sabato 1 ottobre 2011

tutto questo però va fatto con rispetto


La Stampa, 24 settembre 2011
Non si può parlare del pane senza fare riferimento al «da dove» esso è tratto, cioè dalla terra. Dalla terra, dalla adamà è tratto l’adam, l’umano, il terrestre (cf. Gen 2,7): noi siamo fatti di terra e alla terra torniamo (cf.Gen 3,19). La terra, nostra madre, chiede di essere custodita e lavorata, non lasciata vergine, perché in tal caso non potrebbe essere per noi madre; tutto questo però va fatto con rispetto, senza sfruttarla indebitamente né violentarla. Oggi il nostro rapporto con la terra si è fatto critico e tutti siamo consapevoli del rischio della catastrofe ecologica. In nome della crescita, del libero mercato, di un’insaziabile pretesa di arricchimento, di un consumo senza limiti, la terra madre è sempre più desolata e devastata. Come annunciava Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa, «il deserto avanza», continua ad avanzare anche tra di noi, nei nostri campi e tra le nostre colline che, dopo essere state offese dalla cementificazione, ora sono insidiate anche da distese di pannelli solari che, se collocati senza discernimento, scacciano le nostre colture, tolgono sovranità alimentare e spesso feriscono la bellezza del paesaggio, cioè della terra.

Agiamo nei confronti della terra come se ne fossimo i padroni assoluti, come se fossimo i soli ad aver diritti su di essa e nessun dovere nei suoi confronti; non ci rendiamo conto che la natura e l’ambiente non sono nostra proprietà né sono un luogo di risorse a nostra totale e arbitraria disposizione. La terra deve sì darci il pane, ma noi umani dobbiamo a nostra volta riconoscere che esistono diritti dell’ambiente, della natura, che le altre co-creature, gli altri co-inquilini della terra sono portatori di diritti come noi:natura, animali, piante, umani, siamo tutti co-inquilini e tutti soggetti di diritti che vanno tutelati e sinfonicamente affermati. Insomma, parafrasando il comandamento presente in Lv 19,18 e ripreso da Gesù (cf. Mc 12,31 e par.), mi verrebbe da dire che oggi si è fatto urgente il comandamento: «Ama la terra come ami te stesso», nel senso che amare se stessi e il prossimo richiede di amare questa terra sulla quale veniamo e in cui da inquilini viviamo per «settant’anni, ottanta se ci sono le forze» (Sal 90,10). Dunque per «trarre il pane dalla terra» (Sal 104,14) occorre assolutamente imboccare un’altra strada, vista la consapevolezza che oggi abbiamo della degradazione ecologica, dell’umiliazione della terra madre causata dall’abuso e dall’abbandono delle nostre campagne.
È in questa terra, terra madre più che mai, che le nostre granaglie sono seminate, entrando nel solco. Si tratta di sementi selezionate lungo le generazioni e i millenni, di granaglie che portano il segno di una sapienza acquisita, ricercata, sperimentata da umani diversi e in terre diverse: frumento, segale, farro, ecc. Ma anche a questo proposito si staglia all’orizzonte una pericolosa minaccia: su quest’opera anonima ma grandiosa dei contadini dell’umanità si pretendono oggi i diritti del brevetto, si pretende di privatizzare i semi che stanno alla base della catena alimentare; si vorrebbe delineare una storia futura in cui sementi, acqua e aria siano merci sottomesse alle logiche di mercato, non più patrimonio vitale per ogni persona e comunità della terra, ma proprietà in mano a multinazionali anonime, spietate nei confronti dei poveri della terra…
Una volta seminato, aiutato a crescere, maturato, ecco spuntare dalla terra il grano, che viene macinato e appare come farina, fior di frumento, midollo di frumento, grasso di frumento, tutte definizioni a esso collegate a partire dall’antichità. La farina, impastata con acqua, lasciata lievitare, passata nel fuoco appare infine come pane: una realtà precisa, effettiva, ma anche un simbolo, un linguaggio, cioè un sistema di segni concreti che permette di stabilire una sapienza pratica. La materialità dell’alimento sta in una rete di significati e di valori in cui si producono trasposizioni, metafore. Il pane è un alimento che ci nutre, che ci dà la vita, è un alimento solido che si impone innanzitutto ai nostri sensi. Basti pensare al profumo del pane appena sfornato che un tempo al mattino presto si sentiva nelle vie dei paesi, passando accanto al negozio del panettiere: il profumo precede il pane stesso, raggiunge le nostre narici, che lo riconoscono, e fin dal mattino trasmette loro un sentimento di vita. Ma anche la vista è coinvolta e noi vediamo il pane nelle sue diverse forme, create soprattutto in Italia: dalla grissia monferrina, alla biova emiliana, alla ciabatta, alla rosetta, alla scarpetta… Infinite forme dovute alla fantasia e alla tradizione locali, tutte capaci di far sì che il pane diventi una presenza, si imponga e chieda rispetto.
Nelle generazioni passate, le quali conoscevano la fame di pane e sovente non osavano sperare di mangiare se non pane, vi era addirittura una sorta di venerazione nei confronti di questo straordinario alimento. L’ho scritto e non posso non ricordarlo nuovamente: a casa mia verso le sette del mattino, prima che io andassi a scuola e mio padre a lavorare, mia madre tornava dal panettiere e deponeva sul tavolo della stanza di ingresso una grande forma di pane, la grissia. La collocava accanto a un fiasco di vino, a un orciolo di olio e a una saliera, il tutto ricoperto da una tovaglia da lei ricamata con la scritta «l’olio, il pane, il vino e il sale siano lezione e consolazione». Chi entrava in casa mia vedeva in questo tavolo posto al centro un invito a sedersi, a mangiare un boccone, a condividere il pane, a bere insieme un po’ di vino.
Tornando alla riflessione sui sensi, il pane al tatto appare duro o molle, fresco o vizzo. Il pane si spezza con un frantumarsi di briciole che dice la sua brevità e che, nel contempo, invita anche l’udito a discernerlo. Ma la massima epifania del pane ai nostri sensi si ha quando esso viene gustato, masticato, mangiato e così diventa noi stessi, perché noi assimiliamo ciò che mangiamo: «dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei» (1) . Il pane accompagna gli altri cibi – non a caso detti companatico – dall’inizio alla fine del pasto, è solitamente gradito a tutti, è un alimento quasi completo dal punto di vista dietetico.
Enzo Bianchi
(1) Alludo ovviamente alle celebre frase di Ludwig Feuerbach (1804-1872): «Man ist was man ißt», «Siamo ciò che mangiamo».

