo
nella loro lingua materna e ne gioirono,
altre furono invece incapaci di cogliere il messaggio
quale ne fosse la lingua.
Per quanti restavano chiusi allo Spirito Santo,
il magnifico arazzo di lingue,
tessuto per costituire la Chiesa cristiana a Pentecoste,
fu trattato con disprezzo e considerato
come il prodotto cacofonico di alcuni ubriaconi.
Molti, ancora oggi, pensano che sia insensato
cercare di incorporare la diversità
come ha sempre fatto la tradizione riformata
nei suoi momenti migliori. [...]
Siamo forse impazziti?
Abbiamo bevuto anche noi il vino nuovo del relativismo culturale?
No.
Noi abbiamo colto una visione del regno di Dio.
Siamo stati toccati dallo Spirito Santo.
Abbiamo avuto visioni, abbiamo avuto sogni.
Noi sappiamo che
Dio
sta per edificare una Chiesa
in cui ogni sfaccettatura della diversità umana
ha la sua importanza.
Dio
ha scelto ciascuno di noi per lasciare un segno
nel piano della sua Chiesa.
A Pentecoste,
noi siamo liberati dalle costrizioni del linguaggio,
così come siamo liberati dal peccato
ad opera della grazia di Dio.
Siamo liberati per poter servire Dio come figli,
non come servi,
siamo liberati dal giogo della confusione linguistica
per accedere alla bellezza della diversità umana
manifestata nella Chiesa.
Sappiamo, allora, utilizzare questa libertà
che è un dono di Dio!
Rallegriamoci della magnifica diversità dei figli di Dio nella Chiesa!
Sappiamo apprezzare nell’uguaglianza
ogni membro della Chiesa,
sapendo bene che
tutte le voci –
comprese quelle che sono abitualmente emarginate –
tutte le lingue,
sono amate da Dio.
Questo è stato il lavoro dello Spirito Santo nella Chiesa
dopo la Pentecoste,
e questo sarà il compito della Chiesa
fino a che l’opera di Dio sia compiuta,
finché noi prenderemo parte
tutti e tutte
nell’immenso corale a molteplici lingue
e ci abbandoneremo,
tutti insieme,
all’eterno canto di lode.
(Pasteur Ben Daniel, Liberté et beauté de la diversité).

domenica 9 giugno 2013

Come è vero che “si è ricchi solo di ciò che si dona”

Perché si dona?
La risposta è semplice:
per collegarsi alla vita,
per rompere la solitudine,
far parte della catena, trasmettere, sentire che non si è soli,
che si fa parte di qualcosa di più vasto e segnatamente dell’umanità.
È così ogni volta che si fa un dono
a uno sconosciuto, a uno straniero, a Dio stesso.
Non era questo il sentimento vissuto in occasione delle feste di pellegrinaggio,
e particolarmente a Shavuot,
quando gli abitanti d’Israele si ritrovavano tutti insieme a Gerusalemme,
per donare le loro offerte in uno spirito di eccezionale convivialità e di umanità condivisa?
Questo dono delle primizie a Dio,
o questo dono della tzedaka a uno sconosciuto,
che forse non lo si vedrà neppure più,
non avrebbe fondamentalmente per oggetto di fare sentire questa comunicazione,
di rompere l’isolamento,
da cui questo sentimento di trasformazione, di apertura, di vitalità
che invade coloro che donano?
Non affermano forse che nel fatto stesso di donare,
essi ricevono assai più di quanto donano?
Come è vero che “si è ricchi solo di ciò che si dona”!
In questo senso, il desiderio di donare e di ricevere poggia sul bisogno di amare e di essere amati,
che è assai più forte e più fondamentale del bisogno di acquisire e accumulare dei beni.
Perché, non dimentichiamolo, l’essere umano è anzitutto, nel suo intimo più profondo, un essere di relazione.
(Gilles Bernheim, Le souci des autres au fondement de la loi juive)