venerdì 30 settembre 2011


Angina Pectoris (1948) – Nazim Hikmet

Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.
E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.
E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.
E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.
E’ per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris.
Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri
che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.

giovedì 29 settembre 2011

Tu sei


Lode a Dio - Ignacio Larrañaga

Tu sei Santo, Signore Dio unico,
che fai meraviglie.

Tu sei forte, Tu sei grande,
Tu sei l’Altissimo.

Tu sei il Bene, tutto il Bene, il Sommo Bene,
Signore Dio, vivo e vero.

Tu sei carità e amore,
Tu sei sapienza.

Tu sei umiltà, Tu sei pazienza,
Tu sei sicurezza, Tu sei quiete,
Tu sei svago, Tu sei gioia,
Tu sei bellezza, Tu sei mansuetudine.

Tu sei il nostro protettore,
guardiano e difensore.

Tu sei nostra fortezza e speranza,
Tu sei nostra dolcezza.

Tu sei la nostra vita eterna,
grande e meravigliosa, Signore.

mercoledì 28 settembre 2011

Le anime deboli e schiave, che non hanno un contenuto di vita loro

Chi ha la sua vita propria, non può accogliere in sé la vita varia, la vita che lo circonda, se questa non trova risonanza in lui, se egli non la sente come la sua stessa vita... Le anime deboli e schiave, che non hanno un contenuto di vita loro proprio, che non hanno una meta propria, che vivono alla mercé dell'esterno, orientate verso il mondo, con gli occhi fissi a questo e non al loro fine, sanno la comoda via dell'adattamento. Ma chi ha il proprio ideale, indispensabile, irrinunziabile, morrà, ma, finché vivrà, non potrà adattarsi².

Antonia Pozzi
¹da una lettera a Remo Cantoni
19 giugno 1935

martedì 27 settembre 2011

Nel giorno del mio intervento

Mio prefazio a Pasqua di David Maria Turoldo
Io voglio sapere
se Cristo è mai stato creduto,
se l’evento è reale e presente,
se è venuto, e viene e verrà;
o sia appena un’invenzione
per un irreale giorno del Signore
di contro al cupo giorno dell’uomo.
Io voglio sapere
se veramente qualcuno crede
e come è possibile credere:
se almeno i fanciulli
– avanti ogni cultura –
vedono ancora la faccia del Padre.
Io voglio sapere
se l’uomo è una fiera
ancora alle soglie della foresta:
se la ragione è una rovina
se i fatti hanno una ragione
se la ragione è ancora utile.
Io voglio sapere
se ci sono ancora gli assoluti
o se io sono sacerdote
di colpevoli illusioni,
se è vero che saremo
finalmente liberi se saremo
ancora liberi se saremo mai liberi.
Io voglio sapere
se cantare è ancora possibile
se da ricchi canteremo ancora
se dipingere è ancora possibile
se la bellezza esisterà sempre,
se possibile sarà ancora contemplare.
Io voglio sapere
se la vita è solo meretricio
se il vostro vivere è appena una difesa
contro la vita degli altri:
se qualcuno, almeno qualcuno
crede che tutti gli uomini
sono una sola umanità.
Io voglio sapere
se l’uomo cresce
se c’è un altro avvenire
se la scienza non sia la morte
e la sua macchina non sia la nostra
bara di acciaio.
Io voglio sapere
se esiste una forza liberatrice:
se almeno la chiesa non sia
la tomba di Dio,
l’ultima sconfitta dell’uomo.
Io voglio sapere
se la pace è possibile
se giustizia è possibile
se l’idea è più forte della forza:
quest’uomo bianco,
il più feroce animale
sempre all’assalto
contro ogni altro uomo
o maledetta Europa.
Io voglio sapere
se Cristo ha ancora un senso
chi ha fede ancora in un futuro.
Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se la chiesa ha mai creduto
che sia veramente risorto.
Perché allora è una potenza,
schiava come ogni potenza?
Perché non batter le strade
come una follia di sole,
a dire: Cristo è risorto, è risorto?
Perché non si libera dalla ragione
non rinuncia alle ricchezze
per questa sola ricchezza di gioia?
Perché non dà fuoco alle cattedrali,
non abbraccia ogni uomo sulla strada
chiunque egli sia,
per dirgli solo: è risorto!
E piangere insieme,
piangere di gioia?
Perché non fa solo questo
dire che tutto il resto è vano?
Ma dirlo con la vita con mani candide
occhi di fanciulli.
Come l’angelo dal sepolcro vuoto
con la veste bianca di neve nel sole,
a dire: «Non cercate tra i morti
colui che vive!».
Mia chiesa amata e infedele,
mia amarezza di ogni domenica,
chiesa che vorrei impazzita di gioia
perché è veramente risorto.
E noi grondare luce
perché vive di noi:
noi questa sola umanità bianca
a ogni festa
in questo mondo del nulla e della morte. Amen.
Fonte:LA DIFESA DEL POPOLO (settim. dioces. di Padova) di domenica 19 aprile 2009

lunedì 26 settembre 2011

il buon senso mio che cerca di convincermi che sarò più utile ...


 È questo il problema che mi son posto sovente, anzi così sovente da diventare una tentazione continua allo slancio della mia stessa vocazione.
  Basta deflettere per un istante dal clima di fede nel quale cerco di vivere per vedere subito trionfare in me il "buon senso" umano.
  Il buon senso della madre di frère Paul che non riusciva a capire l'inutile sacrificio del figlio sulle piste sahariane, il buon senso mio che cerca di convincermi che sarò più utile alla gente di Taifet portando qui qualche autocarro di materiale; il buon senso degli uomini che credono che coi soldi si può tutto risolvere e che la sofferenza è inutile spreco.
  Ma c'è il buon senso del Vangelo? O c'è il mistero?
  Forse che Gesù quando venne su questa terra, Lui, l'Onnipotente, Lui l'Amore, non poteva guarire tutti i malati, sfamare tutti i poveri, lenire tutte le piaghe, risuscitare tutti i morti?
  Perché non l'ha fatto? Perché ha lasciato il mondo come l'ha trovato, bisognoso, sofferente, ingiusto, cattivo?
  Ha risuscitato Lazzaro e la figlia di Giairo e il figlio della vedova di Naim è vero, ma solo per provare che non intendeva risuscitare tutti gli altri ed eran molti. Ne ha guariti sì parecchi, ma per lasciarli riammalare alla prima occasione non certo rara per l'uomo sulla terra.
  No, le cose non sono così chiare come il buon senso umano le vorrebbe, e resta, piaccia o non piaccia, un grande e buio mistero che solo la fede mi può illuminare e illuminare con una luce che non è di questo mondo e che ha bisogno per essere utilizzata di occhi ben avvertiti e penetranti. Fratel Carlo Carretto

domenica 25 settembre 2011

la dimensione che da sempre usa la paura

Da anni non frequento più le strade del mondo,
ma ogni giorno lo vedo sfilarmi sotto gli occhi:
quello vicino in chi si accosta al mio letto e mi
racconta di sé ed il mondo fuori in tutti i mass
media, nella grande rete informatica che fa
viaggiare in e per ogni latitudine. Mi accorgo
cos ì   che   l 'uomo oggi   t r ema  pe r  mol t i  de i
maledetti meccanismi che si è creato da solo,
meccanismi che, in un delirio di onnipotenza, ha
creduto gli dessero più potere e
di cui ora non sa come liberarsi.
Potere! Ecco la dimensione che
da sempre usa la paura come
controllo sociale, repressione
perfino spinta al consumismo
smodato di ogni cosa, compresi
i sentimenti e gli affetti.
Paola Nepi